Uno degli aspetti più evidenti della crisi attuale é legata alle progressive delocalizzazioni delle produzioni industriali di moltissimi marchi dai paesi industrializzati verso paesi di recente industrializzazione nonché paesi non industrializzati affatto. In questo modo si riduce il costo di produzione, mantenendo un margine di profitto interessante, con la scusa che questa sia la sola possibilitá di sopravvivenza per tali settori. Nei paesi del nord chiudono le fabbriche, aumenta la disoccupazione e pian piano si riduce il potere d’acquisto di quella classe media che é elemento fondamentale per il mantenimento del nostro sistema democratico, basato su una economia di consumo. Il rischio di questo modello é che poco a poco si riduca il potere d’acquisto nel nord, senza aumentarla in maniera corrispondente nel sud. Quel po’di aumenti che si registrano infatti al sud non permettono, in generale, a quella fascia produttiva-consumatrice di accedere ai prodotti del nord, marche care, mentre trovano un’accessibilità molto più elevata per quanto riguarda prodotti di bassa qualità (controllati dai pesi emergenti, tipo Cina).
In questo modo, quella che a livello individuale diventa una risposta razionale (per assicurare la sopravvivenza della fabbrichetta), diventa, a livello comunitario (e poi nazionale) una scelta non razionale perché di fatto tende a far perdere quote di mercato per I manufatti del nord, con maggiore valore aggiunto e piú cari, a favore di prodotti di quegli stessi paesi dove si stanno delocalizzando le produzioni.
Guardando dall’ottica del piccolo industriale, é difficile non capire la tentazione di questa fuga verso il sud. Dalla parte dell’operaio (e dei governi dei paesi del Nord) si assiste alla perdita di lavoro e di reddito senza che questo venga sostituito da alter forme lavorative/reddituali che permettano di mantenere i livelli di vita precedenti. Per i governi, il rompicapo é ancora maggiore per cui si assiste, da una parte e dall’altra dello spettro politico, a promesse sempre piú vaghe che tanto poi non si riesce a tradurre in realtá, indipendentemente da quale parte le abbia avanzate. Si guardi per esempio la campagna elettorale in corso in Francia per le elezioni presidenziali e la vaghezza dei programmi dei vari candidati che stanno ben attenti a non promettere troppo, coscienti del fatto che quelle promesse avranno poche possibilità di essere mantenute.
Quello a cui sto pensando ha delle analogie con il settore agricolo e, in particolare, con il modello francese dei “terroirs”, oramai da tutti copiato nel comparto vinicolo (e non solo). Per farla breve, quello che i francesi avevano in mente era di instillare nella mente del consumatore, reale o potenziale, il legame fra il prodotto specifico (vino) e l’insieme delle bellezze e valori culturali, paesaggistici ed altro che facevano di quel prodotto un esemplare Unico. In questo modo era anche più facile strappare prezzi anche elevati, il tutto in funzione della specificitá del prodotto e del suo “terroir”. Il marchio diventa quindi la questione centrale. In agricoltura marchio e terroir vanno piú facilmente di pari passo, nel senso che un Brunello di Montalcino o un Amarone non possono essere prodotti in Grecia o Spagna perché sarebbero “altri” prodotti e quindi se un/a consumatore/trice vuole “quel” prodotto, significa che vuole quello che viene da quella zona e basta.
Nel caso degli altri beni di consumo, non alimentari, esiste la possibilitá di dissociare il luogo di produzione originario, quello da cui partí l’avventura industriale (penso per esempio ai jeans Diesel, da Bassano del Grappa), dove quindi si creó il “nome”, o “marchio” e quello dove si produce fisicamente gran parte del prodotto (Diesel produce gran parte dei suoi capi non piú a Bassano ma in qualche remota area asiatica).
Ma quello che il consumatore compra è l’idea originaria di Renzo Rosso, l’inventore del marchio Diesel. Lo stesso vale per le autovetture: quando uno compra un’Alfa Romeo, sogna di comprare un pezzo d’Italia e non una semplice vettura, fatta chissà dove. Se il venditore dicesse all’acquirente: ecco due Alfa, la prima fatta in Italia e la seconda fatta in Brasile, quale delle due vuole? Non credo ci siano dubbi: sceglierebbe l’italiana, perché il marchio Alfa è nato lì.
Ora bene, se noi operassimo per far riconoscere il nome originario del prodotto alla sola zona dove è stato concepito e prodotto inizialmente, cioè dove è diventato il Logo, il marchio tal dei tali, etichettando diversamente quindi i prodotti in Loco da quelli de localizzati, a quel punto potremmo mettere il consumatore nella situazione ideale per ogni economista liberale; un consumatore informato sceglie in funzione di una serie di parametri personali (disponibilitá monetaria o altro) fra due prodotti diversi: quello prodotto dove lui/lei associa Nome e Luogo (jeans Levi’s e America; Alfa Romeo e Italia) e quello, che costa meno, e dove NON VALE la regola Nome e Luogo (Levi’s Filippini e non Levi’s America). In questo modo anche il produttore dovrá fare bene i conti per vedere se è nel suo interesse delocalizzare, ed avere quindi un prodotto che non possa avere il marchio originale, e quello di mantenere la produzione nel paese originario, con costi di produzione superiori (e mantenendo quindi i livelli salariali del Nord) ma fruendo della totalitá del Marchio del prodotto.
