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martedì 9 febbraio 2021

Commons e diritti delle donne

Commons e diritti delle donne

 

Introduzione: i termini della dispusta

 

Per introdurre il tema e capire di cosa vogliamo scrivere, è utile ricordare quanto scritto da De Cristoferi: “quando si discute di proprietà̀ collettiva si deve considerare innanzitutto il fatto che si tratta di un fenomeno che facilmente sfugge a classificazioni rigide, per cui ogni disciplina accademica ha sottolineato aspetti differenti. Generalmente con beni comuni, usi civici o diritti/proprietà̀/risorse collettive si indicano alcune modalità̀ di proprietà̀ e/o godimento di determinate risorse o res private o pubbliche (ma anche beni immateriali, in alcuni casi) per finalità̀ sia individuali sia comunitarie a opera di un’associazione di persone con dimensioni e caratteri di inclusività ed esclusività̀ variabili. [...] Proprio il mutare della terminologia in voga in più́ settori scientifici, da proprietà̀ collettiva/usi civici a beni comuni/commons, è indicativo dell’avvicendarsi di sensibilità̀ differenti nello studio di questo argomento e nella sua percezione in ambito accademico: in sintesi si può̀ sottolineare come si sia passati da un approccio sostanzialmente giuridico, con una pluralità̀ di matrici e visioni (tedesca, francese, belga, inglese), a un altro di taglio più́ fortemente economico ed economico-sociale, di chiara origine anglosassone.” (D. Cristoferi, Da usi civici a beni comuni: gli studi sulla proprietà collettiva nella medievistica e nella modernistica italiana e le principali tendenze internazionali, Studi Storici, vol. 57, no. 3, 2016, pp. 577-604.)  

 

Il dibattito attuale (o meglio, la disputa), è centrato sulle due opzioni contrapposte riguardo se i “commons” vadano privatizzati (come sostiene la Banca mondiale e i suoi sodali) oppure vadano protetti in quanto “pool” di risorse conservate, gestite, migliorate da un insieme di persone che generalmente chiamiamo “gruppo o comunità” (stanziali e/o nomadi). 

 

Il primo a teorizzare la necessità di togliere il controllo di queste risorse alla comunità che ne facevano un uso comunitario/collettivo, fu G. Hardin con il suo famoso articolo sulla “Tragedia dei Commons” (Hardin, G. 1968. The tragedy of the commons. Science, 261: 1243-1248). Diventata la base intellettuale sulla quale si sono costruiti castelli di ideologia neoliberale, si è dovuto aspettare gli studi di E. Ostrom per contrapporre una visione, articolata e ben giustificata, che spiegava come la miglior gestione possibile di queste risorse fosse esattamente quella fatta, nelle sue varie forme, dalle comunità che da queste risorse dipendevano (Ostrom, E. 1986. Issues of definition and theory: some conclusions and hyphotheses In Panel on Common Property Resource Management, Board of Science and Technology for International Development, Office of International Affairs, National Research Council, eds. Proceedings of the Conference on Common Property Resource Management, 21-26 April 1986. Washington, DC, National Academy Press).

 

La visione difesa dai neoliberali e neoistituzionalisti considera esclusivamente la dimensione economica del bene terra. Dal loro punto di vista si tratta di “valorizzare” un bene (economico) e questo necessita la sua trasformazione in bene privato, formale (con titolo) e individuale. Il vulnus di fondo di queste analisi è quello di dimenticare, come ci ricordano Lambert e Sindzingre, che in Africa non si possiede la terra in quanto individui, ma che la rivendicazione individuale su un pezzo di terra dipende dall’inserimento all’interno di reti più vaste. Altro errore sarebbe considerare queste reti come statiche. Se le risorse diventano rare, gli agenti riallineano le loro alleanze ad altri livelli di gruppo (per esempio passando dal lignaggio al dominio – chefferie / chiefdom o all’amministrazione), giocando così sulle regole comunitarie e sulle possibilità, variabili, di contestarle, secondo un processo che non conduce linearmente dal comunitarismo all’individualismo. I diritti si riferiscono a strati multipli (es. per le colture arbustive, gli individui con diritti sugli alberi possono essere diversi da quelli con diritti sulla terra) e a degli oggetti ugualmente multipli (Lambert, S., Sindzingre, A.. Droits de propriété et modes d’accès à la terre en Afrique, FAO Land Reform, Land Settlement and Cooperatives, 1995). 

