Capita di rivedere il film Novecento, oppure L’albero degli zoccoli, e ti ritorna in mente un mondo contadino, duro, difficile, ma dove il rapporto essere umano-natura era basato sul rispetto e sulla coscienza che la Natura era cosa complessa, che stava lì prima di noi umani e che ci sarà ancora dopo di noi. Ecco perché bisognava studiarla, cercare di capirla per anticipare gli avvenimenti. Bisognava conoscere le terre, le acque, le foreste, il clima, le piante e le erbe e gli animali. Un sapere che bisognava aggiornare continuamente, così come si faceva con le scelte produttive: con piantare, come e quando. Lo stesso dicasi poi per gli strumenti di lavoro che andavano costruiti, riparati e adeguati alle diverse necessità delle diverse terre e colture.
Insomma, un/a contadino/a era una figura complessa, faceva sistema a sé. E siccome, malgrado il loro sapere individuale fosse elevato, bisognava anche parlarsi con gli altri, smaniare idee, sementi, chiedere e dare consigli. Erano imprenditori, cioè facevano impresa. Non ha stupito nessuno che queste capacità, una volta passate ad altri settori produttivi negli anni del boom economico, abbiano dato luogo a una miriade di piccole, medie e grandi industrie, un po’ artigianali e un po’ già nel XXI secolo, come le abbiamo conosciute nel nostro Veneto, giusto per fare un esempio.
Uscimmo dalla guerra con questo capitale ma alcuni decisero che, in Europa come negli altri paesi del Nord, era un capitale vecchio, non adeguato al nuovo mondo che si voleva creare.
In Francia lo hanno studiato e raccontato molto bene. Politiche pubbliche disegnate per ridurre al minimo la biodiversità che usavano i contadini impiegandola nei diversi terreni e climi. Si decise che bisognasse sostituire le varietà di una volta, con altre “moderne”, che venivano prodotte e vendute dallo Stato; pian piano si chiuse ogni possibilità di scambiarsi le vecchie varietà, mentre le nuove portavano meno diversità e più bisogni, di prodotti chimici in particolare. Avvelenare le terre per produrre di più, questo era l’obiettivo dichiarato. Ma non era solo una produzione per alimentare i paesi stremati usciti dalla guerra. Fosse stato così, quando nel 1960 raggiungemmo l’autosufficienza alimentare in Europa occidentale, avremmo potuto iniziare una riflessione di tipo ecologico. Non si fece, perché pian piano l’idea era cresciuta di creare delle forti capacità esportatrici, offrendo al settore privato, il nascente agri-business, quel mondo in trasformazione che si era creato.
Eravamo partiti con i contadini e, in pochi decenni, grazie alle macchine, alla chimica e a scellerate politiche pubbliche, ci ritrovammo con agricoltori-massa (concetto che prendo a prestito dai lavori di Panzieri, Tronti e Negri sulla figura dell’operaio massa): la differenza magari era la “proprietà dei mezzi di produzione”, ma anche lì i cambiamenti erano in atto. Se la piccola proprietà coltivatrice dominava, i nuovi mezzi di produzione costavano sempre più cari, e solo indebitandosi era possibile comprare trattori e quant’altro. La sostanza resta che mentre i contadini potevano scegliere cosa produrre, sulla base della loro storia e esperienza, ci trovammo con operai alla catena di montaggio, che usavano le sementi scelte dalle politiche pubbliche e poi dal settore privato, alle quali sommavano i prodotti chimici che gli erano dettati, vendevano a prezzi imposti e nei mercati che li dominavano completamente. Insomma, ai produttori restava il rischio d’impresa, ma le scelte della catena di montaggio erano tutte in mani aliene.
Si sono così ridotti i contadini, e abbiamo considerato questo come un esempio di modernizzazione. Li abbiamo ridotti a così pochi che le loro capacità di influenzare le scelte politiche, nazionali e internazionali, sono diventate quasi nulle, malgrado i sogni di qualche movimento contadino mondiale. Sono pochi, ma in più abbiamo perso le conoscenze di quella bio-diversità e di quei territori. Il tutto per produrre “comida chatarra" come dice il mio amico Francisco, il “junk food” che ha prodotto una quantità enormi di persone obese. Ecco quindi che non solo non abbiamo risolto il problema della fame nel mondo, ma anzi ne abbiamo aggiunto un altro.
Come diceva il nostro professore di zoologia, Costa, all’Università: complichiamo un attimo le cose. Ed ecco che la distruzione della biodiversità, dei territori, delle foreste, sta disegnando scenari apocalittici, come quelli che osserviamo in queste settimane in Australia. Sono catastrofi man-made, fatte da noi, in nome di uno “sviluppo” che non sappiamo più cosa sia.
Piccoli Asterix cercano di reagire e resistere. E per fortuna, dico io. Ma i rapporti di forza non fanno ben sperare. Con la trasformazione dei contadini in agricoltori-massa è stato compiuto un parallelo processo di sostituzione del “cittadino” con il “consumatore”, individuale, per giunta. Pian piano iniziamo ad accorgercene, ma non siamo ancora pronti a cambiare le nostre abitudini. Solo da poco iniziamo a riscoprire le varietà quasi scomparse, e una miriade di piccoli esempi cercano di riportarci il sorriso. Ma non dimentichiamo che sono pochi e divisi, senza spessore politico che permetta di sognare qualcosa di diverso.
Se è vero che indietro non si torna, allora prepariamoci al peggio. Questo macro sistema alimentare ha concentrato l’essenziale del commercio alimentare attorno a quattro prodotti: grano, riso, mais e patate, quando all’inizio avevamo oltre 7,000 (settemila) specie edibili per noi umani. Mangiare male ed ammalarci di questo cattivo cibo. In più roviniamo i territori.
Non sarebbe ora che qualche forza “progressista”, se ancora ne esistono al mondo, si desse da fare?
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