C’era una volta una figura multivalente che si chiamava il contadino. All’epoca la consonanza maschile era d’obbligo, anche se molte erano le contadine femmine a far parte del gruppo.
Il contadino, figura strana, a cui raramente abbiamo pensato seriamente. Cos’era? Beh, verrebbe da dire, era uno che abitava in campagna, lavorava la terra e produceva da mangiare. Tutto giusto, ma poi le scienze sociali ci hanno insegnato che erano anche qualcos’altro: erano una cultura, una storia e un saper-fare.
La sinistra ha avuto sempre delle difficoltà a decifrare questa figura, e quando lo ha fatto, come alla fine del XIX° secolo, non sapendo che terminologia usare, ha preso a prestito quella urbana che Marx e Engels avevano fornito: le classi sociali contemplavano i ricchi, i padroni, e poi i proletari e infine i sottoproletari. In campagna le cose si complicavano, perché c’erano sia i braccianti, che si potevano assimilare a dei proletari perché fornivano la manodopera e non erano proprietari di nulla, ma c’erano anche i piccoli proprietari che, non sapendo dove metterli, venivano classificati come piccolo-borghesi, cioè dei capitalisti. Le cose si complicavano ulteriormente perché poi arrivavano i mezzadri e infine quelli che erano sia un po’ proprietari che un po’ braccianti. Insomma, un casino.
Il tentativo ufficiale, sancito dai grandi teorici marxisti come Kautsky a cui si ispirò Lenin, fu di considerarli come una classe destinata a scomparire, perché non erano abbastanza forti come capitalisti, così da considerarli dei nemici di classe, ma nemmeno così chiaramente proletari da “capire” che il loro destino, la loro voglia di diventare piccoli proprietari, andava contro la storia e contro i loro interessi.
Fu così che, grazie a una confusione terminologica e concettuale, la sinistra mondiale condannò la figura del piccolo coltivatore familiare e promosse la collettivizzazione forzata e la proletarizzazione delle forze agricole in nome di un futuro radioso che nelle campagne non si verificò mai.
Questa incapacità da parte della sinistra di capire cosa fossero i contadini (per chi avesse voglia e tempo consiglio di leggere il testo di Hans Georg Lehmann - Il dibattito sulla questione agraria, edito da Feltrinelli nel 1977 con traduzione dall’originale tedesco di mio fratello Bruno) è stata (ed è) responsabile, almeno parzialmente, delle asimmetrie di potere che si sono create pian piano contro questo gruppo sociale.
Durante molti decenni, gli economisti del mondo intero si sono affannati a guardare l’agricoltura (e quindi i contadini) sotto l’angolo dell’economia. Anche l’agronomia veniva ridotta a una scienza complementare alla regina, cioè all’economia. La questione era quanto si produceva (in solido) e con quali costi. Il dibattito destra-sinistra si ridusse così a una questione di numeri su chi facesse meglio usando meno risorse. Produttività unitarie, a ettaro, a ora di lavoro, dettarono per decenni l’agenda di governi e di forze politiche in tutto il mondo.
Era una battaglia persa in partenza per le forze progressiste, perché era evidente che l’avanzare della moto-meccanizzazione e poi della chimica portavano a risultati sorprendenti con sempre meno manodopera. In Italia il dopoguerra fu dominato da una battaglia inutile come quella della difesa dell’imponibile (cioè una certa quantità di manodopera da doversi usare per ogni ettaro coltivato); una battaglia per salvare il lavoro in agricoltura (occhio, non per salvare i contadini, che non erano ancora stati capiti). Battaglia inutile perché le leggi dell’economia con cui si voleva misurare il settore agricolo erano a senso unico: con macchine e chimica aumentava in modo esponenziale la produttività, e i bisogni di contadini si riducevano a vista d’occhio.
Non riuscendo più a capire questo mondo strano, alla fine gli economisti, fra cui i nostri italiani, lasciarono perdere il settore agricolo e si misero a discutere di altro.