 

Ciò che si intende con la nozione di terra come merce, o quella di "gruppo", non sempre trova il suo equivalente in Africa: gli agenti appartengono contemporaneamente a molteplici raggruppamenti, volontari o meno (famiglia nucleare, lignaggi, unità di produzione, unità di consumo, rango in un ciclo di vita, categorie di età e di genere, reti clientelari, ecc.), che definiscono diritti con diverse estensioni (per esempio, diritti a certe colture, a certe terre, come gli appezzamenti allagati per le donne in alcune società).

 

L’altro argomento che viene avanzato a favore della trasformazione di beni comuni in beni privati e individuali riguarda la sicurezza degli aventi diritto. Nella visione che riassumiamo come “occidentale” (Banca mondiale, economisti neoliberali ...) la sicurezza per i proprietari viene data dall’immatricolazione e quindi dal titolo di proprietà. Nel caso dei beni comuni, particolarmente ma non esclusivamente in Africa, come ci ricorda Lavigne-Delville (Lavigne-Delville, Ph., Sécurité, insécurités, et sécurisation foncières : Un cadre conceptuel, FAO Land Reform, Land Settlement and Cooperatives, 2006/2) ci si dimentica di prendere in considerazione l’insieme delle diverse questioni della terra: questioni produttive, ma anche questioni di identità, di pace sociale e di cittadinanza. In effetti, la sicurezza del possesso della terra è anche un fattore di pace sociale: una mancanza di chiarezza sui diritti, regole contestate, provocano o favoriscono conflitti, conflitti in buona fede, manipolazioni o lotte di potere. 

 

I sostenitori della privatizzazione e immatricolazione usano questa definizione: "il diritto, sentito dal possessore di un appezzamento di terreno, di gestire e utilizzare il suo appezzamento, di disporre dei suoi proventi, di effettuare transazioni, compresi i trasferimenti temporanei o permanenti, senza impedimenti o interferenze da parte di persone fisiche o giuridiche" (Bruce, J.W. et Migot-Adholla, S.E. éds. 1994. Searching for land tenure security in Africa. Kendall/Hunt publishing company. 282 p.). In realtà, ci ricorda ancora Lavigne-Delville (Lavigne-Delville, Ph., Sécurisation foncière, formalisation des droits, institutions de régulation foncière et investissements - Pour un cadre conceptuel élargi, FAO Land Tenure Journal, 2010/1) in questo modo viene definita la proprietà privata, non la sicurezza della terra. In effetti, i diritti di sfruttamento ottenuti come proprietà indiretta possono essere perfettamente sicuri se si ha un contratto chiaro (scritto o orale) e la certezza che questo contratto sarà rispettato; si può essere sicuri dei propri diritti, anche con restrizioni del diritto di vendita. 

 

Quello che regge la gestione di queste risorse è stato chiamato via via una “rete di interessi” (Meinzen-Dick R. Mwangi E., 2008. Cutting the web of interests. Land use policy, 26(1), 36–43), oppure un “fascio di diritti” (bundle of rights) (J. W. Bruce, African tenure models at the turn of the century: individual property models and common property models – FAO Land Reform, Land Settlement and Cooperatives, 2000-1), supportati da istituzioni di vario tipo, essenzialmente informali ma con legittimità sociale, incaricate del loro rispetto. Ecco perché i sistemi consuetudinari sono sicuri, flessibili e sono più adatti per rispondere alle cambianti condizioni imposte da fattori come il cambio climatico.

 

Commons e diritti delle donne

 

Chiariti i termini della disputa in corso, dal mio punto di vista questa discussione deve essere allargata, per questo propongo una osservazione da un angolo diverso, facendo inoltre ricorso alle esperienze lavorative che abbiamo portato avanti in alcuni paesi Africani.

 

La corsa alle risorse rare ha visto in questi ultimi decenni sempre più protagonista la terra e l’acqua. Gran parte di queste risorse, soprattutto in Africa, sono ancora sotto regimi di tipo consuetudinario, cioè sono dei “commons”, una tradizione vecchia come la storia, molto sviluppata anche nei nostri paesi europei (per il caso italiano consiglio la lettura di: Forni, N. Herders and common property in evolution: an example from Central Italy, FAO Land Reform, Land Settlement and Cooperatives, 2000-1) e finanche qui nel villaggio dove scrivo, Anguillara Sabazia, fino a pochissimi anni orsono. Insomma si tratta di regole molteplici, flessibili ed adattabili, che le comunità hanno elaborato nel corso dei secoli, per poter accedere, gestire, sfruttare e risolvere eventuali conflitti di uso.  

