Approfondisco un po’ la questione etnica anche per mia
propria memoria future dato che intendo venire a lavorare qui.
Nel post precedente avevo ricordato come il 2012 sia stato
uno spartiacque per certi versi miracoloso fra un periodo dittatoriale durato
vari decenni e un post che si sta cominciando a costruire, sicuramente più
aperto e democratico come possiamo constatare stando qui, anche se ancora pieno
di incertezze e foriero di possibili sorprese.
Partiamo dalla questione etnica. Il paese è grosso modo
formato da tre grandi vallate centrali che si riuniscono verso la regione del
Delta, alle quali fanno da corona una serie di montagne e rilievi. La parte centrale,
più fertile, dove da sempre si trova l’etnia birmana, era stata quella
colonizzata dagli inglesi. Il paese di fatto prese il nome dal gruppo etnico e
i loro rappresentanti passarono a considerarsi come i veri (ed unici) birmani.
Il fatto che attorno a loro esistessero vari gruppi minoritari, con diversa
religione e diversi stili di vita, non li preoccupava granchè dato che erano
accessori a quello che era il “loro” Stato.
Gli inglesi “scoprirono” la questione etnica al momento di
andarsene. Sia come sia, il tentativo, primo ed unico, di unire le varie
“nazioni”, venne fatto nel 1947, all’alba dell’indipendenza di Burma
(Birmania). L’Accordo di Panglong, nelle intenzioni del colonizzatore uscente,
doveva essere mandatorio per la nuova amministrazione indipendente, garantendo
il rispetto dei diritti etnici e l’autodeterminazione delle minoranze nonché il
loro coinvolgimento nel futuro Stato.
Magari avrebbero fatto meglio a promuoverlo prima, vallo a
sapere, sta di fatto che il nuovo regime militare fece fuori uno dei leader
della maggioranza etnica birmana che stava appoggiando questo scenario, il
padre di The Lady, e nel contempo aveva deciso di risolvere alla vecchia
maniera quello che doveva sembrar loro come un “dettaglio” storico, come direbbe il buon Le Pen.
Nascono così varie guerriglie che fra alti e bassi sopravvivono
fino ai giorni nostri quando, con la solita inerzia storica, il tema “indigeni”
comincia ad entrare nell’agenda internazionale. La risonanza aumenta poco a
poco e le rimostranze dei vari gruppi cominciano a trovare una eco fuori dal
paese. Dato poi che non si tratta altro che rivendicazioni totalmente in linea
con l’agenda dell’accordo del 1947, cioè nulla di rivoluzionario, pian piano le
pressioni internazionali iniziano anche su questo punto.
Cosa sia realmente successo fra il 2010 e il 2012 nella
mente dei militari e del loro Presidente, probabilmente la necessità di avere
accesso a fondi internazionali per lo sviluppo nonché a mercati regionali ed
internazionali da dove erano un po’ esclusi per via della loro rozzezza, sta di
fatto che il discorso ufficiale cambia, fintantochè il Presidente Thein Sein dichiarò
che i nemici di lunga data avevano lo stesso obiettivo: “Le attese dei gruppi
etnici sono di avere gli stessi diritti di tutti. Standards uguali sono anche
il desiderio del nostro governo.” Parole attese per decenni.
Che non si sia trattato di un ballon d’essai lo si è visto
subito dato che le discussioni in vista di un possibile cessate il fuoco hanno
accellerato e oramai si è vicini ad una soluzione per alcuni dei punti più
spinosi.
E’ chiaro a tutti il possibile uso strumentale di un accordo
del genere, che servirebbe molto all’attuale governo per guadagnare altri punti
nella speciale classifica redatta dagli Occidentali, sul tema Democrazia e
Affari: più si va su, più arrivano soldi per fare business per tutti…
specialmente per i più svegli.
Detto questo, è anche chiaro che una cosa è fermare un
accordo di cessare il fuoco, altra cosa è risolvere strutturalmente un problema
che esiste da quando esiste il Paese. Cioè, in altre parole, la
Birmania-Myanmar non ha completato il suo processo di formazione di Stato
Nazione, federale o centrale che sia, e questo richiederà tempo, soldi ed
energie. Il punto che questo processo comincia quando in molte altre parti del
mondo si è passati oramai al post-Stato Nazione, che comincia a scricchiolare
in molti punti, senza che sia chiaro cosa possa venirne fuori. Ma se stiamo
alla ricostruzione storica che voleva lo Stato-Nazione come elemento chiave per
il nascente mercato interno necessario allo sviluppo del capitalismo moderno
nelle prime fasi, e che adesso spinge per spazi più macroscopici, come vediamo
con i vari Trattati in corso di negoziazione sotterranea, il rischio che
Myanmar arrivi tardi all’appuntamento esiste.
Arrivare tardi nel senso di poter diventare finalmente uno
Stato completo, stabile, indipendente, non più un semplice vassallo della Cina,
ma che possa avere una sua posizione, dei suoi interessi e una sua dinamica.
Questo sogno di “stabilità democratica” sembra essere molto presente in chi sta
guidando il paese attualmente. Cioè voler diventare qualcuno di presentabile,
non il più né il più povero, ma semplicemente essere riconosciuti nel consesso
internazionale. Ecco quindi le accelerazioni sui molti temi legati alle
variabili decise ad Occidente su cosa serva per essere classificato come
democratico.
Potrebbe essere quindi un buon momento: le rivendicazioni
etniche possono trovare spazio politico perché non sono contrarie in principio
al disegno globale. Vincere le resistenze e i piccoli interessi non sarà
facile, ma potrebbe non essere impossibile. L’agenda è già scritta: i diritti
territoriali sono la prima cosa, sui quali costruire il rispetto per una
identità culturale, una storia e dei valori che potrebbero trovare forma adequata
in una federalizzazione dello Stato. In fin dei conti a nessuno dei vicini
serve un paese instabile ed incasinato. Ce ne sono già abbastanza nella zona.
Per la Cina, poter arrivare al golfo del Bengala senza problemi, passando per
Myanmar, è di sicuro meglio che dovendo attraversare zone in conflitto. Per la
Thailandia, l’India e il Bangladesh vale lo stesso principio anche se, per
quanto riguarda quest’ultimo, il problema con i Rakhine nella zona occidentale
di Myanmar, rischia di essere alquanto più complicato da risolvere.
Alla prossima.
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