La prima delle tante piccole sorprese arrivando a Yangon,
antica capitale della Birmania, da anni ribattezzata Myanmar è la conferma che
per tutti Aun Sang Suu Kiy è proprio The Lady, come il titolo del film a lei
dedicato.
Poi ti colpisce la gentilezza della gente, che mi dicono
comunque essere abbastanza “mediterranea” da scaldarsi, commentare, protestare
e tutto il resto. Anche la città sembra più tranquilla delle altre città
asiatiche (non molte) che ho frequentato. Traffico intenso, ma silenzioso.
Pochi furbetti (comunque esistono, li ho visti…) che evitano le code passando
per le altre corsie, ma in genere rispetto per gli altri. Una sensazione
generale di pulizia, anche se sembra non sia sempre così (certo se ripenso a
Katmandu… un altro mondo qui). La cucina è piuttosto interessante … e nei
limiti, cerco di conoscerla. Da ultimo, ci metterei anche una apertura di
spirito da parte dell’unico alto funzionario del governo con cui ho parlato,
una situazione simile a quella che trovai l’ultima volta che tornai in Laos un
paio di anni fa.
Questo per la parte buona. Ma potremmo aggiungere anche un
riferimento alla decisione, presa un paio d’anni fa dalla giunta militare al
potere di far partire un processo di democratizzazione che va avanti sul serio.
Alcuni dicono che il Presidente voglia prepararsi per l’aldilà, e quindi debba
riscattare un passato tetro per cui va avanti anche contro resistenze interne
sulla strada scelta.
Non mi dilungherò su cosa sia stata la dittatura militare in
questo paese, seguita al controllo ferreo inglese prima. Un paese multicolore e
multietnico dove ovviamente stanno scoppiando le stesse problematiche che
troviamo in ogni altra parte del mondo, dalla Scozia al Cile: volontà di essere
riconosciuti e rispettati che da queste parti ha preso la strada dei
combattimenti nella foresta. Pare ci siano, in corso, 24 conflitti armati nel
paese, questo mentre il governo cerca di negoziare un cessate il fuoco
generale. 24 sono molti, anzi sono troppi.
Vengo qui per ascoltare e capire un fenomeno raro: un
governo che aveva in mano tutto decide di punto in bianco di iniziare
volontariamente a cedere parte, piccola se vogliamo, di questo potere e
lanciarsi su una strada che dovrebbe portare a una democratizzazione del paese.
Non succede spesso, sarete d’accordo con me. Chi ha il potere se lo tiene
stretto e casomai prova ad espanderlo anche in altri settori. L’ideale è
arrivare ad una egemonia economico-finanziaria accoppiata ad una culturale, un
po’ il modello transnazionale americano che per l’essenziale però passa fuori
dalle istituzioni pubbliche e va molto sul privato. Qui al contrario tutto si
gioca dentro uno schema molto istituzionale: ristabilire un equilibrio
parlamentare o almeno una pluralità di voci, riportare la “rule of law” come
regola base del futuro paese, rimettere in piedi le istituzioni dello Stato ma
dentro uno schema aperto alle altre istanze, etniche, politiche e
confessionali.
La questione che mi porta qui è ovviamente legata alla
terra. Ancora una volta è fonte di preoccupazione per tutti. Per le imprese
straniere che sognano di metter le mani in modo regolare sulle ricchezze
nazionali, in modo da togliersi di dosso quei concorrenti locali che,
sfruttando frontiere porose ed immense (oltre duemila chilometri di frontiera
in comune con la Cina, per lopiù in mezzo a foreste), possono avere dei
vantaggi comparati ineguagliabili dentro un mercato “informale”. Questi attori spingono
quindi verso la messa in piedi di regole, leggi ed istituzioni capaci di
offrire le buone condizioni per il business (il loro ovviamente).
Poi ci sono i vari gruppi etnici che al contrario temono
l’arrivo di questi potenti attori e che preferirebbero sicuramente un futuro
molto diverso che parta dal riconoscimento dei loro diritti territoriali.