 

Col tempo (cioè con l’invenzione dello Stato-Nazione) si è riusciti a far passare l’idea (totalmente occidentale e frutto del pensiero neoliberale), che le risorse così gestite fossero “res nullius” (senza diritti) e quindi di fatto proprietà dei nascenti Stati. Una espropriazione totalmente illegale che la comunità internazionale ha non solo accettato ma anche promosso ovunque fosse possibile e necessario.

 

A mano a mano che queste risorse hanno cominciato a diventare più rare (per un insieme di motivi, fra cui la demografia, la siccità e il cambio climatico, ma anche la fame di terre da parte degli usurpatori esterni a queste realtà), la questione del loro status, da semplice diatriba locale è diventata una guerra a più livelli.

 

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Le donne africane rappresentano il 70% della produzione alimentare. Rappresentano anche quasi la metà della forza lavoro agricola e sono responsabili dell'80-90% della lavorazione, dell'immagazzinamento e del trasporto degli alimenti, così come del diserbo e della sarchiatura.

 

Ma le donne spesso non hanno diritti sulla terra, nota Joan Kagwanja, responsabile della sicurezza alimentare e dello sviluppo sostenibile presso la Commissione economica per l'Africa delle Nazioni Unite (UNECA), con sede ad Addis Abeba, Etiopia. Questi diritti sono spesso detenuti da uomini o da gruppi di parentela controllati da uomini, e le donne hanno generalmente accesso ad essi solo attraverso un parente maschio. Le donne erano anche spesso obbligate a consegnare il denaro ricavato dalla vendita dei prodotti agricoli al parente maschio e non potevano decidere come utilizzarlo.

 

Questo accesso limitato alla terra è anche molto precario. Uno studio condotto in Zambia rivela che più di un terzo delle vedove sono private dell'accesso alla terra di famiglia alla morte dei loro mariti. "È questa dipendenza dagli uomini che rende molte donne africane vulnerabili", ha detto la signora Kagwanja ad Afrique Renouveau. (https://www.un.org/africarenewal/fr/magazine/april-2008/droits-fonciers-le-combat-des-femmes)

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Come si diceva pocanzi, da un lato avevamo e abbiamo la Banca mondiale e i vari sostenitori del liberalismo economico, la cui posizione è dominante nei circoli del potere, per cui queste risorse vanno immesse sul mercato, il che implica una loro catalogazione e immatricolazione, in modo da poter emettere dei titoli di proprietà così come li amiamo noi occidentali. Dall’altra parte troviamo un insieme composito di forze sociali, movimenti contadini, universitari, qualche funzionario intermedio di governo e, a volte, agenzie internazionali di sviluppo, dell’ONU o bilaterali che difendono il principio che su quelle risorse esistono diritti molto antichi (ancestrali e comunque precedenti l’invenzione dello Stato-Nazione). 

 

Anche noi, con il nostro programma “Terra” più lungo nel tempo, portato avanti nel Mozambico dalla firma degli accordi di pace del 1992 fino a qualche anno fa, siamo intervenuti concretamente nella realtà politica e di terreno dove questa lotta si è manifestata con molta violenza.

Le donne mozambicane che vivono nelle campagne soffrono gli stessi problemi delle donne di qualsiasi altro paese africano. Accesso alla terra subordinato al benvolere del “regulo” (autorità tradizionale, quasi esclusivamente maschile) e a una serie di usi e costumi tutti tesi a limitare al minimo i loro diritti fondiari. Come riportato da Chale Chambe nella sua tesi, “in caso di divorzio a causa di adulterio, sterilità, mal comportamento e/o accusa di stregoneria, la donna perde il diritto di accesso e uso della terra ed è restituita ai suoi genitori i quali provvedono a darle uno spazio per poter produrre” (Chale Chambe, M.A., O accesso, posse e controle da terra das mulheres rurais nas comunidades do distrito de Inharrime, Tesi di Dottorato, Università di Brasilia, 2016). 

