Papa Francesco sta girando la Colombia per divulgare un messaggio di pace e riconciliazione. Molti occhi sono puntati su questo viaggio, sul ruolo svolto dalla Chiesa nello stimolare la conclusione delle trattative di pace e, possibilmente, una accelerazione per quanto riguarda il rimanente movimento ELN.
Sono in tanti a sperare che questa sia la volta buona. Un Presidente che, contro l’avviso di tutti, si è messo in testa di arrivare a un accordo di pace, una comunità internazionale decisa ad appoggiare seriamente questo paese per farne un “caso” di come sia possibile uscire dalle logiche di conflitti incancreniti, e una Chiesa cattolica che ha una forza locale da non sottovalutare.
Anche la mia organizzazione smania di protagonismo volendo mostrare una capacità tecnica che aiuti a districare il complicato, e politicamente sensibile, problema legato alla terra, il tema numero uno degli accordi.
Quindi tutto bene? Io mi trovo un po’ lontano in questo periodo, a seguire altri conflitti, asiatici e africani, cercando di far capire alla mia stessa organizzazione come ci si debba organizzare per andare a lavorare al cuore di questi problemi. Le mie informazioni sono quindi relativamente di seconda mano, da amici colombiani che lavorano nel paese, da colleghi d’ufficio nonché da quanto alcuni specialisti - e vecchi amici - scrivono sui giornali locali. Tutto questo per dire che ovviamente potrei sbagliarmi di grosso nelle mie sensazioni, che non sono per nulla positive e che adesso spiegherò qui di seguito.
Fondamentalmente la mia impressione è che i vari attori in gioco abbiano tutti una agenda e un punto d’entrata diverso dagli altri e non sono sicuro di quanto forti siano le compatibilità reciproche. Per ovvie ragioni già spiegate il altri post, e che hanno a vedere col cammino di riflessione portato avanti assieme al mio gruppo di amici e colleghi, penso che papa Francesco sia quello che ci vede meglio di tutti gli altri.
Un conflitto è essenzialmente una storia di rapporti di forza impari che fanno sottomettere i più deboli ai più forti. Succede, non sempre, che i più deboli trovino delle forze, esterne quasi sempre, che, a nome loro, si mettono in mezzo proclamando a mari e monti di voler riparare queste ingiustizie e ridare voce al popolo. Questo hanno fatto agli inizi le varie guerriglie, dimostrando ben presto due cose abbastanza ovvie da un punto di vista storico: primo, l’incapacità di mettersi d’accordo su una piattaforma politica unica che unificasse le varie guerriglie e avesse quindi un peso ragguardevole nelle future negoziazioni. Secondo, ma legato al primo, questa incapacità di resistere all’approfittarsi delle ricchezze naturali che sono lì a portata di mano. Le varie guerriglie colombiane, ma sono abbastanza sicuro che il discorso vada al di là di loro, si sono ben presto trasformate in agenzie a delinquere, con gli stessi metodi di quelli che dicevano di combattere, il tutto difendendosi dietro a grandi cause che sono chiari specchietti per le allodole ma non per persone un minimo informate.
Incapaci di sovvertire il regime, hanno dovuto accettare di mettersi a tavola e negoziare in condizioni di inferiorità. Ma hanno portato a casa un risultato e qualcuno dei capi sicuramente riuscirà anche ad entrare al parlamento per fare grandi discorsi sui valori difesi da loro, mentre nel frattempo il bottino messo via verrà restituito solo in parte. Le FARC e compagnia bella hanno una capacità minima di condizionare la vita politica formale. Hanno fondato un partito pochi giorni fa, che mantiene l’acronimo FARC, ma che nel giro di pochi anni scomparirà dalla scena politica. Chi di voi si ricorda del M-19, a parte i colombiani o chi ci lavora? Erano tanti, coraggiosi, forse parzialmente manipolati ma insomma accettarono di entrare nell’arena politica formale. Molti furono ammazzati dalla destra e dalle sue squadracce, altri sono semplicemente scomparsi nell’irrilevanza della politica. Per le FARC è difficile immaginare un avvenire diverso. Alle prossime elezioni non arriveranno al 10% e poi non resterà loro che lamentarsi del “tradimento” degli accordi di pace etc etc..
Il Presidente Santos ha fatto quanto desiderava. Ha portato a casa la pace e questo gli va dato merito. La costruzione della Colombia del futuro però è cosa diversa. Passa per un gioco politico storicamente dominato da baroni e caste politiche che non sono mai riuscite a far avanzare minimamente la risoluzione di quei problemi che hanno portato alla guerra civile. Oggi ancora una quantità importante di congressisti ha le mani sporche di quei denari provenienti dal narcotraffico, dalle alleanze con le squadracce di paramilitari che restano presenti nel paese. Non si vede all’orizzonte nessun repulisti, nessuna Mani Pulite, processo che almeno permise di cambiare facce, anche se non intaccò le realtà profonde. Quindi una volta che Santos uscirà di scena, e ricordandoci che Santos non è un santo, resterà quel magma di parolai gattopardeschi che, finché ci saranno soldi, saranno lì a cantare i benefici della pace, purché questo non intacchi i loro affari e privilegi.
Le poche forze di sinistra sono, come al solito, ben divise, e il miglior congressista di sinistra, il senatore Robelo, vuol lanciarsi in una candidatura senza speranza che gli farà perdere anche il posto di senatore nonché un bel po’ di voti alla lista di sinistra che non potrà averlo come candidato. Insomma, il futuro panorama politico sarà più spostato a destra dell’attuale, e non saranno i quattro gatti delle FARC a cambiar granché gli equilibri. Saremo stupiti se fra qualche anno li troveremo a votare assieme agli affaristi di destra? Ve lo dico subito, io no!
