sabato 31 maggio 2014
2014 L19: A varanda do frangipani - Mia Couto
Depois da Independência de Portugal, em 1975, Moçambique enfrentou quase duas décadas de conflitos. O período foi marcado pela oposição entre os antigos guerrilheiros anticolonialistas da Frelimo (que tomaram o poder e tentaram implantar o socialismo no país) e o grupo de orientação conservadora Renamo (alinhado a Rodésia e África do Sul). A história de A varanda do frangipani se passa vinte anos após a Independência, depois dos acordos de paz de 1992.
O romance é narrado pelo carpinteiro Ermelindo Mucanga, que morreu às vésperas da Independência, quando trabalhava nas obras de restauro da Fortaleza de S. Nicolau, onde funciona um asilo para velhos. Ele é um "xipoco", um fantasma que vive numa cova sob a árvore de frangipani na varanda da fortaleza colonial.
As autoridades do país querem transformar Mucanga em herói nacional, mas ele pretende, ao contrário, morrer definitivamente. Para tanto, precisa "remorrer". Então, seguindo conselho de seu pangolim (uma espécie de tamanduá africano), encarna no inspetor de polícia Izidine Naíta, que está a caminho da Fortaleza para investigar a morte do diretor.
Mais de vinte anos depois da independência de Moçambique, quando a guerra civil já arrefeceu, a Fortaleza é um lugar em que convergem heranças, memórias e contradições de um país novo e ao mesmo tempo profundamente ligado às tradições e aos mitos ancestrais. Da sua varanda se pode enxergar o horizonte. O romance de Mia Couto esboça, assim, uma saída utópica para um país em reconstrução.
Mi è costato molto arrivare alla fine. Piaciuto meno del precedente, ma è utile per capire un mondo diverso e una maniera molto diversa di pensare...
sabato 24 maggio 2014
Dilemma etico: Ok il prezzo è giusto?
La storia, vera, mi è stata raccontata da un miocaro amico,
e si è svolta in un paese qui vicino. In questo paese esistono regole arcaiche
simili alle nostre faide, con la differenza che, pagando il giusto prezzo, si possono
estinguere o addirittura evitare che inizino.
Il clima cambia, aumenta la siccità, le terre buone si
riducono e, come diceva Celentano, la dove c’era l’erba… ecco in questo caso la
dove c’è la foresta si rischia, a forza di tagliarla per produrre carbone, di
degradare la terra e renderla poco fertile e poi sterile.
La comunità che vive su queste magre risorse ha capito che
non può permettersi troppi scherzi, per cui proteggono la foresta. Ma alcuni
vicini, con qualche legame di parentela clanica, si sentono autorizzati a
venire a tagliar legna per fare carbone. Sono poveri in canna, se non portano a
casa qualche spicciolo dalla vendita del suddetto, non hanno altre strategie di
sopravvivenza.
Le istituzioni non esistono, quindi meglio non farci conto.
La comunità si rende conto che questi tagli rischiano di
provocare seri problemi a tutti loro. Da quelle parti la “famine”, carestia,
sanno sulla loro pelle cosa significhi e non possono scherzarci sopra.
Un giorno avvisano i giovani tagliatori che la devono
smettere.
Quelli continuano, non vedono alternative.
Arriva il secondo avvertimento, senza esito.
E poi l’ultimo, lo stesso senza risposta alcuna.
Forse immaginate dove vi sto portando. Io non riesco a
togliermelo dalla testa.
Quelli della comunità chiamano gli anziani dell’altra
comunità da dove vengono i giovani, e chiedono il prezzo delle loro vite. Fatto
questo fanno una colletta e tutti partecipano, uomini, donne, vecchi e giovani.
Una volta raccolta la somma, vanno lì e fanno fuori i
tagliatori di alberi. E mandano i soldi pattuiti ai vecchi della comunità.
Il caso è chiuso, niente vendetta. Ok, il prezzo è giusto?
Se fossimo stati tirati in ballo noi a dare un consiglio….
Cosa avremmo fatto?
venerdì 23 maggio 2014
Considerazioni del venerdì
Da metà degli anni 80 in avanti, una serie di movimenti
sociali e ONG del sud del mondo hanno riportato all’attenzione generale del
mondo la questione agraria, cioè la pessima distribuzione delle terre fra pochi
che ne controllano un’enormità e moltissimi che ne controllano poca o non ne
hanno affatto.