L’ipotesi che tra società matrilineari e patrilineari ci sia una qualche differenza, viene smentita da uno studio promosso dal Forum Mulher, un’organizzazione non-governativa mozambicana dedicata a questi temi: “Le discussioni di gruppo nelle società matrilineari hanno rivelato che le donne non sono coinvolte nel processo decisionale riguardante la terra e altre decisioni che sono piuttosto importanti per la famiglia. [...] Nelle regioni patrilineari nel loro insieme, una donna non ha diritto alla terra nella casa dei suoi genitori perché è una donna, un giorno si sposerà e lascerà la terra, la stessa donna quando si sposa non ha diritto a registrare la terra a suo nome perché il diritto consuetudinario richiede che la terra sia registrata a nome dell'uomo che è capo famiglia. Quando un uomo muore, questa donna viene di solito espulsa dai parenti del marito perché la terra non le appartiene. Questa donna ricomincia il nuovo ciclo e va al Leader tradizionale dove viene ceduto un pezzo di terra dato in prestito. L'insicurezza della donna sull'accesso e la proprietà della terra è continua, è un ciclo di insicurezza” (traduzione personale) (Forum Mulher, 2018, Direitos Das Mulheres À Terra No Contexto Da Pluralidade De Direitos: O Caso De Moçambique).

Una ultima considerazione riguardo ai meccanismi comunitari di risoluzione dei conflitti: la stessa pubblicazione ci ricorda come “In generale, l'organo di risoluzione dei conflitti nella comunità non solo è composto per lo più da uomini, ma le poche donne che sono in questi organi non hanno voce in capitolo e sono presenti per legittimare le decisioni prese dagli uomini”  (traduzione personale). 

Conclusioni simili sono state raggiunte da altre autrici, come Kisambu et al. nel caso di comunità pastorili in Tanzania: “Le credenze consuetudinarie rappresentano una sfida continua ai diritti alla terra delle donne pastorali a Lahoda. Le vedove non hanno generalmente il permesso di ereditare nella società pastorale e, se divorziano, le donne rischiano di essere rimandate dai loro genitori senza nemmeno i raccolti che hanno coltivato. Alle ragazze non è permesso di ereditare perché ci si aspetta che si sposino e che abbiano il diritto di ottenere la terra per il loro uso dai loro mariti” (traduzione personale). Si conferma ancora una volta la subordinazione femminile anche nei meccanismi decisori a livello comunitario, così come già osservato in precedenza in Mozambico: “La presenza limitata delle donne, in particolare, significa che importanti decisioni di gestione delle risorse sono spesso prese senza la loro partecipazione, e questo perpetua il dominio maschile del processo decisionale” (traduzione personale). In poche parole: “L'intera questione dell'uguaglianza di genere e della parità nel processo decisionale è principalmente centrata sul maschio - le donne sono spesso le destinatarie delle decisioni degli uomini e, nella maggior parte dei casi, partecipano solo in termini di numeri” (traduzione personale). (Kisambu, N., Daley, E., Flintan, F., Pallas S., Pastoral Women’s Land Rights and Village Land Use Planning in Tanzania: Experiences from the Sustainable Rangeland Management Project – Documento presentato alla Conferenza della International Association for the Study of the Commons, Utrecht, Olanda, 10-14  Luglio 2017).

Guardando poi al caso del Niger, spesso considerato un esempio positivo, la FAO ci ricorda come le “le regole consuetudinarie [...] le abbiano sempre escluse dall’eredità fondiaria” (traduzione personale) e paradossalmente le donne riescano ad avere un pur minimo diritto di accedere alla terra, in particolare nel sud del paese, grazie alla legislazione mussulmana (http://www.fao.org/gender-landrights-database/country-profiles/listcountries/customarylaw/inheritancesuccessiondefactopracticeschangedinoriginaltranslation/fr/?country_iso3=NER).

 

Di fronte a queste realtà, la nostra strategia è stata la seguente: innanzitutto far riconoscere al governo il diritto legittimo di ogni abitante del paese ad avere diritto alla terra del suo paese. Questo si consolidò con la nuova politica fondiaria alla cui elaborazione fummo invitati dal governo a partecipare, approvata nel 1995. Secondo, che chi avesse usato o gestito in buona fede per un periodo sufficientemente lungo e senza interruzione una certa porzione di territorio, senza che questo venisse contestato da nessun altro, aveva il diritto che questo diritto gli fosse legalmente riconosciuto, cosa per cui una nuova legge andava preparata, votata e messa in pratica. Anche in questo caso il governo affidò alla FAO il compito di facilitare il processo, mettendo a disposizione il personale specifico necessario. La legge, ampiamente discussa e dibattuta nel paese e successivamente nel Parlamento, venne approvata nel 1997. (Tanner, Ch. Law-making in an African context: the 1997 Mozambican Land Law, FAO Legal Papers, 2002). 