Oggi noi cerchiamo di riaprire questa discussione. Da un lato usando lo strumento del romanzo (come ho fatto con Esperanza, Marne Rosse e Libambos), dall’altro sintetizzando questi ultimi 50 anni con un breve excursus storico-economico pubblicato da Meltemi col titolo: Di chi è la terra?.
Il punto di partenza resta sempre lo stesso: chi sono i contadini (e le contadine). Come avvicinarli, studiarli e capire a che forze siano sottomessi nel mercato globale.
In questo breve post metto solo alcuni elementi iniziali di una riflessione che mi viene nel sonno e a cui sto cercando di dare forma completa.
Il contadino: direi che dobbiamo pensarlo in termini sistemici e quindi al di là del produttore agricolo. Il contadino è quella figura che artificializza un ambiente naturale per renderlo utile a delle necessità umane. E’ quindi un trasformatore, di un ecosistema naturale, del quale fa parte, in modo da renderlo compatibile con le proprie necessità. Trasformatore prima di produttore. Ecco la chiave di lettura. Trasformare e rendere compatibile, il che chiarisce subito quali siano le priorità: (i) la prima è di far sì che l’ecosistema che viene modificato, artificializzato, resti in grado di mantenersi per far sì che, nel ciclo successivo, la stessa operazione possa ripetersi. Modificare un ecosistema per fini alimentari umani vuol dire estrarre della fertilità, canalizzarla verso produzioni utili ai nostri fini, umani ed animali. Ecco quindi la centralità della riproduzione della fertilità. Un contadino che non abbia questa priorità, semplicemente non esiste storicamente, perché è destinato a scomparire.
Le possibilità di aggiustamento del sistema, cioè di far sì che la quantità di fertilità estratta venga riposta, sono molte e dipendono dalle condizioni geografiche, agronomiche e altro. Se la quantità di terra a disposizione è molta, mentre le tecniche lavorative limitate, posso mettere a coltura una superficie per pochi anni, senza preoccuparmi del ripristino della fertilità, ed aspettare qualche decennio perché la natura faccia da sola il suo corso. E’ questo il principio basico della défriche-brulis, slash and burn, corte y quema o taglia e brucia in italiano. La strumentazione è molto basica ma serve una superficie grande, che permetta dei cicli colturali di qualche decennio, in modo che la fertilità estratta nei due-tre anni in coltivazione, possa rifarsi col tempo. A mano a mano che le disponibilità fisiche di terra si riducono, altre tecniche sono state elaborate, per esempio coltivare un anno su due o su tre, e lasciare a “riposo” le terre negli anni non coltivati. In epoche più recenti, dopo la rivoluzione agricola della fine del XVIII° secolo, con l’introduzione delle leguminose il problema si è risolto in modo diverso, permettendo anche un’aumentata produttività unitaria.
Tecniche che cambiano nel tempo ma restano fedeli al principio di base: riprodurre quella fertilità che viene estratta dalla coltivazione. Questo era il primo principio. Il secondo era collegato a questo: per fare in modo che il sistema agrario aziendale fosse equilibrato, bisognava promuovere dei cicli integrati, quella che oggi chiameremmo agro-ecologia, bisognava mantenere la biodiversità, ecco l’attenzione maniacale alle siepi divisorie, bisognava occuparsi della circolazione dell’acqua (consiglio di leggere: Fossi e cavedagne benedicon le campagne), bisognava trasformare i prodotti e riciclare i residui etc. etc. Insomma il paesaggio economico, ecologico e sociale doveva funzionare come un insieme. La dimensione ecologica, della biodiversità, così sconosciuta agli economisti di sinistra o no, non venne compresa per troppo tempo. Il contadino era il primo agente ecologico, perché era nel suo interesse mantenere e promuovere un equilibrio tra l’essere umano (predatore di risorse altrui) e la natura (che era esistita, e esisterà, anche senza l’essere umano).