Aggiungiamoci poi le piccole comunità, i contadini senza terra – ce ne sono
anche se nessuno sa quanti – tutti nella stessa situazione di paura ma con
un’agenda diversa dai gruppi etnici anche se probabilmente totalmente
indefinita.
Potremmo metterci anche i grandi gruppi ecologisti
internazionali che sicuramente vorrebbero spingere per politiche più
conservatrici in materia di risorse naturali e i vari donanti che, direttamente
o meno, influenzano e sono influenzati da queste dinamiche.
La piccola, vivace e crescente società civile paga
ovviamente lo scotto della sua gioventù per cui è ancora facile preda di parole
d’ordine importate da fuori, con poco spessore storico locale, e quindi anche
loro prede potenziali di giocatori più grandi e più smaliziati. Accompagnare la
crescita di queste voci nuove è sicuramente una sfida interessante, ciò non
toglie che magari prima bisognerebbe entrare meglio nelle sfere del potere
locale per capire cosa stia succedendo sul serio e perché tutto questo adesso.
Il fatto che in questi mesi si sia accellerato molto sulla
nuova politica sull’uso delle terre e sulla futura legge sulla terra, è
comprensibile pensando alle future elezioni presidenziali. Il governo, anzi il
Presidente, vuole mostrare dei risultati concreti in temi delicati, in modo da
tagliare le gambe dell’appoggio internazionale sotto i piedi di quella che,
ragionevolmente, sarà la sua avversaria alle elezioni: The Lady.
Quindi, dopo il Big Bang, si capisce quale sia la logica.
Accellerare per vincere le resistenze dei settori più conservatori, avere dei
risultati da mostrare per poi andare con speranze di vittoria alle
presidenziali. Vincerle contro The Lady sarebbe la coronazione di un processo
di democratizzazione che comunque non farebbe perdere il potere vero a chi ce
l’ha in mano.
La sfida vera è capire quanto lontano vogliono andare sul
serio, cioè se i settori che più ne hanno approfittato possono rischiare una
minima perdita di potere (economico od altro). Questo non lo sappiamo anche perché
non abbiamo studiato il Big Bang. A parte l’ipotesi di un ripensamento buddista
in tarda età, non ne sento altre in giro. Quindi al non avere un chiaro punto
di partenza, gli scenari possibili sono molteplici, legittimi anche se non
certi.
Resta il fatto che la linea rossa lungo la quale si muove il
potere è realmente sottile. 24 conflitti in corso possono far saltare il banco.
Nemmeno l’opposizione, mi dicono, ha le idee chiare su cosa fare con tutte le
rivendicazioni territoriali delle minoranze etniche. L’impressione è che si sia
aperto un vaso di Pandora, ma che non sia facile prevedere cosa salterà fuori. E
ricordiamoci che ogni nuovo conflitto, ogni nuova protesta legata alle risorse
naturali (e ne abbiamo ogni giorno), portano una goccia a quelli che, avendo
accumulato potere, soldi e tutto il resto, temono di perderlo. Il paese ha
bisogno di soldi, come tutti del resto, per cui devono creare condizioni per
far venire i capitali internazionali. A esser onesti, dalle dichiarazioni di
esponenti del governo sembrerebbe poter dire che non sono disposti proprio ad
abbassare i pantaloni: certo, sono a favore del settore privato, ma ricordano
che sono plurietnici e che i diritti locali vanno rispettati.
Insomma, la facciata c’è tutta. Adesso vedremo dove andremo
a finire. Inutile dire che la passione che in così poco tempo mi ha suscitato
questo paese è segnale che vorrei tanto che io e i miei consulenti entrassimo
anche noi a giocare una piccola parte di questa partita. Abbiamo cose da
apportare, nonché da impoarare, soprattutto nel tema delle dinamiche di potere,
pensando alle ambizioni che abbiamo di metterci a disposizione anche per crisi
maggiori.
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