Questo obbligò nuovi governi democratici, in Brasile come
nelle Filippine, a riaprire l’eterno dossier della riforma agraria. Seguendo
questi esempi iniziali, e grazie a un’organizzazione di secondo livello che
aveva portato i movimenti sociali latinoamericani a riunirsi in una coalizione
mondiale, La Via Campesina, altri paesi riconobbero l’esistenza di problemi
simili anche da loro, da cui la necessità di intervenire. L’arrivo alla
democrazia da parte del Sud Africa, uscito da secoli di tenebre, portò anche lì
in primo piano la questione agraria e così fu altrove.
I movimenti sociali non sono governo, per cui il loro
compito era quello di fare pressione e stimolare i governi ad agire. Quasi
trent’anni dopo i risultati sono stati pochi ed insoddisfacenti. Aaltre forze
sono intervenute per redirezionare la pressione sulle questioni legate alla
terra verso nuove strade, una volta di più controllate dal nord del mondo. Fu così
che la centralità del mercato come ottimizzatore della distribuzione della
terra venne teorizzata e perseguita da parte degli esperti del nord,
accompagnati dalle istituzioni finanziarie più potenti dei governi stessi. Ogni
qualvolta emergeva il problema a livello nazionale, grazie alle lotte dei
movimenti e forze locali, arrivavano i pompieri a spegnere l’incendio grazie al
pacchetto “Riforme agrarie attraverso il mercato”. Non si ricorda una sola di
queste esperienze che abbia funzionato; credo sia permesso, a distanza di anni,
interrogarsi sul senso profondo di quelle proposte, se realmente, e
ingenuamente, pensavano di favorire una distribuzione più equitativa della
terra attraverso un meccanismo da sempre manipolato e controllato dalle stesse
grandi forze che poi controllano anche le risorse naturali, o se si era
trattato di un disegno volto a spegnere sul nascere gli ardori di chi voleva
cambiare qualcosa partendo dal basso.
Uscita di scena (per l’ennesima volta) la parola riforma
agraria, si pensava che la questione agraria fosse stata risolta. La strategia
dello struzzo però non funzionò. Da cent’anni la questione agraria (1905,
Kautsky) rovina le notti di molti benpensanti del nord. Prima fu la rivoluzione
e riforma agraria avvenute in Russia ed in Messico, con la paura del contagio
bolscevico. Poi fu il periodo di Cuba, che riportò alla luce la vecchia
dottrina Monroe per cui l’aver osato sfidare lo zio Sam a pochi kilometri da
casa era un errore da non commettere due volte (e per questo i cubani pagano
ancora oggi). Quando furono i movimenti sociali a riportarla in auge, gli
oppositori storici confusero il soggetto con l’oggetto. Cercarono di
controllare il soggetto (Movimenti dei senza terra), ma non l’oggetto, la diseguale
spartizione della terra.
Risultato, il tema terra è tornato prepotentemente alla
ribalta, per le stesse cause di sempre: una ripartizione ineguale, forte
concentrazione nelle mani di pochi e instituzioni così deboli (grazie alla
distruzione sistematica imposta dai programmi di aggiustamento strutturale) che
non avevano più nessuna capacità di controllare cosa succedeva a casa loro.
Le pressioni di questi ultimi anni, procedenti da una
miriade di fonti diverse, dagli indigeni, ai sempiterni senzaterra, pescatori
artigianali, comunità forestali etc. etc. ha consigliato un ulteriore cambio di
strategia. Noi avevamo provato a proporre, nella nostra ingenuità, un approccio
basato sul dialogo ed il confronto, con una gradualità nelle azioni supportate
da una moral e technical suasion che le agenzie delle nazioni unite potrebbero
esercitare. Ma questo significava democratizzare il dibattito, riconoscere un
diritto alle forze sociali di far parte dell’arena di dialogo e negoziazione e,
al contrario, ricacciare i grossi conglomerati finanziari nel loro angolo.