Dal punto di vista degli operai (del Nord), questo dovrebbe permettere di mantenere i posti di lavoro, nonché le produzioni che abbiano un mercato affermato. L’industriale del Nord non sará molto contento perché perderá (individualmente) una parte del profitto addizionale che potrebbe fare delocalizzando la produzione; detto questo, quello che a livello individuale potrebbe essere poco apprezzato, lo diventerebbe a livello di societá perché si manterrebbe un potere d’acquisto piú alto e quindi un mercato anche nel nord solvente per prodotti piú cari.
Dal punto di vista del Sud, nulla impedisce che il marchio locale possa competere ed eventualmente anche soppiantare quello originario del Nord, ma questo dipenderá dalle capacitá produttive, di marketing e di induzione del consumatore che i responsabili del sud dovranno mettere in atto.
Anche la lotta alla contraffazione potrebbe non essere cosí complicata come l’attuale. Ricordiamoci che una parte della contraffazione viene dal fatto che gran parte delle produzioni “ufficiali” vengono fatte al sud, comprese le etichette, e che quindi la capacitá di produrre un di piú rispetto a quanto stabilito nel contratto, da parte delle stesse mani e stesse macchine che fanno la produzione ufficiale, rende tecnicamente impossibile distinguere gli uni dagli altri. In questo caso, per il fatto stesso che la produzione (con quel marchio specifico) si farebbe solo in quel “terroir”, la possibilitá di contraffarlo sarebbe minima. Esiste il problema della contraffazione del prodotto o della truffa sulla indicazione geografica (come per certi vini con terroir cosí limitati che non si capisce come sia possibile trovare sul mercato quella quantitá di bottiglie).
Non dico di avere le soluzioni per tutti i problemi, questo andrebbe studiato. Resta il fatto che non sarebbe un problema in piú, generato dalla nuova modalitá produttiva, ma si tratterebbe dello stesso problema che esiste attualmente.
Una critica a questa proposta potrebbe essere legata al concetto di libera impresa. Se io, industriale di successo, vedo che il mio prodotto X, fatto o inventato nel paese Y, trova un mercato sempre piú grande, perché non dovrei essere autorizzato a aumentare la produzione anche in altre parti del paese oppure direttamente in altri paesi?
Qui entrano in gioco altri due elementi: uno riguarda le scelte nazionali di politica industriale e dall’altro la questione della concertazione fra il settore industriale e le organizzazioni sindacali. Da un lato i governi hanno il diritto dovere di indirizzare le scelte nazionali, senza lasciare al solo mercato questo onere, per cui le scelte individuali dovrebbero essere concertate con le scelte governative e con le collettività territoriali (regioni, province, comuni etc.); lo stesso principio potrebbe poi applicarsi alla concertazione con le forze produttive. Non si tratta di impedire la libertà d’impresa, solo pensare a creare un quadro di riferimento chiaro per tutti, soprattutto per i compratori, in modo che sappiano che prodotto stanno comprando. sarà poi il mercato stesso a fornire degli elementi equilibratori. Per esempio, prendiamo il caso di una fabbrica di motociclette di una marca conosciuta qualsiasi. Nata in una città, diventa un marchio nazionale e poi internazionale per cui si pone il problema di produrla non più solo nella fabbrica vicino casa ma anche nel paese X dove c’è un mercato in crescita. L’interesse del proprietario è di costruirla localmente perché costa meno; l’interesse degli operai del paese originario sarebbe di mantenere la produzione nel paese originario, per creare più lavoro e magari spuntare salari più alti. Tutti e due gli attori invocano i loro interessi ed attueranno per difenderli. L’asimmetria di potere però fa sì che alla fine vince il proprietario e la produzione si delocalizza. Nel breve periodo lui ci guadagna mentre gli operai del luogo originario ci perdono (in termini di nuovo impiego e di possibile pressione salariale in aumento per loro). Chi ci guadagna, un po’, dovrebbero essere gli operai locali, ma date le condizioni dei paesi dove si de localizza, viene da dubitare che questo succeda spesso.
La proposta in questo caso sarebbe di limitare l’uso del Marchio, Moto ZZ, alle sole produzioni del paese originario, mentre per le altre produzioni fatte fuori da quel luogo, dovrebbero esser chiamate con un nome che, pur richiamando il Marchio originale ZZ, chiarisca in modo inequivocabile e visibile che sono fabbricate altrove: per esempio ZZ-China. A quel punto sarà il mercato a fissare il prezzo come punto di equilibrio tra consumatori interessati al prezzo più basso, anche se si comprano una ZZ-China, versus consumatori che vogliono solo l’originale ZZ.
La butto lì, per vedere cosa ne pensano i lettori di questo blog…
giovedì 12 gennaio 2012
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