Post precedente in data 12 gennaio 2012
Innanzitutto un GRAZIE a Catherine che mi ha segnalato l’articolo di un economista apparso sul giornale Metro data 1 febbraio, a firma Maurizio Guandalini e dal titolo: Made in Italy Jolly prezioso dove sviluppa una tesi molto vicina a quella che ho presentato nel post precedente.
L’ipotesi che faccio (e dove mi criticano) è il compratore non scelga solo in funzione del prezzo (minore) del prodotto, ma anche in funzione di un congiunto di altri parametri alcuni dei quali (per certi prodotti, non per tutti ovviamente) siano associabili a un certo Luogo, a uno “specifico” che, nel caso dei prodotti agricoli, chiamiamo Territorio. Chi critica questa impostazione parte dall’assunto che il compratore, nella crisi attuale, cerca solo il prezzo più basso. La mia controcritica è che se accettiamo questo assioma, allora non abbiamo altro da fare che chiudere bottega perché nella corsa al ribasso possiamo solo perdere. Ma per correre verso l’alto, qualitá dei prodotti etc. bisogna trovare delle idee e delle politiche che riescano a ridurre la competenza sleale, mantenendo i principi del libero mercato.
Per chi non avesse voglia di rileggere tutto il post precedente, ricorderò che l’idea era di proporre di limitare l’uso del nome (logo/marca) alla zona (più o meno grande, da discutere) dove il prodotto in questione sia stato ideato e/o sviluppato inizialmente. D’altra parte, una ditta che volesse delocalizzare la produzione in un altro paese per l’evidente vantaggio sui costi salariali, potrebbe mantenere una parte del nome (logo/marca) dovendo però aggiungere uno specificativo geografico, in modo che il compratore sia libero di portare la sua scelta, in maniera informata e trasparente, sul prodotto che più interessa. Esempio: calze Omsa, prodotte a Faenza, associate al “made in Italy” nell’immaginario del consumatore e attualmente in fase di delocalizzazione verso la Serbia con l’unica ragione del costo inferiore della variabile salariale. In questo caso le calze Omsa prodotte in Serbia dovrebbero portare il nome OMSA-Serbia, parzialmente diverso dalle OMSA originali italiane.
In questo modo si valorizza il marchio originale, lasciando una libertà di impresa e di profitto all’imprenditore, il/la quale però dovrà parzialmente tirarsi su le maniche non potendo re immettere le stesse calze Serbe, che costano meno, come se fossero state prodotte nel luogo e dagli operai/operaie che hanno sviluppato storicamente quel prodotto e che hanno, perciò, contribuito a inserirlo nell’immaginario collettivo e farlo diventare un nome (logo/marca) conosciuta.
Abbiamo già detto che ci si dovrà attendere una serie di reazioni negative, da parte del settore imprenditoriale che, inevitabilmente, avrebbe da registrare delle perdite di potere individuale, mentre dall’altro dovremmo poter registrare delle reazioni positive, da parte del settore lavorativo, data la possibilità (non certezza) di poter mantenere livelli di impiego più elevati.
Quello su cui volevo riflettere oggi riguarda altri due aspetti: da una parte il ciclo produttivo e dall’altro la questione della proprietà e dei salariati.
Partiamo dalla proprietà e dagli operai.
La “protezione” che in questo modo verrebbe data ai prodotti originali, chiaramente non interferisce col diritto di comprare e vendere la tal marca. In altre parole, i proprietari iniziali delle calze Omsa, italiani di Faenza, non sarebbero in alcun modo ostacolati nel caso volessero cedere il marchio o la proprietà a, mettiamo, un russo o un indiano. In altre parole, questa proposta non mira a difendere l’italianità delle imprese. Lo stesso si può dire per quanto riguarda la forza lavoro. La nostra ipotesi è che nel corso del tempo anche gli operai abbiano contribuito a dare suggerimenti per lo sviluppo del prodotto e che, a loro volta, abbiano sviluppato un “know-how” che in qualche modo vada riconosciuto. Ma il fatto che gli operai originali fossero probabilmente tutti italiani, non significa che questa proposta miri a difendere l’italianità della forza lavorativa. Ci si limita a proporre, nel quadro di una economia di mercato, delle misure che valorizzino l’originalità dei prodotti e della forza lavoro associata (indipendentemente dalle nazionalità degli operai/e in fabbrica), lasciando il giusto profitto nelle mani della figura imprenditoriale ma mantenendo (e retribuendolo) il lavoro salariato.