Siamo stati degli ingenui, lo ammetto, ed abbiamo sottostimato le capacità di
reazione. Risultato, dal cappello magico è uscita una nuova strategia: basta
mercato della terra ma “buona governanza”. Un concetto così vago da poter esser
stirato da tutte le parti, l’importante poi che chi conducesse la danza
conoscesse i passi da compiere.
Che esista un problema di “governanza” nel mondo, è
indubitabile. Ancor di più quando si parla di risorse naturali, terra, acqua
etc. Penso alla Gran Bretagna e al sostanziale fallimento della riforma
fondiaria nelle Highlands della Scozia, penso a come sono trattati i Lapponi
nelle loro terre nel nord dell’Europa, oppure più vicino a noi la questione
dell’acqua in Italia o le terre occupate dalla mafia e difficilmente rimesse in
produzione da piccoli gruppi locali. Penso all’eterna questione dei diritti
delle popolazioni indigene (o prime nazioni) in Canada, Australia, Stati Uniti.
Non posso non ricordare lo spoliamento delle popolazioni Rom delle loro terre
in Ungheria, insomma l’elenco sarebbe infinito, anche qui nel Nord del mondo.
Ma, paradossalmente, malgrado la nostra civiltà sia superiore a quelle del sud
come ci hanno detto per anni certi nostri politici, malgrado il fatto che l’Africa
non sia ancora entrata nella storia (dixit l’ex Presidente della Repubblica
Francese Sarkozy), sono i movimenti del sud del mondo che hanno riportato
questi temi all’attenzione di tutti. Delle due l’una: o i nostri movimenti, la
nostra società civile, non si è accorta di cosa scottava sotto i loro piedi,
oppure bisogna ammettere che quelli del sud ci vedono meglio e più lontano di
noi.
Il risultato è che quei movimenti che lottano a casa loro
per democratizzare questo bene, per far cambiare politiche e leggi, per
spingere i governi ad azioni a favore dei più svantaggiati, di fatto sono stati
marginalizzati ancora una volta e il centro dell’attenzione è stato recuperato
dalle stesse forze del nord, governi e istituzioni finanziarie, che non avevano
voluto risolvere i problemi precedentemente (e questo per essere gentili…).
Siamo entrati nella fase di implementare le azioni tendenti
a una buona governanza: immaginate che queste tocchino in misura uguale i paesi
citati prima (Gran Bretagna, Norvegia, Svezia, Stati Uniti, Italia, Ungheria
etc.) e quelli del sud del mondo? Ovviamente no. E nessuno trova nulla da
ridire. Tutto è diretto al sud, quello stesso sud le cui istituzioni, dopo lo
tsunami degli aggiustamenti strutturali degli anni precedenti, non si sono più
rimesse inpiedi. Ed è a loro che si imputa la cattiva governanza. Dalle mie
parti si dice: cornuto e mazziato. Scommettiano che, partiti come siamo, non
andremo molto lontano in termini di risultati? Eppure basterebbe che quelle
istituzioni finanziarie che hanno imposto quei programmi che hanno strangolato
i settori chiave dell’educazione, della salute e dell’agricoltura andassero
prima a Canossa e poi mettessero sul tavolo soldi veri e appoggi politici per
rimettere in sesto quelle istituzioni che potrebbero così controllare la nuova
ondata di cosiddetti “investimenti” che stanno arrivando dal nord, prendendo
controllo in una maniera o nell’altra delle risorse rimaste a disposizione nel
sud. Peccato che queste stesse istituzioni le troviamo, invece che a Canossa,
dalla parte di quegli “investitori” che hanno lanciato la nuova Land Rush.
Soldi per rafforzare le barriere non ce ne sono, ma per accellerare il flusso
proveniente dal nord quelli non mancano. La diga non potrà tenere ancora molto.
Ricordatevi che i prezzi delle armi da fuoco stanno scendendo sempre più, per
cui si fa presto a muoversi su un terreno scivoloso dal quale tornare indietro
vittoriosi sarà molto ma molto difficile, come gli Stati Uniti hanno imparato
dall’ Iraq, Afganistan, ed i francesi stanno imparando con le loro avventure
centroafricane.
