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martedì 2 febbraio 2021

Ripensare l’agricoltura familiare (continua)


 

La chiave di lettura storica è chiaramente indicata dal sostantivo “familiare”, che rinvia a un concetto sociologico-giuridico-religioso che è diventato una specie di sovrastruttura applicata a certe forme di produzione agricola.

 

L’AF viene definita, dalla FAO, come una forma di produzione organizzata e gestita a partire dalla famiglia (L'agricoltura familiare è un sistema per organizzare la produzione nei settori dell'agricoltura, della silvicoltura, della pesca, della pastorizia e dell'acquacoltura; un sistema gestito e realizzato da una famiglia, che si basa in modo predominante sul lavoro della famiglia, sia delle donne che degli uomini - http://www.fao.org/fileadmin/user_upload/iyff/pdf/Family_Farming_leaflet-print-it.pdf). In realtà questo concetto nasconde più che chiarire. Da un lato l’insieme delle attività complementari e necessarie per il buon funzionamento di un’azienda di questo tipo (la cura dei piccoli e degli anziani, il lavoro domestico, le attività produttive come l’orto, l’allevamento di piccoli animali) non sono incluse e, dall’altro, la struttura di potere asimmetrica viene considerata come un assioma, quindi non discutibile.

In realtà le dinamiche di potere interne tendono sempre a marginalizzare la donna in posizioni subordinate, come fosse nell’ordine naturale delle cose. Questo ordine “naturale”, dove domina l’uomo, da cui il sostantivo androcentrico, come ci ricorda Bourdieu, serve a legittimare un rapporto di dominio iscrivendolo in una natura biologica, altro non è che una costruzione sociale naturalizzata. (Bourdieu, P. Il dominio maschile, Feltrinelli, 1998).

Nemmeno laddove la legislazione preveda uguali diritti successori tra figli maschi e femmine, questo principio viene rispettato nella pratica, mantenendo un dominio patriarcale sul capitale. Autrici come Maria José Carneiro hanno studiato il tema della pluriattività in Francia, laddove l’uomo esce dall’azienda per lavorare altrove, e la donna resta ai comandi della parte agricola. Lo studio rivela come di fatto il controllo rimanga nelle mani dell’uomo, e la donna venga considerata, di fatto, come un prolungamento delle braccia del marito (CARNEIRO, Maria José. “Esposa de agricultor na França”, Revis-ta Estudos Feministas, vol. 4, n. 2, Rio de Janeiro : IFCS/UFRJ, 1996.) . L’autrice conclude che il ruolo della donna nella dimensione produttiva non sarebbe il determinante per la redefinizione della sua posizione nella familia o nella società. Ciò che conta è l’ideologia che cimenta le relazioni gerarchiche tra i generi (Miriam Nobre, Relaçoes de genero e agricultura familiar, pubblicato in: Publicado em Miriam Nobre, Emma Siliprandi, Sandra Quintela, Renata Menasche (Orgs.): Gênero e Agricultura Familiar. SOF, São Paulo, 1998).

Di conseguenza, anche se utili, misure prescrittive per stabilire una parità formale di diritti (tipo la co-titolarità della terra), non intaccano il cuore del problema. Il non riconoscimento dell’insieme delle altre attività di cui si diceva sopra, non è una questione di “diritti”, ma una questione ideologica trasversale al mondo conservatore e “progressista” che hanno fondato le loro riflessioni sulla AF a partire dalla sola dimensione produttiva (principale), calcolandone i livelli di produttività rispetto ad altre forme produttive, per poi disputarsi sulla superiorità di una forma rispetto all’altra. La parte “progressista”, originatasi sostanzialmente da settori avanzati della Chiesa cattolica, non poteva non avere come base la concezione storica della famiglia patriarcale, dominata dal “pater familias” che, in questa visione, doveva comportarsi con l’accezione giuridica del “buon padre di famiglia”. Nessuno, da questa parte politica, ha mai criticato questa impostazione. D’altronde, se volessimo andare più indietro nella storia, basterebbe guardare l’esempio della rivoluzione francese, che brilla per l’assenza totale del riconoscimento di diritti alle donne come soggetti indipendenti. 

Nata all’interno della Chiesa cattolica, la concezione dell’agricoltura familiare come prolungamento nel settore agricolo (attività economica dominante per mano d’opera impiegata fino a poco più di un secolo fa), ne determinava i limiti concettuali e storici. Ma se all’epoca si poteva guardare con indulgenza a questa visione (anche se, va ricordato, di fronte esisteva una visione elaborata nel campo comunista totalmente fantasiosa e fuori dalla realtà che sostituiva il nucleo familiare con un concetto comunitario in nome del quale operai e contadini avrebbero lottato assieme per un mondo migliore), la sua storicizzazione non è mai stata presa in considerazione, forse perché per molti decenni, l’essenziale delle persone che si sono dedicate a questi temi erano solo maschi. 

Si è quindi lottato per dimostrare la validità, se non addirittura la superiorità, della AF, rispetto all’agricoltura di grande scala, basata sulla chimica e le trasformazioni genetiche. Anche noi abbiamo partecipato a questo sforzo, e ne siamo andati fieri, perché ha permesso l’emergere di questa categoria, la AF, come un soggetto politico generico, che necessitava di politiche e programmi specifici (tipo il PRONAF in Brasile). 

Negli anni più recenti, l’analisi si è ampliata alla dimensione ecologica e ambientalistica, portando ulteriori elementi a sostengo della necessità di misure specifiche dedicate ad appoggiare queste varie forme di AF nel mondo.