Più complicato, quando si parla di Logo, Made in .. o simili, il discorso diventa quando andiamo ad analizzare le fasi produttive e la provenienza degli inputs. Grosso modo potremmo pensare alle seguenti categorie:
1. Idea iniziale
2. Inputs necessari (materie prime – località per produrre e capitali iniziali)
3. Strategia di mercato (passaggio da prodotto anonimo a Marca)
La fase uno dovrebbe essere abbastanza facile da localizzare geograficamente (una città, regione o Paese) nel senso che la scelta viene lasciata a chi abbia avuto e sviluppato l’idea iniziale.
La questione si complica con la fase due, dato che non è più evidente che l’insieme dei fattori produttivi necessari siano prodotti nella stessa zona, anzi è molto probabile il contrario. Qui è necessario approfondire, per mettersi d’accordo fino a che livello di “estraneità” si possa accettare nella definizione di un marchio territorializzato. Chiaramente questa discussione sarà anche legata alla fase uno (per capirci: se io disegno dei vestiti particolari, frutto delle mie idee e ispirati dal luogo dove vivo, ma poi una parte importante, per non dire quasi tutta, del materiale viene importata – cotone ed altro – fino a quando posso chiamare quel prodotto come “made in ..”?
Fra l’idea iniziale e la sua riuscita commerciale (fase tre) cioè il passaggio da prodotto anonimo a Marca, ce ne corre, parecchio. Anche qui si tratta di negoziare e mettersi d’accordo per capire il peso da dare a questa variabile.
Per “territorializzare” un marchio nei settori non agricoli bisogna quindi trovare delle risposte alle domande precedenti. Proteggiamo l’idea iniziale solamente? Ma se la persona che ha avuto l’idea poi la vende ad un’altra persona di un altro paese o continente, cosa succede? Valorizziamo gli inputs?. E se sono tanti i prodotti necessari per assemblare il prodotto? Se oltre al cuoio argentino (esempio) devo metterci del cotone del Mali, il tutto per fare un vestito “etnico” che mi sono inventato e che voglio far diventare una Marca? Cosa proteggo, il cuoio argentino, il cotone del Mali o la mia idea “italiana”?
E quando poi il prodotto iniziale, grazie a una ottima strategia di marketing (realizzata da una società di pubblicità di un altro paese), passa ad essere conosciuto mondialmente, a quel punto cosa faccio? Come valorizzare il ruolo di questi ultimi?
La mia idea sarebbe quella di limitarsi a “territorializzare” l’idea iniziale, questo perché gli inputs necessari possono variare nel tempo e nello spazio, così come la sua eventuale trasmutazione da prodotto a Marca. In parole semplici: se io ho l’idea giusta (frutto dei miei anni di girovagare per il mondo, ho alimentato la mia mente di immagini e colori, torno a casa e mi metto a disegnare una linea di vestiti “etnici”), sarà questa idea qui che poi, se funziona, troverà un mercato e avrà bisogno di operai/e e uno spazio dove essere prodotta. Poi sarà il mercato a dire quali prodotti di questa linea funzioneranno meglio (e quindi si modificano le materie prime eventualmente, dal cotone al lino o alla lana etc..). Se questa idea quindi troverà un mercato, e i consumatori cominceranno a cercare “quei” vestiti, allora da “prodotto’ comincerà ad essere trattata come “Marca”. A quel punto io potrei decidere di ingrandire la fabbrica oppure di delocalizzare. In questo modo, facendo il furbetto, produco a costo minore e piazzo il prodotto sugli stessi mercati dove piazzavo quello precedente. Risultato, io sviluppo la parte del profitto e non quello della ricerca continua, gli operai iniziali si ritrovano senza lavoro e quindi di fronte a un vantaggio personale mio troviamo uno svantaggio sociale maggiore.
Limitando il diritto di uso della Marca, cioè “territorializzandola”, a quel punto i miei vestiti fatti a casa mia continuerebbero a chiamarsi così, mentre per gli altri, che avrebbero il nome del paese di produzione, mi obbligherebbe a pensare come sviluppare per loro una strategia di marketing adeguata, forzandomi quindi a restare nella competizione di idee (ricerca / sviluppo) per poter restare sul mercato e riducendo il margine speculativo.
Critiche e suggerimenti sono i benvenuti.
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