Buon week-end
giovedì 8 maggio 2014
Pesticidi e generazioni future
Se conoscete il francese e, soprattutto, se vi preoccupa il tema pesiticidi (e affini), allora date un occhio ogni tanto a questo sito:
http://www.generations-futures.fr/sinformer/pesticides/
Questi signori hanno voluto misurare le ricadute sui bambini francesi delle 65 mila tonnellate di fungicidi, insetticidi ed altri erbicidi che sono sparsi nelle campagne francesi ogni anno.
Hanno fatto analizzare i capelli di 29 ragazzi dai 3 ai 10 anni. Il risultato lascia esterefatti: ogni zazzera conteneva in media 21 residui di pesticidi, tutti quanti classificati come perturbatori endocrini.
Citiamone alcuni:
Epoxyconazole, fungicida
3-PBA, utilizzato per lo stoccaggio dei cereali
TCPy, usato nelle vigne
I perturbatori endocrini attaccano il sistema ormonale. Sono sospettati di provocare, anche a piccole dosi, dei tumori ai testicoli e delle pubertá anticipate, malformazioni dell'apparato genitale e di ammazzare gli spermatozoi.
Gli esperti cominciano a chiedersi se la rarefazione degli spermatozoi osservata nei paesi occidentali non sia magari dovuta proprio a loro.
http://www.generations-futures.fr/sinformer/pesticides/
Questi signori hanno voluto misurare le ricadute sui bambini francesi delle 65 mila tonnellate di fungicidi, insetticidi ed altri erbicidi che sono sparsi nelle campagne francesi ogni anno.
Hanno fatto analizzare i capelli di 29 ragazzi dai 3 ai 10 anni. Il risultato lascia esterefatti: ogni zazzera conteneva in media 21 residui di pesticidi, tutti quanti classificati come perturbatori endocrini.
Citiamone alcuni:
Epoxyconazole, fungicida
3-PBA, utilizzato per lo stoccaggio dei cereali
TCPy, usato nelle vigne
I perturbatori endocrini attaccano il sistema ormonale. Sono sospettati di provocare, anche a piccole dosi, dei tumori ai testicoli e delle pubertá anticipate, malformazioni dell'apparato genitale e di ammazzare gli spermatozoi.
Gli esperti cominciano a chiedersi se la rarefazione degli spermatozoi osservata nei paesi occidentali non sia magari dovuta proprio a loro.
venerdì 2 maggio 2014
2014 L18: O Chão das Coisas - Marcelo Panguana
Uma entrevista com o autor, parecida em: http://opais.sapo.mz/index.php/cultura/82-cultura/16042-uma-nova-e-louca-escrita.html
Provavelmente serei um cultor da morte sem me aperceber
Provavelmente serei um cultor da morte sem me aperceber
Tínhamos
estado juntos uma vez nos 33 andares. Acabava de lançar “Como um Louco
ao Fim da Tarde”. Nessa manhã, Marcelo Panguana, como um “guia
turístico” nos levaria por uma lenta caminhada por esse seu livro que
parecia começar do fim. Essa ideia repete-se constantemente.
referimo-nos à sua tendência para a morte – quase sempre a começar –
como já o tinha feito em “O Chão das Coisas”. Para esta entrevista,
libertamo-nos dos seus fantasmas – mais nós do que ele – e
embrenhamo-nos para a criação da nova literatura moçambicana. Era
preciso sair dos seus livros para encontrarmos a ideia do autor e a
construção da nova literatura moçambicana sem o cansado discurso de
gerações. “Quando és bom és bom!”, determina ele como quem diz não nos
cansem com essa história de conflitos de gerações. Marcelo Panguana,
mesmo com uma tendência de sublinhar a classe de diferentes autores e
“corrigir-nos” em relação a Suleiman Cassamo – “ele [Cassamo] não é
cronista, é fotógrafo” – não foge ao debate. Entra nele com toda a
classe como se reflecte também nos seus livros. Nega ser historiador,
mas socorre-se do “tempo” – como elemento de história – para nos falar
de influências da América Latina, assim como de cá da terra como “o
grande Rui Nogar e Luís Bernardo Honwana, o pai da ficção moçambicana”
na nossa literatura. Podíamo-nos alongar num discurso feito de uma
literatura banhada de sangue. Para Marcelo, não é só de sangue que se
faz a nossa literatura, apesar dos seus autores terem vivido as guerras
de resistência, de libertação e dos 16 anos. “Não é só de sangue que se
faz a nossa escrita!”, lembra este escritor que alguns acreditam ter
sido abençoado pelos deuses ronga.