 

Essendoci una grande differenza tra la teoria e la pratica, bisognava anche chiarire come questi diritti chiaramente specificati nella legge dovessero essere identificati sul terreno, con metodi partecipativi e che evitassero futuri conflitti con vicini (individui o comunità) per eventuali reclami sui confini. Furono necessari altri anni di lavoro per mettere a punto una proposta metodologica consensuata, testata e sperimentata in varie regioni del paese con funzionari del governo, comunità contadine, ONG, Università e, nel nostro caso, la leadership della FAO. Il prodotto finale fu un Annesso Tecnico alla legge del 1997, elaborato ed approvato nel 2000 (Tanner, C., S. Baleira, S. Norfolk, B. Cau and J. Assulai (2006) Making Rights a Reality: Participation in Practice and Lessons Learned in Mozambique, FAO).

 

Tutto questo doveva però essere a sua volta tradotto in pratiche quotidiane da parte dei funzionari statali, per evitare (o almeno ridurre) le possibilità corruttive tradizionali, nonché nella conoscenza di questo insieme di provvedimenti da parte delle comunità di etnia varia del paese, il cui comun denominatore era la scarsa conoscenza della lingua parlata ufficiale (portoghese). Per queste ragioni, in parallelo con i lavori precedenti, si è realizzato un intenso lavoro di formazione/educazione con le categorie citate sopra, attraverso corsi formali presso il Centro di Formazione Giuridica e Giudiziaria, così come attraverso pratiche più semplici tipo l’uso del teatro nelle lingue locali, in partenariato con ONG locali e istituzioni di governo. 

 

Questo sforzo educativo doveva servire anche a un altro scopo: rafforzare un clima di fiducia reciproca tra comandanti (istituzioni del partito unico di governo) e governati (i cittadini), così che il principio di riconoscere diritti ancestrali diventasse prassi comune, consuetudinaria. Uno sforzo necessario, a mano a mano che investitori stranieri si avvicinavano per richiedere ampie zone di terra per i loro business, attraverso le solite pratiche indotte dal sistema capitalistico attuale, cioè la corruzione, l’uso della forza e il non rispetto dei diritti.

 

C’erano dei limiti da rispettare, per evitare di andare allo scontro diretto col governo, cosa che non sempre è stata possibile, così che a momenti, il nostro personale si è trovato in posizione di essere considerato come Persona Non Grata (in particolare quando questo stesso approccio lo portammo avanti in Angola), con conseguente rallentamento del lavoro. Ma globalmente, e nonostante il rifiuto della Banca mondiale di collaborare con il loro peso politico per rafforzare il nostro lavoro, possiamo dire che ci sia stata un’evoluzione che ha portato, negli anni, le comunità a non solo conoscere e capire il funzionamento della legislazione esistente, ma anche a rafforzare le proprie capacità di resistenza di fronte ai soprusi statali e delle compagnie straniere. Il naturale aumento della conflittività, cosa che tanto preoccupava i miei superiori gerarchici, ovviamente più interessati alle loro poltrone e carriere che al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali, era un risultato da noi sperato, perché dimostrava che i rapporti di forza stavano cambiando.

 

Le ovvie difficoltà da parte della comunità dei “donatori” di continuare ad appoggiare questo gruppo di “rivoluzionari” rappresentato dalla nostra squadra, troppo indipendenti e fuori dagli schemi dell’inutile cooperazione tradizionale, ha fatto sì che pian piano la fonte di sostegno per i nostri lavori si andasse ad esaurire.

 

Ma prima che questo accadesse, avemmo il tempo per aprire la questione centrale, quella che mi ha portato a scrivere questo articoletto: i diritti delle donne all’interno delle comunità!

 

La pratica di terreno in vari paesi africani, asiatici e latinoamericani, ci aveva portato a vedere l’evidenza di una forte asimmetria di potere anche all’interno degli usi e costumi comunitari. Nulla di nuovo, perché questa era una realtà anche nella nostra storia europea, dove le donne erano sempre le ultime ruote del carro quando si parlava di diritti, ma sempre le prime quando si trattava di doveri.

 

Il problema era quindi come affrontare questo tema, con autorità tradizionali quasi esclusivamente maschili, che difendevano il loro potere in nome dell’antichità delle pratiche (usi e costumi), esattamente lo stesso argomento che noi usavamo per aiutare queste comunità di fronte alla prevaricazione proveniente dalle istituzioni statali e/o internazionali. 

