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sabato 1 ottobre 2022

Perché la sinistra italiana perde (e perderà ancora)

 

Faccio parte di quella generazione che, quando ero piccolo, avremmo chiamato dei “veci”, avendo passato la barra dei sessanta. Spettatore curioso di capire in che mondo vivevamo e viviamo, guardavo attorno a me, in famiglia, a scuola, nel quartiere e altrove, e vedevo un mondo operaio e piccoli artigiani che pian piano, grazie al famoso boom e alle dure lotte sindacali, erano riusciti a tirarsi fuori dalla povertà e cominciare il lento cammino verso la classe media.

 

All’epoca le diatribe politiche erano forti, chi stava con la Chiesa e col capitale, la DC, e chi si opponeva a quel mondo, il PCI, parte del PSI e i vari partitini a sinistra di tutti. Era un’epoca quando quelli di sinistra frequentavano quotidianamente il mondo di sotto, perché avevano le loro radici lì e da lì traevano la loro legittimità politica.

 

A questo si accompagnava, fin dal dopoguerra, un vento di internazionalismo che faceva sì che si pensasse, non solo a sinistra, a cosa stesse succedendo altrove, in Europa, in Africa, in Asia e nell’America tutta. Un interesse sincero per cercare di capire meglio chi fossimo e dove stessimo (o volessimo) andare. 

 

Con gli anni, il benessere economico è cresciuto e il Belpaese era diventata la quinta potenza mondiale (1987), sorpassando la Gran Bretagna. Nemmeno le crisi del 73 e del 79 avevano intaccato seriamente questo cammino, e gli italiani hanno continuato quel processo di cambiamento da farli diventare stabilmente un paese di classe media. 

 

Sono pian piano scomparsi gli operai (e i contadini), il nuovo credo neoliberale ha portato una precarietà crescente nel lavoro e un livello di disoccupazione crescente fra i giovani. Lo sfacelo dell’Est ha aperto le porte della fuga e tutti noi ci ricordiamo i barconi di albanesi che arrivavano in Puglia nei primi anni 90. Già allora si cominciava a guardarli dall’alto in basso, dimenticandoci di “quando gli albanesi eravamo noi” come scriveva Gianantonio Stella.

 

La classe politica di sinistra, dalle origini povere, contadine e un po’ intellettuali, transitò verso la parte alta della classe media, sfilacciando sempre più il contatto con il mondo reale che si alzava presto ogni mattina per andare a lavorare o a cercarne uno (di lavoro). Il gruppo dominante, il PCI, perse per strada ogni contatto anche col mondo studentesco, troppo sognatore, ribelle e diverso per essere inquadrato in una logica partitica.

 

Molti segnali iniziarono ad arrivare, io amo ricordare il film Quando Caterina va in città di Virzì, che cercavano di dire a quella casta politica di ricordarsi da dove veniva e guardare dove era andata a finire. Segnali inutili perché quando si esce dalla povertà si preferisce guardare più in alto, e non più in basso.

 

A mano a mano che iniziavano a far parte delle compagini governative e della classe dirigente, cioè occupando poltrone, il gusto di restarci attaccato prese il sopravvento. 

 

Parallelamente, l’internazionalismo di una volta si era trasformato in un crescente “nombrilismo” come dicono i francesi, cioè il guardarsi l’ombelico: lasciar perdere gli altri (che venivano visti sempre più come competitori di quella ricchezza che sembrava sul punto di ridursi o svanire) e concentrarsi sul noi, anzi sul me stesso.

 

I partiti progressisti hanno interpretato bene quel cammino, e tutti i loro dirigenti si sono accasati in posti di potere, una vita agiata lontana dal trambusto delle periferie, lontani da quei poveri, brutti e cattivi che cominciavano a votare Berlusconi invece di votare a sinistra.

 

Ed eccoci ai giorni nostri: il resto del mondo non ci interessa, peccato poi che sia il resto del mondo ad interessarsi a noi, con le distruzioni che noi portiamo, non da soli, nelle agricolture e territori del Sud, con lo sfruttamento di mano d’opera a prezzi stracciati nei paesi della periferia etc. etc.

 

Al suo interno sbocciano i tradimenti, epocale l’affondamento di Romano Prodi al governo prima e all’elezione della presidenza della repubblica poi, le microscissioni che, al di là delle personalità, confermavano una incapacità evidente di chi dirige il principale partito di guardarsi realmente dentro.

 

Oggi questa sinistra che non capisce il mondo fuori da casa sua, che non ha contatti col mondo reale, quello di sotto, che ha messo i tappeti rossi perché il deserto culturale televisivo avanzasse con Berlusconi (Mediaset patrimonio nazionale da difendere diceva D’Alema!), si stupisce di essere scesa al 19%. Gli altri sinistri non è che stiano meglio, e tutti insieme non vanno da nessuna parte. Peggio ancora, non hanno nulla da dire a quel 36% che non ha votato e, peggio ancora, non ha nessuna visione del mondo, delle dinamiche storiche di sfruttamento e quindi non sa contro chi battersi e per quale avvenire. Siamo arrivati al punto che l’unica persona a dire cose di sinistra in Italia sia il Papa!

 

Quindi, o se ne vanno e si riparte da zero, sapendo che si tratta di ricostruire una cultura internazionalista con le nuove leve, cioè partendo dalla scuola, altro settore abbandonato dalla sinistra, oppure ci terremo dei governi di destra per i prossimi trent’anni. Se pensano che sia un problema limitato ai dirigenti o al nome del partito, non fanno altro che confermare che non hanno capito nulla. Hanno contribuito scientemente a creare un’Italia di ignoranti, che ascolta le reti di Berlusconi (e quelle della RAI che oramai sono uguali), leggono giornalacci come Libero, Il Giornale, La Verità, carta da cesso e nulla più, ma che costruiscono ogni giorno di più una figura di italiano/a ignorante e incapace di decifrare il perché dei suoi problemi. 

 

Sarà un cammino lungo, ma la prima cosa da fare è che si tolgano di mezzo. Hanno fallito storicamente, devono pagare!

 

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