Alguém
escreveu na contracapa de “O Chão das Coisas” que Marcelo Panguana
nasceu abençoado pelos deuses rongas. Como é que os deuses rongas
decidem abençoar alguém para se transformar num cultor de palavras?
Não
me considero uma pessoa abençoada pelos deuses rongas, talvez me
considere um escritor protegido por esses deuses. Muitas vezes, em
algumas intervenções minhas, faço questão de reivindicar o meu lado
ronga e o transformar num estandarte, numa forma de batalha contra
qualquer coisa. Sinto que podemos aproveitar as grandes riquezas que
existem nas etnias deste país, pegar isso e transformar em produto
literário muito rico. As grandes literaturas universais tornam-se
sensacionais quando têm essa capacidade de fazer aproveitamento do lado
cultural, do lado étnico e espalhar essa riqueza pelos seus livros.
Levanta
aqui a questão do “local”. Muitas vezes, quando ouvimos o discurso de
unidade nacional parece sobrepor-se à ideia de local, do
grupo. Quando partimos para nos identificar como “locais” rongas, macuas
ou bitongas não estaremos a abandonar essa ideia de unidade?
A
Frelimo, Samora ou movimento de libertação de Moçambique tinham um
slogan muito bonito que dizia “unidade na diversidade”. Eles tinham
consciência, já nessa altura, que a unidade nacional, como um todo, parte
de muitas parcelas. Uma riqueza cultural parte de uma série de riquezas
individuais. Penso que não se parte absolutamente nada quando se
reivindica “ronguismo”, “changanismo” ou “macuanismos” se é que assim se
pode dizer. Nós temos que ser qualquer coisa antes de sermos um todo.
Da mesma forma que o grande conceito que anda agora que é a globalização
parte de particularidade de cada espaço geográfico, não pode existir
sem Moçambique se integrar com a sua cultura. Um país só se pode tornar
culturalmente forte se tiver a capacidade de explorar a riqueza de cada
etnia.
Se
transportarmos essa ideia para a literatura, como é que o escritor vai
explorar essas particularidades? Ele partirá do geral para o particular
ou fará o inverso?
Agora
o que está na moda, principalmente na Europa, é o romance histórico,
porque os europeus descobriram que é preciso ir buscar a história para
enriquecer o presente. Nós, em Moçambique, estamos a entrar por essa
via. Estamos a criar alguns livros de ficção histórica interessante.
Podemos falar do caso de Ungulani que é mais conhecido através do
“Ualalapi” e muito recentemente através de “Choriro”; podemos também ir
buscar a literatura de João Paulo Borges Coelhos.
Estes dois autores fazem-se valer pelas suas formações em história…
Acho
muito bom que, tanto Borges como Ungulani, explorem o lado de serem
historiadores porque, se reparar, estamos quase um pouco órfãos da nossa
história. A nossa literatura quase que viaja pouco pela nossa história.
Acho preocupante porque as novas gerações ficam um pouco a flutuar
neste universo muito dominado pela literatura ocidental. É preciso que a
gente crie uma literatura com muita história, buscar Ngungunhana;
buscar os conflitos entre os dois irmãos moçambicanos. É bom que as
novas gerações descubram isso e saibam que temos história rica, de modo a
que possam ter os pés assentes no chão e possam avançar.
Para
além de uma literatura de história, também se está a fazer um regresso
ao tradicional. É uma forma de solidificarmos a nossa identidade ou é
medo de avançarmos para outros tempos mais universais?
Nem
uma coisa nem outra. Acho que os escritores escrevem aquilo que
viveram. Enquanto não esgotarem essas vivências que foram muito
profundas, eles não vão dar salto. Acho que só vão dar salto para um
outro tipo de escrita, para outras abordagens, depois de esgotarem essas
vivências. Eu escrevo muito sobre o passado. Reconheço que escrevo
muito sobre as zonas suburbanas onde nasci e cresci. Escrevo muito sobre
o curandeirismo, sobre esse lado obscuro da realidade moçambicana,
porque penso que é o que me marcou e que vai marcar a minha realidade
como homem. Não posso de maneira alguma me desligar disso. É muito
forte. Recordo-me uma vez quando diziam alguns críticos que a literatura
moçambicana estava cheia de muito sangue. Isso tinha muito a ver com o
percurso que o escritor moçambicano teve numa determinada época
histórica. Quando tivemos guerra, estávamos a crescer como escritores.