Al ridurre tutta la questione a una semplice discussione di produttività economica, cioè di profitto, ci si dimenticava di tutte le altre variabili che facevano la differenza tra un contadino e un operaio. L’operaio svolge delle mansioni uguali e ripetitive, misurabili in ore e minuti, e non gli si chiede altra capacità che quella di ripetere la stessa operazione in tempi ridotti, mentre il contadino deve aggiustare una serie di variabili alle questioni riproduttive-produttive, in funzione di variabilità climatiche, di qualità dei terreni, delle diverse varietà e delle richieste del mercato. In altre parole, se il contadino non mantiene l’insieme dell’ecosistema all’interno del quale opera, non potrà sopravvivere.
Il secolo passato ha visto questo riduzionismo all’opera come non mai. Grazie alla moto-meccanizzazione, alla chimica e al miglioramento genetico, la questione economica è diventata centrale: ha permesso di abbassare i prezzi agricoli, eliminando in maniera costante e progressiva tutti quei coltivatori che non riuscivano a tenere il ritmo dei più produttivi, e questo in un mercato unico in formazione che metteva in contrapposizione un agricoltore del Mid-West americano con un poveraccio dell’altopiano centrale dell’Angola, con produttività di 1 a 1000. L’eliminazione dei contadini è diventata la regola, tanto che adesso nelle economie avanzate ci accontentiamo di cifre irrisorie, 3-4 percento di contadini rimasti, e sognando che si possano eliminare anche quelli grazie al progresso meccanico, all’automazione e alla chimica e ricerca agricola.
Poi qualcuno ha cominciato a chiedersi se fosse quello il futuro che vogliamo. Malgrado le mirabolanti produttività unitarie in agricoltura e i prezzi sempre più bassi pagati ai contadini, ci troviamo con un miliardo di persone che muoiono di fame, tre miliardi che soffrono la povertà, una obesità crescente nei paesi del Nord e, ciliegina sulla torta, un ambiente sempre più rovinato. Nessuno più si occupa dei boschi, di ripulire i fiumi e i fossi in campagna, l’eliminazione delle siepi ha ridotto la biodiversità dappertutto e la chimica ha fatto il resto. Prezzi pagati ai contadini che scendono e prezzi finali che salgono. Qualcuno intasca la differenza e non lo fa per il bene comune.
Oggi mangiamo male, siamo più ammalati di prima e abbiamo preso una strada dalla quale difficilmente potremo tornare indietro. Siamo riusciti a trasformare i contadini, da esseri che conoscevano e gestivano un ecosistema, a semplici operai-massa, come venivano descritti a fine anni 50 da Tronti e Negri. Operai che sanno fare sempre meno, che non conoscono più il territorio e ai quali abbiamo fatto capire che non ci interessano. Una volta i contadini erano una forza sociale e politica: avevamo le Leghe, bianche e rosse, e bisognava fare i conti con loro. Adesso ci sono rimasti pochi contadini, isolati in un mercato che si è adattato meglio di loro. Per decenni l’obiettivo era di produrre quantità maggiori di prodotti con qualità simili e a prezzi ridotti, il che ha fatto piazza pulita di migliaia di varietà di grano (solo per fare un esempio) che erano adattate ai terreni diversi delle nostre campagne europee: solo in Francia siamo passati dalle oltre 300 varietà a non più di 15, e questo come risultato di politiche pubbliche che cercavano il taylorismo in campagna. Poi il cittadino si è ribellato e ha cominciato a chiedere la “diversità”. Ed ecco pian piano, negli ultimi decenni, apparire marchi e sottomarini di tutti i tipi, polverizzando l’offerta (sempre però gestita dalla grande distribuzione), in modo da far credere al consumatore di poter scegliere cosa mangia.
Non è vero. Il potere è passato sempre più in poche mani, i contadini trasformati in operai-massa finiranno con lo scomparire, lasciando dietro delle piccole tracce di agricoltori biologici o biodinamici, pochi e isolati, senza potere contrattuale, mentre delle loro terre se ne farà sempre più un uso diverso, non utile alla comunità, e l’accumulo di profitto nelle mani dei pochi riporterà un giorno a chiederci, come facevamo all’inizio: era questo il mondo che volevamo? Io dico di no, e la resistenza va organizzata. Ma innanzitutto bisogna capire a che gioco stiamo giocando, come diceva il Maestro Mazoyer.
La riflessione continua.
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