 

Una strategia ci venne proposta da un paese donatore scandinavo, che si considera come molto progressista in materia di parità di genere. Ci proposero di preparare un nuovo progetto, all’interno del quale avremmo dovuto realizzare una certa quantità di titolazioni individuali di porzioni di terre comunitarie in nome esclusivo di donne facenti parte di quelle stesse comunità. L’idea era di forzare le autorità tradizionali e metterle di fronte all’evidenza che le donne potevano avere delle parcelle, identificate e immatricolate, così che non fosse più possibile espellerle in caso di morte dei congiunti (cosa molto comune in quegli anni a causa della HIV). A parte l’ovvia considerazione del perché promuovere titoli individuali solo per donne della comunità, escludendo i maschi (anche quelli giovani, per i quali l’accesso alla terra non era particolarmente semplice), ci si poneva di fronte a un problema complesso che era la necessaria autorizzazione delle autorità tradizionali per separare pezzi di terra comunitaria e immatricolarli in nome proprio di individui. Questo meccanismo era previsto nella nuova legge, proprio per far sì che il controllo comunitario delle terre non venisse percepito come una camicia di forza troppo forte per quelle persone che avessero voluto andarsene e monetizzare i loro diritti vendendo la “loro” porzione di terra.

 

Un meccanismo democratico nella sua essenza, ma che non aveva nessuna speranza di poter funzionare nel caso e nelle modalità che il donatore aveva in mente. Oltretutto, forse senza volerlo, promuovere la frammentazione delle terre comunitarie in appezzamenti individuali, era esattamente quanto voleva che si facesse la Banca mondiale. Quegli appezzamenti sarebbero quindi stati immessi sul mercato (via la vendita oppure come garanzie bancarie), e pian piano la stessa sorte sarebbe toccata anche alle altre terre comunitarie rimanenti. Di conseguenza tutto il lavoro politico-giuridico realizzato perché i diritti comunitari fossero salvaguardati come “bene comune”, rischiava di andare all’aria.

 

Coerenti col nostro lavoro di tanti anni, ci opponemmo ai desiderata del donatore e facemmo una contro-proposta: lavorare a partire dalla costruzione di un clima di fiducia con le autorità tradizionali, quelle che avevamo aiutato ad avere riconosciuti i propri diritti territoriali, in modo di arrivare a convincerli che lo stesso metodo democratico dovesse essere applicato all’interno delle comunità, e questo in nome della legge suprema, la Costituzione mozambicana, che stabiliva la parità di diritti tra uomo e donna.

 

Si trattava di un lavoro difficile e soprattutto lungo. La nostra ipotesi era che senza il consenso delle autorità tradizionali, la semplice messa in discussione degli usi e costumi promossa da entità esterne, avrebbe causato più problemi di quanti ne avrebbe risolti. Il metodo del dialogo e della negoziazione era la nostra strada maestra, una strada che però era irta di ostacoli e, soprattutto, non poteva garantire a priori un risultato positivo.

 

Una volta convinto il donatore e approvato il progetto, iniziammo a rafforzare quei legami di collaborazione non solo con le istituzioni statali, a livello centrale e locale, ma anche con organizzazioni che difendevano in particolar modo i diritti delle donne. In questo modo le attività di terreno tese a far conoscere la politica fondiaria e la legislazione sulla terra vennero leggermente modificate includendo una componente specifica dedicata alla questione dei diritti delle donne nelle comunità. La modalità teatrale fu evidentemente quella che dette i migliori risultati, perché più facilmente comprensibile e che provocava intensi dibattiti tra i partecipanti, obiettivo chiave del nostro lavoro.

 

Parallelamente, in particolare con i corsi di formazione presso il Centro di Formazione Giuridico e Giudiziario, accentuammo la riflessione su questo aspetto, in modo che i futuri giudici avessero non solo conoscenza dei testi legislativi ma anche della dinamica in corso nel paese (Tanner, Ch., Bicchieri, M., When the law is not enough, FAO Legislative Study 110, 2014).

 

La durata del progetto non era eterna, ma nei cinque anni di lavoro fu possibile realizzare un intenso programma di sensibilizzazione e formazione e a far sì che in alcuni casi iniziali, finalmente si ottenessero i primi risultati: donne provenienti da altre comunità, sposate con maschi originari della comunità, morti per HIV, invece di vedere le loro terre – quelle che lavoravano da anni – confiscate dalla famiglia in quanto membri originari della comunità, queste donne alloctone videro i loro diritti riconosciuti dalle autorità tradizionali, e poterono continuare a gestirle per conto proprio (Bicchieri, M., Legal Pluralism, Women’s Land Rights and Gender Equality in Mozambique, FAO, 2017). 