Bebemos muito dessa guerra, então os nossos livros nunca podiam estar
isentos dessa abordagem. Vivemos muito e escrevemos muito sobre isso até
que esgotamos e passamos para outro tipo de abordagem. Vai reparar que
os próximos livros a serem têm tendência a falar dos novos tempos. Por
exemplo, posso citar o livro que, por coincidência, fiz o prefácio, de
Romão Cossa, “A Ministra”, que é uma abordagem mais contemporânea e com
outros problemas.
Estamos, com “A Ministra”, perante um rompimento com o passado?
Nã é um rompimento, é um casamento entre os dois mundos. O modo
como o mundo moderno tende a sufocar o tradicional. A “Ministra” tenta,
de certa maneira, reivindicar a nossa ancestralidade, dizer que não
devemos, de maneira nenhuma, esquecer o nosso passado, mas sim fazermos
casamento entre esse passado e as novas tecnologia. “A Ministra”
enquadra-se nesse novo tipo de escrita que faz abordagens mais ou menos
contemporâneas. Aborda o passado como forma de questionar o presente.
Quando se refere ao
comentário da crítica em relação ao sangue na literatura moçambicana,
esse dado não estará relacionado ao facto de a nossa história, pelo
menos até ao princípio da década de 1990, ser marcada por guerras?
Depois dos 10 anos de guerra de libertação seguiram-se 16 anos de
guerra, para não falarmos de conflitos entres os reinos.
Não
sou historiador e tenho fraca memória em termos de números, mas posso
tentar inventar dizendo, por exemplo, que nos últimos 35 ou 40 anos o
nosso país foi um palco de guerra; foi um palco de conflitos e nós em
qualquer momento não pudemos abdicar dessa realidade. Mas não quero ser
pessimista e dizer que a nossa literatura está cheia de sangue. Há outra
literatura que está cheia de outras coisas bonitas. A literatura de
Eduardo White está cheia de muito amor, muito erotismo; a literatura de
Songare Okapi está cheia de muito amor; a literatura de
Mbate Pedro está cheia de muitas propostas e abordagens sociais
interessantes; temos literatura de um jovem extraordinário que é Andes
Chivangue que é um prosador por excelência. Temos mesmo a literatura de
Suleiman Cassamo…
…. que é um cronista brilhante.
Acho
que Suleiman Cassamo não é cronista, não é escritor, é um fotógrafo que
usa a escrita para fotografar a nossa sociedade. E é um bom fotógrafo.
Claro, não se fala muito dessas pessoas. A gente fala pouco das coisas
que são nossas, fala pouco dos nossos escritores.
A questão está apenas em falar-se pouco dos nossos autores ou tem também que ver com a sua capacidade de afirmação?
Vejo
essa questão de afirmação de um escritor na sociedade pelo lado de
marketing. Estamos numa sociedade em que alguns artistas se tornam
famosos pela grande capacidade que têm de usar marketing. Infelizmente a
maior parte dos grandes artistas não tem essa capacidade de fazer
marketing. o dom que eles têm é de fazer cultura. Infelizmente, por
causa dessa condição, se tornam artistas pouco conhecidos, pouco
divulgados e o seu trabalho muito pouco reconhecido. O marketing na
cultura é um caso sério. O livro é um produto como pão e sabão, tem que
se vender e para se vender é preciso marketing. Infelizmente, nem sempre o marketing serve para divulgar os bons artistas
A
nossa literatura, desde sempre, foi construída nesse desafio de
divulgação, rompimento com o passado e uma nova reconstrução. Não será
Marcelo Panguana fruto dessa reconstrução e de diversas influências?
