Un mese è passato e pian piano comincio a riemergere dalle brume thailandesi. Ci vorrà del tempo dato che l’esilio forzato è stato (e ancora è) difficile da digerire.
In tanti mi hanno ripetuto in questi giorni che in fin dei conti non era poi così male. Ovviamente è tutta una questione di aspettative e di percezioni. Nel mio caso sconto le illusioni politiche di molti anni, il credere che il campo progressista sia fatto di uomini e donne per un certo verso migliori degli altri, con maggior empatia, capacità e volontà di capire gli altri, andare verso di loro e di non essere così schiavi del potere come una qualsiasi persona di destra.
Ho creduto a tutto questo durante molti anni, mi ero illuso fin dal lontanissimo 1983, primo viaggio in Nicaragua e l’incontro con una rivoluzione che diceva di voler essere diversa dalle altre, vicina alla gente e bla bla bla. Daniel Ortega era il nostro mito, per finire oggi a far parte di quel Pantheon al rovescio, così ben riempito di tanti cosiddetti “progressisti”. Erano anche gli anni d’oro di Mitterand all’Eliseo, e il mio cantante francese preferito, Renaud, cantava di essere diventato un anarco-mitterandista (chiedendosi anche, in rima, se ciò esista). Con gli anni arrivammo a detestare quell’uomo, la sua arroganza e sete di potere, il nulla fatto politica. Più vicini a noi furono gli anni dei progressisti al potere in America Latina: oggi li troviamo praticamente tutti invischiati in storie di corruzione, Panama papers, Odebrecht e compagnia, da far vergognare qualsiasi persona di buonsenso che ancora voglia ricordarli.
Nel mio lavoro mi sono ritrovato esattamente con questo tipo di capi, ai piani alti: latinoamericani di “sinistra” che oggi in molti consideriamo come “sinistri”. Tante belle parole ma fatti che hanno dimostrato di che pasta erano realmente fatti. Il non accettare il dialogo, il confronto anche su posizioni diverse, l’assoluta cecità che avvolge chi arriva ai piani alti del potere e che non può ammettere che qualcuno giù in cantina dica, su basi vere, di terreno come diciamo noi, delle verità diverse. Ecco quindi che l’esilio diventa la soluzione: sbarazzarsi di chi rompe le scatole e questo nel momento stesso in cui sei costretto, tu, al piano di sopra, di ammettere che l’insistenza di quello giù in cantina nel ricordare che bisognava occuparsi di più anche di certi temi era corretta. Per cui ti mandano via quando hai raggiunto lo scopo principale, e cioè far sì che la tua organizzazione dichiari di volersi impegnare seriamente e secondo quei principi di dialogo e negoziazione che difendevo da quindici anni.
Bangkok diventa quindi una prigione dorata, nella quale mi si autorizza a continuare a lavorare sui paesi in conflitto… in Africa. Elementare Watson.
Thailandia, un paese dove non hai diritto di dire una parola che ti ritrovi in prigione. Nessuno dei miei colleghi nazionali o internazionali può permettersi di parlare o di proporre di studiare le politiche agricole messe in atto dal governo di Yingluck Shinawatra, la sorella di quel Thaksin dipinto in occidente come il Berlusconi locali, e il cui governo è stato spazzato via dal golpe militare nel 2014. Non possiamo quindi studiare quelle misure che noi, FAO, da anni proponiamo, e cioè di politiche a favore dei piccoli contadini, dei prezzi pagati che permettano loro non solo di sopravvivere ma anche di accumulare qualcosa. Questo era stato il cuore dell’azione politica di quel governo, spazzato via dai militari con tutte le politiche positive che avevano messo in atto. Il maggior trasferimento di risorse dai ricchi ai poveri che la Thailandia avesse conosciuto da molti decenni. Adesso la povertà è tornata a salire, noi non possiamo dire nulla se non dare consigli su come migliorare la qualità dei suoli agricoli, come fosse quello il problema per i contadini.
Thailandia, un paese dove non può andare a visitare quelle regioni contadine del nord ancora favorevoli ai Shinawatra, e questo per ragioni di sicurezza. Una volta tanto che un governo faceva qualcosa di serio per aiutare i più deboli, ecco come è finita. Stare lì è stata quindi una sospensione temporale. Gli altri colleghi devono restarci di più, e ognuno deve trovare il proprio equilibrio, ma per me resta difficile capire come possiamo combinare i valori che difendiamo con la politica della bocca chiusa. Io non l’ho mai fatto, e per questo non ho fatto carriera e ho collezionato tanti nemici ai piani alti. Ma sotto, giù in cantina, sono in tanti a vedere in me un esempio. La speranza è che, adesso che me ne vado in pensione, altri osino continuare a tenere alta la testa. Ci sono prezzi da pagare, ma ci sono cose per cui bisogna lottare, altrimenti te ne vai dalle nazioni unite e vai a lavorare in altri settori. Io ho sempre considerato un grande onore il poter servire quegli ideali di fratellanza, rispetto promossi dalle nazioni unite. Sono sempre stato anche cosciente dei limiti, e non confondo il mondo NNUU con quello di piccole organizzazioni partigiane. Siamo cosa diversa, con possibilità e doveri diversi. A noi tocca il compito di osare lassù dove volano le aquile, dove gli altri non possono arrivare, e quindi usare quei meccanismi che abbiamo per poter dire certe verità che fanno male, a certi governi, a certe imprese e anche agli altri attori. Questo non perché pensiamo di avere la scienza infusa e la verità in tasca, ma semplicemente perché in un mondo dominato dalla paura, qualcuno deve fare un primo passo.
Tocca a voi ragazzi, io sarò sempre al vostro fianco.