 

Conclusioni

 

Una goccia nel mare verrebbe da dire. E sarebbe vero. Inoltre questo lavoro non assicura che al momento dell’eredità queste stesse parcelle di terra possano essere trasmesse da quelle donne alloctone alla loro discendenza, maschile e femminile. E nemmeno risolve il problema dell’accesso alla terra per giovani donne che volessero dedicarsi all’agricoltura al di fuori del legame matrimoniale. Per non parlare poi della rimessa in questione più fondamentale, dei ruoli rispettivi dell’uomo e della donna nelle società consuetudinarie.

 

Quindi siamo ben coscienti di tutti questi limiti. Ma rimane la questione iniziale. Nella stragrande maggioranza i sistemi consuetudinari non proteggono i diritti delle donne, non ne promuovono la loro soggettività politica, e tendono sempre a marginalizzarle in ruoli dominati dagli uomini. Ecco perché esiste oggi un problema che tutte le organizzazioni che pretendono difendere i diritti comunitari in nome del bene comune, dovrebbero affrontare: come fare perché il gruppo che viene difeso, prevaricato da forze più grandi che vorrebbero privatizzare le loro terre in nome dell’economia di mercato, non diventi a sua volta un gruppo prevaricatore nei confronti dei suoi stessi membri, per la sola differenza di genere.

 

Il cammino dell’approccio sistemico basato sui principi di creazione di fiducia e credibilità, dialogo e negoziazione, ci sembra una strada utile da percorrere. In molti casi lo Stato e le sue istituzioni vengono viste come il primo pericolo da parte dei membri delle comunità riguardo i loro diritti fondiari. Uno Stato che apre le porte, anzi le spalanca ai capitali stranieri interessati alle migliori terre per fini che non hanno nulla a che vedere con gli interessi delle comunità locali. Spesso si è parlato di interventi per favorire la sicurezza alimentare nazionale, così come è avvenuto nel famoso caso del ProSavana, con gli impresari brasiliani, appoggiati dalla Fondazione Lula e dal governo mozambicano interessati in realtà solo ad espropriare le migliori terre del corridoio di Nacala per produrre mais e soia transgenica da inviare in Giappone e Cina. La forte campagna internazionale che si è sviluppata è riuscita a rallentare, almeno fino ad oggi, questo ennesimo mostruoso tentativo di accaparramento di risorse appartenenti alle comunità locali (https://www.africarivista.it/mozambico-le-mani-sulla-terra/179112/).

 

Ma quando dal livello macro scendiamo a livello più locale, le resistenze delle autorità tradizionali e della popolazione maschile sono altrettanto forti contro qualsiasi proposta tesa a fra avanzare una uguaglianza di diritti sia per quanto riguarda le risorse naturali sia per quanto riguarda le relazioni familiari e i ruoli rispettivi dell’uomo e della donna all’interno della sfera familiare. Basti ricordare il caso del Niger dove i tentativi di elaborare un Codice della famiglia si è sempre arenato attorno alla questione dello statuto giuridico della donna (http://www.fao.org/gender-landrights-database/country-profiles/listcountries/nationallegalframework/womenspropertyanduserightsinpersonallaws/fr/?country_iso3=NER). Per capire quali siano i reali rapporti di forza, va anche ricordato che secondo il Codice civile "i beni della donna sono gestiti e amministrati dal marito” (traduzione personale) (http://www.fao.org/gender-landrights-database/country-profiles/listcountries/nationallegalframework/womenspropertyanduserightsinpersonallaws/fr/?country_iso3=NER). 

 

Alcuni autori cercano di vedere a ogni costo il bicchiere mezzo pieno, indicando come le donne, in Niger, possono accedere alla terra attraverso la modalità del “prestito” (una parcella di terra del dominio familiare viene loro attribuito per coltivarlo e poter disporre della produzione). Questa modalità, informale, viene descritta come non-precaria. Quando però si analizza più in dettaglio la situazione, ci si rende conto che questa modalità può essere rimessa in causa per varie ragioni: morte del capo famiglia, matrimonio o divorzio – ricordiamo come nel caso citato in Mozambico il marito possa divorziare per tutta una serie di ragioni incredibili: mal comportamento, accuse di stregoneria, infertilità della donna). Gli stessi autori sono quindi costretti ad ammettere che questa modalità “non-precaria” non favorisce gli investimenti, tipo il foraggio di un pozzo, che significherebbe mettere un marchio di appropriazione da parte della donna. Le previsioni di questi stessi esperti dicono che questa modalità avrà sempre meno probabilità di essere usata date le crescenti pressioni sulle terre ( https://reca-niger.org/IMG/pdf/2016-01_Droit_foncier_des_femmes.pdf). 