Tive
a sorte de fazer parte de uma geração literária que surge precisamente
na altura que nasce o país, o que me leva a dizer que a literatura
moçambicana tem a mesma idade que o país. Dizia que tive a sorte de
nascer como escritor na altura em que estávamos a tentar desenhar os
traços através dos quais se poderia, eventualmente, criar a nova
literatura moçambicana. Numa geração que incluía Pedro Chissano, Eduardo
White, Hélder Muteia, Tomás Vieira Mário, Armando Artur, Paulina
Chiziane e Ungulane Ba Ka Khosa. Trata-se de uma geração
que nasceu do movimento literário chamado “Charrua”, que, aliás, não foi
o único. Na altura existiam muitos movimentos como a “Forja”, liderado
por Castigo Zita, o “Eco” que era liderado por Inácio
Chire, Hélder Muteia e Daniel da Costa. tivemos uma revista que tinha
seu espaço na UEM… existiam muitos movimentos literários e todos nós
tínhamos a preocupação comum, que era criar a nova literatura
moçambicana. Apesar de poucos instrumentos intelectuais para termos essa
ousadia, criámos (a nova literatura), com todos os erros que existiam.
Criámos a literatura moçambicana que agora temos; criámos as primeiras
páginas literárias, os primeiros suplementos culturais nas revistas e
nos jornais da altura e criámos, sobretudo, esta nova forma de escrever,
naturalmente influenciados por grandes escritores como Jorge Amado,
Hemingway e todos os escritores latino-americanos. Também fomos
influenciados por alguns escritores moçambicanos, caso de
Luís Bernardo Honwana - que é o pai da ficção moçambicana -, caso de Rui
de Noronha, Rui Knofi, Orlando Mendes e o grande Rui Nogar. São os
autores que nos influenciaram e através dos quais fomos capazes de dar
um salto para criarmos uma literatura nova e sermos capazes de fazer uma
ruptura entre a literatura de combate, que se fez durante o período da
guerra de libertação, para criarmos outra literatura que fosse mais
sonhadora, mais universal, mais… mais louca!
Fala
de rompimento com a literatura de combate. Depois desse movimento que é
constantemente simbolizado pela “Charrua” surge uma outra geração mais
jovem. Como é que olha para o que é feito pela nova vaga de autores?
Sente que é uma continuação ou eles também vem romper com o que foi
feito pela “Charrua”?
Sempre
fui contra um certo pensamento que, muitas vezes, se divulga, tentando
falar-se de literatura através de idade. Ou tu és bom ou não és!
Independentemente de seres desta ou da outra geração, ou tu és ou não és
bom! Coloco as coisas dessa maneira. Não acredito no conflito de
gerações, em termos artísticos, não existe. Acho isso uma
construção de pessoas que tentam nos entreter, tentam nos desviar da
questão fundamental que é criar uma literatura ou uma cultura
moçambicana de facto. Isso para dizer que encaro com naturalidade o
surgimento de outros valores literários como Lucílio Manjate, Songare
Okapi, Mbate Pedro e tantos outros que todos os dias vão surgindo no
nosso universo literário. Isso indica que estamos num bom caminho,
porque uma literatura não se faz com uma determinada geração, faz-se com
escritos de cada pessoa de todas as gerações e de todas as
criatividades.
Isso tem também a ver com influências?
Não
me influenciei por ninguém. O primeiro grande livro que li foi a
bíblia. Tenho uma forte educação religiosa. Li muito a bíblia e outros
escritos religiosos em língua ronga e é, por isso, que domino bem o
ronga tanto escrito como falado. Sou um grande defensor da religião,
porque acho que, neste mundo em que os homens perderam confiança nas instituições e nos líderes políticos, só sobra a religião para poder manter o equilíbrio.
Em
“Como um Louco ao Fim da Tarde” assim como em “O Chão das Coisas” há
uma permanente referência à morte. Qual é a sua relação com a morte?