L’agenda del Presidente quindi è molto di corto termine per lasciare una eredità storica dove lui passerà a essere ricordato come il santo che ha salvato il paese, ma non sarà certo lui a spingere per cambi strutturali e per quella pulizia nelle certificazioni catastali delle proprietà rurali che sarebbe necessaria per ricominciare su basi serie il post-conflitto. Alejandro Reyes ci crede molto all’idea del barrido cadastral, io sono molto scettico.
Al di là del Presidente, l’agenda politica dei congressisti è divisa, come lo sono loro e la maggioranza si preoccupa essenzialmente on i loro affari e con la speranza che l’immagine del paese migliori in modo da attirare più investimenti e quindi più affari.
L’agenda delle nazioni dis-unite riflette questo stesso schema. Si avanza in modo diviso, cercando di guadagnare un posto al sole che permette un domani essere presenti nella foto sorridenti del post-conflitto. Ma si tratta di agende tecniche, che non sfiorano nemmeno il cuore del problema che non è tecnico. Nel paese esistono da decenni capacità tecniche a tutti i livelli, centrale e locale, universitario, ONG e governo, per fare le cose “tecniche”. Quello che manca sta altrove.
Fin dai tempi del Caguàn arrivammo alla conclusione che quello che si è rotto in Colombia è semplicemente il patto sociale che tiene assieme le popolazioni di un certo territorio e fanno sì che si riconoscano come comunità e quindi Stato. Se non si opera quindi su questo aspetto, non si andrà da nessuna parte. Il Papa queste cose le ha capite e le va ripetendo da anni. Nel caso specifico è andato a ripeterle in questi giorni, sperando di incontrare un auditorio più attento di quelli incontrato finora. Papa Francesco è venuto anche un paio di volte nella nostra sede, proprio per discutere di questi temi e di una possibile alleanza fra FAO e Chiesa Cattolica, in particolare nel caso colombiano. A giudicare da quanto si vede in giro, tante belle parole, ma manca, da parte nostra, la comprensione profonda che al cuore dello sviluppo non ci sono tecniche o tecnologie, ma ci sono uomini e donne che accettano o meno di stare assieme nella stessa società. La Chiesa ha il compito di parlare della centralità della riconciliazione, noi avremmo il compito di trasformare questo desiderio spirituale in approcci concreti, dove sia chiara la centralità dell’essere umano, e dove la parte tecnica arrivi dietro come supporto se e quando necessario. Ma non sta succedendo, per cui ognuno avanza con la sua agenda.
Non serve parlare dei donatori, perché in genere il loro apporto è sempre più spesso un problema, soprattutto da quando tutti quelli che mettono quattro soldi sul tavolo pretendono avere anche una parola nel processo. In questo modo diventano elementi di disturbo, che aumentano la confusione, anche se nel fondo ci sia anche una discreta dose di buona volontà. Certo poi che i donatori se la giocano ognuno per contro proprio: l’agenda degli americani chiaramente non coincide con quella degli europei. I paesi latinoamericani non mettono soldi ma appoggio politico penando a una agenda di integrazione regionale, cosa buona e giusta, ma tutto partecipa all’idea di un gran carnevale dove ognuno va con quello che ha e poi si spera che non piova e che la festa continui.
Solo che la festa dovrebbe riguardare quei milioni di sfollati, alcuni da decenni, che magari, ma forse no, vorrebbero tornare nelle loro terre, nel frattempo magari occupate da altri sfollati di altre regioni. Ma forse non vogliono tornare perché non si fidano, e quindi che si fa? Si lasciano le terre rubate dai narcos, guerriglieri e para nelle mani dei ladri? Insomma il casino è grande sotto il cielo, e finché non si capirà che in questo procedere da armata brancaleone si rischia di andare a cozzare contro il muro, resta poso da sperare. Lo so che in parecchi dei miei amici inorridiscono quando dico queste cose, ma nel caso specifico della Colombia, l’agenda deve essere quella dettata dal buon senso, e messa in uscita dal Papa: bisogna ricostruire quei legami rotti, creare condizioni perché ci si accetti di nuovo nella diversità politica e ideale e quando questa filosofia sarà chiara per tutti allora le azioni prenderanno una forma e un senso diverso.
Spero ovviamente di sbagliarmi del tutto. Scrivo questo post nella mia ultima settimana a Bangkok, dopo aver dato una scossa al mio ufficio regionale, forzandoli ad ammetterebbe la questione dei conflitti legati alle risorse naturali è oramai pervasiva in tutta la regione e che quindi, ci piaccia o meno, dobbiamo cominciare a prepararci, a studiare il come e il perché, per poi proporci di intervenire. Ma, ancora una volta, togliendoci dalla testa l’idea che bastino degli interventi tecnici, portare delle sementi, piccoli attesi o vaccinazioni per gli animali per far ripartire strutturalmente una società post-conflitto. Se le negoziazioni pace sono lunghe anche anni, il post-conflitto, come ci insegna il caso del Mozambico, non è ancora finito dopo 25 anni… questo è l’orizzonte che dobbiamo avere in mente. Un orizzonte che non piace ai donatori perché troppo lontano nel tempo, non piace alle agenzie ONU perché vogliono mostrare in tempi rapidi che servono a qualcosa e piace poco anche ai politici locali… insomma, un bel casino.
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