Ma il soffitto di cristallo delle dinamiche interne di potere non veniva assolutamente toccato. Solo a partire dalla fine degli anni 90 sono apparsi studi di specialiste del tema, donne, che hanno iniziato ad esplorare la questione. Dal lato maschile, domina ancora un silenzio di fondo sul tema.

Da dove cominciare

I dati che vengono offerti da paesi come il Brasile o dalla stessa FAO, ci ricordano come le tipologie dette AF rappresentino la grande maggioranza delle aziende agricole nel mondo, e questo a dispetto delle previsioni teorizzate da Lenin e Kautsky. Quindi le AF sono tante e sono diverse, e combinano forme variegate di sopravvivenza e/o riproduzione nel tempo e nello spazio. L’inserimento sempre maggiore nei mercati locali e nazionali, nel settore agro-industriale, la pluriattività, sono oramai considerate come delle caratteristiche strutturali di queste agricolture.

Quello che invece si continua a non voler vedere sono le forme di organizzazione familiare della produzione, e l’ideologia che la sottende. Che le cambianti modalità di inserimento nel mercato e la crescente pluriattività stiano pian piano ridisegnando i rapporti di potere interni, sembra una pista di lavoro interessante, ma il punto centrale resta la difficoltà, per non dire le resistenze, che il mondo dei movimenti popolari continua ad opporre all’apertura a una discussione seria sulle dinamiche di potere interno.

Ripetiamo ancora una volta perché sia chiaro: non si tratta solamente di valorizzare economicamente l’insieme delle attività riproduttive e produttive portate avanti dalle donne in azienda, ma di cambiare l’ideologia che sottende la divisione sociale del lavoro e la sua gerarchia di potere. 

Un contadino con poca terra, che debba lavorare in condizioni di dominio del mercato da parte di grossi conglomerati, affermarsi in un intorno di grandi proprietari che tendono ad erodere le sue parcelle, a cui tocca pagare prezzi crescenti per i suoi fattori produttivi, ecco questo contadino rappresenta, al giorno d’oggi, l’immaginario che movimenti contadini e economisti agrari “progressisti”, difendono di fronte all’esosità del mondo capitalista e finanziario. E su questo siamo d’accordo.

Dopodiché, il nostro contadino torna a casa, e le stesse logiche di sfruttamento ed oppressione vengono esercitate, in modo consapevole o meno, nei confronti della coniuge, di cui non si riconosce il ruolo, né la soggettività politica, diventando lo sbocco delle repressioni accumulate nel corso della sua attività produttiva sottomessa ai “più forti”. L’espressione che si sentiva nelle nostre campagne venete quando ero piccolo, e che riassumeva in poche parole la gerarchia dello sfruttamento era: “Femena, vien chi, che te doparo” (Moglie, vieni qui che ti uso – per i miei piaceri).

Credo quindi che sia da qui che bisogna partire. Non si può più continuare ad appoggiare le lotte che riguardano solo la parte emersa dell’iceberg (il contadino sfruttato), dimenticandosi della base dell’iceberg. Solo una trasformazione delle condizioni sociali di produzione delle disposizioni che portano i dominati a percepirsi come tali può provocare una rottura di questo rapporto di complicità: un semplice atto di coscienza e di volontà non è sufficiente poiché, se questo rapporto di dominio viene continuamente perpetuato, ciò è dato dalla perpetuazione delle strutture che producono tali disposizioni (Bourdieu, Il dominio maschile, op. cit.).

Il riconoscimento della soggettività politica della donna in agricoltura non è un tema che deve essere lasciato a qualche specialista e basta. Deve diventare una pratica strutturale da integrare nei movimenti contadini, nelle forze che appoggiano le lotte contro la disuguaglianza nell’agricoltura, compresa quella Chiesa cattolica che al suo interno vede battersi visoni diverse, anche molto interessanti, come ho potuto constatare nel gruppo brasiliano del villaggio “Agricoltura e Giustizia” dell’iniziativa del Papa “Economia di Francesco”.

La sottomissione femminile in agricoltura è oggi il prodotto di una serie di variabili, di classe, di razza, e di genere, che interagendo fra di loro non sommano, ma moltiplicano il livello di sfruttamento. Che si tratti della coniuge/compagna di un piccolo produttore, di un lavoratore agricolo senza terra, o di altri settori simili, non ci si può limitare a battersi per prezzi più giusti, per un’agricoltura più sana, a chilometro zero, mentre non si fa nulla rispetto alla base della disuguaglianza. Portare avanti la bandiera della riforma agraria, contentandosi di aggiungere il principio della co-titolarità per le future assegnazioni, non porta da nessuna parte, è una battaglia vecchia che non troverà appoggio nell’opinione pubblica, soprattutto tra i più giovani. 

Lo stesso vale nel contesto dei diritti consuetudinari che vengono difesi, soprattutto ma non solo in Africa, per far sì che le terre gestite da sempre dalle comunità locali vedano questi diritti riconosciuti di fronte al dilagare del land grabbing e della violenza islamista. Per quanto valida questa lotta, si porta dietro una consuetudine, creata dall’uomo e a favore dell’uomo, per cui la gerarchia sociale resta imperniata nella figura maschile. Anche qui, limitarsi a battersi per i diritti delle donne (spesso spose alloctone) sulle parcelle di terra che hanno lavorato per anni, non è più sufficienti. Bisogna andare oltre, e rafforzare l’emergere di questa soggettività, individuale e di gruppo, femminile, che porti a una trasformazione radicale della “consuetudine”, come ho cercato di raccontare nel mio romanzo “Libambos” (https://www.elmisworld.com/libro/libambos/).

La lotta è solo agli inizi!

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