 

La FAO ha analizzato queste problematiche anche in altri paesi. Per esempio nel caso del Senegal ecco quanto riportato: “La realtà sul terreno mostra che le terre tradizionali sono attualmente gestite per lo più secondo il diritto consuetudinario, che raramente riconosce i diritti alla terra delle donne. Le donne rappresentano il 26% dei gestori di parcelle in agricoltura, ma detengono solo il 13% della terra nell'agricoltura piovosa e la situazione è peggiore nell'agricoltura irrigata” (traduzione personale) (http://www.fao.org/3/ap532f/ap532f.pdf). Lo stesso succede nel caso del Burkina dove, secondo lo studio della FAO “l'esclusione delle donne dal controllo e la gestione della terra è una delle caratteristiche principali dei diritti consuetudinari” (traduzione personale) (Françoise Ki-Zerbo. 2004. Les femmes rurales et l’accès à l’information et aux institutions pour la sécurisation des droits fonciers. Etude de cas au Burkina Faso) (affermazione confermata da un’altra specialista del tema, Françoise Bibiane Yoda: “La terra ha un carattere sacro, che esclude le donne dalla sua gestione” (traduzione personale) (http://www.fao.org/3/ak159f/ak159f32.pdf).

 

La conclusione che si impone è quindi abbastanza chiara: malgrado gli sforzi per far credere che le donne abbiano un accesso sicuro alla terra nei regimi consuetudinari, la realtà ci dice il contrario.

Riuscire a modificare politiche e legislazioni è sicuramente un passo iniziale importante (così almeno sembra evidenziato nel lavoro citato precedentemente nelle comunità pastorili in Tanzania, e così come da noi verificato nel caso mozambicano). Ma questo non è sufficiente. Il cammino che abbiamo testato voleva creare un clima di fiducia nelle autorità tradizionali con cui lavoravamo da anni, in modo che si aprissero ad ascoltare e recepire quei cambiamenti che possono favorire, pur nella perdita di una parte del loro potere, un equilibrio migliore all’interno delle comunità di cui sono responsabili. 

 

Trasformare le autorità tradizionali in agenti di cambio necessita chiaramente uno sforzo prolungato da parte di istituzioni credibili, sia governative che non governative, ed è qui dove i movimenti contadini, così come le associazioni di base di donne e uomini impegnate su questi temi, possono giocare un ruolo molto importante. Sensibilizzazioni prolungate, atelier di concertazione, manuali di genere adatti alle lingue e culture locali diventano quindi strumenti necessari per provocare e accompagnare questi cambi necessari, così come lo conferma anche sia Françoise B. Yoda che un altro specialista, Cristiano Lozano (Formalizzare i diritti, riconciliarsi con la legittimità. Sicurezza fondiaria e partecipazione delle donne in Burkina Faso, in Donne, terre e mercati – Ripensare lo sviluppo rurale in Africa sub-sahariana, a cura di R. Pellizzoli e G. Rossetti, IAO, 2013).

 

La vicinanza di queste organizzazioni con le realtà di terreno, la loro credibilità costruita in anni di lavoro a favore dei contadini/e, pastori e pescatori/trici costituisce una leva per cambiare strada che le autorità statali non hanno e non avranno per molto tempo, essendo identificate, a causa delle pratiche di corruzione e dei soprusi da loro commessi, come parte del problema e non della soluzione.

 

Le esperienze di terreno ci portano a pensare che non sia possibile separare la questione dei diritti sulle terre comuni dalla questione del cambio profondo nei rapporti uomo-donna anche all’interno della sfera riproduttiva e della vita familiare. Fino a quando le donne potranno essere cacciate via grazie al meccanismo del divorzio per cause di stregoneria, di mal comportamento o di sterilità, a poco servirà una sensibilizzazione limitata alle questioni fondiarie. Che si tratti di una lotta di lunga durata non vi è dubbio, ma prima i nostri colleghi dei movimenti contadini inizieranno a mettere questi temi al centro delle loro battaglie, e prima potremo iniziare a sperare in un domani migliore.

 

 

 

 

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