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lunedì 29 settembre 2014

Terre (pubbliche) e briganti



In questi d’anni, segnati da un intensificarsi dell’accaparramento delle terre, gran parte delle quali gestiti da comunità contadine sotto regimi consuetudinari, val la pena ricordare un po’di storia patria, particolarmente col passaggio di Garibaldi al sud e l’emergenza del brigantaggio.

La promessa delle terre spiega il grande seguito che Garibaldi ebbe tra gli umili e tra i contadini. Il Decreto del 2 giugno 1860 con il quale Garibaldi stabiliva che i combattenti sarebbero  stati compensati con quote del demanio, suscitò aspettative spasmodiche. La gioia durò poco, fino al 5 settembre dello stesso anno quando il proclama di Garibaldi di esercizio gratuito degli usi di pascolo e di semina delle terre fu revocato. La mancata distribuzione delle terre ai contadini diede luogo a tumulti di piazza e a gravi fatti di sangue in parecchi comuni dell’isola come Corleone, Cinisi, Vicari, Caltanissetta, Cerami, Caronia, Acireale, ecc. Tutta la Sicilia era in rivolta. I fatti più gravi e più noti si ebbero a Bronte, il 7 agosto. Non erano trascorsi neanche tre mesi dallo sbarco di Garibaldi e già la rivolta divampava.

Nei programmi delle forze politiche e nelle scelte economiche del nuovo Stato, i grandi bisogni delle masse povere delle campagne non avevano trovato alcuna risposta. Rispondere, infatti, avrebbe significato, per lo Stato, affrontare la questione della terra, cioè garantire l’accesso alla proprietà ai ceti contadini. In realtà gli uomini che avevano diretto il Risorgimento nazionale erano in prevalenza grandi proprietari fondiari, ostili per interessi e condizione sociale a promuovere quella riforma agraria che avrebbe avvicinato le masse rurali al nuovo Stato. Ai bisogni delle masse povere meridionali rimasero sostanzialmente sordi anche i democratici, tra i quali le idee del socialismo risorgimentale di Ferrari e Pisacane non avevano raccolto molte adesioni. Durante la conquista del Mezzogiorno, i dirigenti garibaldini, infatti, avevano manifestato il loro disinteresse, quando non la loro ostilità, verso le rivendicazioni dei contadini meridionali che si erano avvicinati all’esercito di liberazione con un carico rilevante di aspettative sociali. Di fronte alle proteste contadine volte a ottenere di nuovo i propri diritti d’uso sulle terre demaniali che i latifondisti avevano usurpato, di fronte all’occupazione delle terre, l’esercito garibaldino rispose con la fucilazione dei contadini insorti, come accadde a Bronte; queste azioni e queste scelte si ripercossero a fondo e lontano nella coscienza dei contadini ricacciandoli dall’iniziale adesione al moto liberale unitario in una passività fatta di rassegnazione, di sfiducia e anche di ostilità. Infatti, dopo l’editto di Garibaldi del 2 giugno 1860, le masse rurali si erano illuse che “la rivoluzione unitaria italiana” portasse con sé la tanto sospirata divisione delle terre, ma si dovettero ricredere perché, con l’avvento di Vittorio Emanuele, i comitati liberali, composti da ricchi borghesi ferventi “unitaristi”, si impossessarono delle amministrazioni comunali e delle relative casse, misero mano ai documenti relativi al patrimonio demaniale, sul quale i contadini ed i pastori esercitavano gratuitamente gli usi civici, e lo misero all’asta. In questo modo le terre non infeudate passarono velocemente in loro possesso ed ai contadini, defraudati dei loro secolari diritti d’uso (gli usi civici), rimasero due possibilità: “o brigante o emigrante”. (http://win.storiain.net/arret/num116/artic2.asp)



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