Há
certas coisas que a gente faz inconscientemente. Agente só faz e não se
apercebe. Quando pensei em escrever estes livros só estava preocupado
em contar histórias. Provavelmente o meu inconsciente foi mais forte que
outras coisas. Penso que a morte, de certa maneira, é uma realidade
sobre a qual não nos podemos alheiar. Não sei por que é que pode ser
considerado um caso interessante falar da morte se ela é
tão interessante como a própria vida. Falar da morte é como falar de
amor; da vida; da esperança das outras coisas. É parte integrante da
nossa existência. Não podemos tornar a morte um tabu, uma coisa que não
se pode abordar. Como diria um escritor que não me lembro o nome, às
vezes é preciso falar da morte para exorcizar a parte negra, triste e
nebulosa que traz a morte. Provavelmente serei um cultor da morte sem me
aperceber.
giovedì 1 maggio 2014
Not ACAB
Non tutti i Poliziotti e Carabinieri sono bastardi. Bisogna
dirlo. Roberto Mancini, vice commissario ucciso dalla Terra dei Fuochi era di
un’altra categoria. Credeva sul serio a quei valori per cui si era arruolato,
così come alcuni di noi credono sul serio all’idea di lottare contro la povertà
e la fame a partire da una questione di diritti.
Quei diritti negati a Federico Aldrovandi e a Riccardo
Magherini uccisi da poliziotti e carabinieri figli di quella cultura storica
che in Italia trova sempre spazio negli ambiti di potere. Stefano Rodotà in un
bellissimo editoriale di oggi su Repubblica si limita a un riferimento
temporale degli ultimi 20 anni; magari avrebbe potuto usare la sua lunga
memoria storica per ricordare come il passaggio dal Fascismo alla Repubblica
sia stato caratterizzato dal mantenimento di gran parte di quei funzionari,
poliziotti e carabinieri che avevavno servito il regime fascista, quello delle
leggi razziali, dei massacri compiuti in Africa e delle avventure guerriere a
fianco del figlioccio austriaco. Quella cultura è rimasta, da noi come in altri
paesi (la Francia in primis). I fascisti e razzisti hanno sempre saputo restare
a fianco del potere. Ci stupiamo adesso di questi atti del sindacato fascista
dei poliziotti, ma non dovremmo. L’ ex Cavaliere lo aveva capito prima di
tutti, quel mondo di fasci e razzisti è sempre lì, e rappresenta un bacino
elettorale importante. Sono usciti allo scoperto e tutti fanno finta di
stupirsi. Ma basterebbe uscire un po’ dall’Italia per rendersi conto che il non
aver voluto fare i conti con questa gentaglia all’epoca della fine della
guerra, ci ha portato adesso a trovarli più baldanzosi di sempre. Un sondaggio
inglese indica un 30% di populisti e fasci alle prossime elezioni: eccoli lì a
rialzare la testa, anche perché non l’hanno mai abbassata. Scommettiamo quello
che volete che fra un paio di mesi di questi non se ne parlerà più, resteranno
tutti ai loro posti, finchè un giorno li troveremo a fare i Ministri? Esagero?
Ma chi era quel Fini, diventato ministro, vice premier e quanto altro se non lo
stesso fascista che era anni prima? E Alemanno? Ce lo siamo scordati? Adesso
quelli del Sindacato fasacista sono lì a cercare i referenti politici, e li
troveranno. Il mondo va a destra, diventa più razzista perché abbiamo accettao
di far entrare la paura dentro casa nostra, perché non ci battiamo più per
nulla. Il vestitino alla moda, il profumo, la macchina ultimo modello, ecco
cosa interessa la gente… poi si scopre che la crisi è arrivata anche qui e che
non se ne andrà, anzi sarà peggio, perché quelli che comandano e per cui avete
votato sono quelli che appoggiano un capitalismo finanziario che taglia lavoro.
Meno lavoro, qui come in Africa, e più gente. Miliardi in più. Quindi, cosa facciamo? I poliziotti ammazzano,
i carabinieri lo stesso, perché si sentono figli di una cultura da Far West..
con l’unica differenza che il Far, il lontano Ovest non c’è più. Siamo arrivati
alla frontiera e adesso dobbiamo imparare
afare i conti con noi stessi. La questione dei diritti diventa sempre
più centrale, ma cercare di metterla nella testa di quella gente, di questi
partiti, da noi come altrove, sembra uno sforzo di Sisifo. Ma dobbiamo farlo,
non restare a casa davanti al televisore o al computer, non manifestando “virtualmente”,
ma sul serio. Bisogna darsi da fare, perché dipende solo da noi.
Iscriviti a:
Post (Atom)