In questi d’anni,
segnati da un intensificarsi dell’accaparramento delle terre, gran parte delle
quali gestiti da comunità contadine sotto regimi consuetudinari, val la pena
ricordare un po’di storia patria, particolarmente col passaggio di Garibaldi al
sud e l’emergenza del brigantaggio.
La promessa
delle terre spiega il grande seguito che Garibaldi ebbe tra gli umili e tra i
contadini. Il Decreto del 2 giugno 1860 con il quale Garibaldi stabiliva che i
combattenti sarebbero stati compensati con quote del demanio, suscitò
aspettative spasmodiche. La gioia durò poco, fino al 5 settembre dello stesso
anno quando il proclama di Garibaldi di esercizio gratuito degli usi di pascolo
e di semina delle terre fu revocato. La mancata distribuzione delle terre ai contadini diede luogo a tumulti di
piazza e a gravi fatti di sangue in parecchi comuni dell’isola come Corleone,
Cinisi, Vicari, Caltanissetta, Cerami, Caronia, Acireale, ecc. Tutta la Sicilia
era in rivolta. I fatti più gravi e più noti si ebbero a Bronte, il 7 agosto.
Non erano trascorsi neanche tre mesi dallo sbarco di Garibaldi e già la rivolta
divampava.
Nei programmi
delle forze politiche e nelle scelte economiche del nuovo Stato, i grandi
bisogni delle masse povere delle campagne non avevano trovato alcuna risposta.
Rispondere, infatti, avrebbe significato, per lo Stato, affrontare la questione
della terra, cioè garantire l’accesso alla proprietà ai ceti contadini. In
realtà gli uomini che avevano diretto il Risorgimento nazionale erano in
prevalenza grandi proprietari fondiari, ostili per interessi e condizione
sociale a promuovere quella riforma agraria che avrebbe avvicinato le masse rurali
al nuovo Stato. Ai bisogni delle masse povere meridionali rimasero
sostanzialmente sordi anche i democratici, tra i quali le idee del socialismo
risorgimentale di Ferrari e Pisacane non avevano raccolto molte adesioni.
Durante la conquista del Mezzogiorno, i dirigenti garibaldini, infatti, avevano
manifestato il loro disinteresse, quando non la loro ostilità, verso le
rivendicazioni dei contadini meridionali che si erano avvicinati all’esercito
di liberazione con un carico rilevante di aspettative sociali. Di fronte alle
proteste contadine volte a ottenere di nuovo i propri diritti d’uso sulle terre
demaniali che i latifondisti avevano usurpato, di fronte all’occupazione delle
terre, l’esercito garibaldino rispose con la fucilazione dei contadini insorti,
come accadde a Bronte; queste azioni e queste scelte si ripercossero a fondo e
lontano nella coscienza dei contadini ricacciandoli dall’iniziale adesione al
moto liberale unitario in una passività fatta di rassegnazione, di sfiducia e
anche di ostilità. Infatti, dopo l’editto di Garibaldi del 2 giugno 1860, le
masse rurali si erano illuse che “la rivoluzione unitaria italiana” portasse
con sé la tanto sospirata divisione delle terre, ma si dovettero ricredere perché,
con l’avvento di Vittorio Emanuele, i comitati liberali, composti da ricchi
borghesi ferventi “unitaristi”, si impossessarono delle amministrazioni
comunali e delle relative casse, misero mano ai documenti relativi al
patrimonio demaniale, sul quale i contadini ed i pastori esercitavano gratuitamente
gli usi civici, e lo misero all’asta. In questo modo le terre non infeudate
passarono velocemente in loro possesso ed ai contadini, defraudati dei loro
secolari diritti d’uso (gli usi civici), rimasero due possibilità: “o brigante
o emigrante”. (http://win.storiain.net/arret/num116/artic2.asp)
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