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venerdì 9 febbraio 2024

Trattori, agricoltori, crisi

 

Capirci qualcosa nella protesta degli agricoltori non è cosa facile, come scriveva Il Post alcuni giorni fa (https://www.ilpost.it/2024/02/02/proteste-agricoltori-italia-richieste/). Cerchiamo di andare per punti, il primo dei quali è: di chi stiamo parlando. I numeri sono conosciuti e sono stati ricordati: più di 1 milione e centomila aziende attive (ottobre 2020 -Istat) che, comparate con quelle del 1982, indicano che due aziende su tre sono scomparse. Se poi andiamo ancora più indietro, al primo censimento Istat del 1961, allora erano circa 4 milioni e 300 mila. Per semplificare il discorso possiamo prendere quella data come l’inizio della accelerazione della cosiddetta modernizzazione del settore agricolo.

 

Ricordiamo che noi, come altre regioni dell’Europa, uscimmo dalla seconda guerra in brache di tela, come dicono dalle mie parti, cioè con una mano davanti e l’altra dietro, insomma: fame!

 

L’arrivo degli americani, con l’inizio della guerra fredda, ci ha portato a giocare nel loro perimetro che, nel settore agricolo, era molto più sviluppato di quello nostrano europeo. Dimensioni delle aziende maggiori, meccanizzazione spinta, infrastrutture stradali, elettriche diffuse ovunque, assistenza tecnica pubblica (gratuita), una presenza già elevata di prodotti chimici (fertilizzanti e pesticidi) e una ricerca agricola che aveva messo a disposizione varietà migliorate molto più produttive delle nostre.

 

La questione dei prodotti chimici merita una piccola nota. Munizioni ed esplosivi necessitavano grandissime quantità di azoto e fosforo che, alla fine delle ostilità, si sono ritrovate nei magazzini dello zio Sam. Insistere per la chimizzazione dell’agricoltura, americana ed europea, era una maniera semplice di liberarsi delle enormi scorte disponibili. La chimica si portava dietro la meccanica (trattori e compagnia) e la ricerca di varietà nuove che sfruttassero questi prodotti, col risultato che il differenziale produttivo fra un farmer americano e uno del mediterraneo era, all’epoca, di 30 a 1. Finché si giocava in campionati diversi, loro di là e noi di qua dall’oceano, non ci si preoccupava troppo.

 

La fine della guerra però portò anche una forte accelerazione dell’integrazione dei mercati dei paesi occidentali (il Sud del mondo era ancora colonia e quelli dell’Est non avevano neanche gli occhi per piangere). Mercato unico significava dover competere gli uni contro gli altri e su questo torneremo in seguito.

 

La trasposizione del modello americano a casa nostra (europea), funzionò molto bene e in soli 15 anni passammo da una situazione di morti di fame (esagerando eh!) a potenza autosufficiente. Vero è che la spinta americana venne colta in modo diverso da paese a paese. Ci furono paesi, come la Francia per esempio, che spinsero per aumentare le superfici medie delle aziende, facilitando l’ingresso massiccio della chimica e della meccanica, e mettendo la ricerca pubblica al servizio di questo modello: ridurre le varietà (e la biodiversità) a favore di poche varietà con caratteristiche simili che si potessero meccanizzare. Il concomitante sviluppo industriale permise di recuperare la mano d’opera contadina in uscita dal settore, il tutto accompagnato da politiche pubbliche settoriali (remembrement), frutto di una visione che, può piacere o meno, andava verso la creazione di un settore di agri-business che potesse competere con quello, in espansione, americano.

 

Noi seguimmo un’altra strada, senza visione di futuro ma centrata sui benefici elettorali immediati per il partito al potere, la DC. La paura del Partito Comunista era la scusa principale, soprattutto alla luce anche dei moti agrari nel Sud e la spinta per una riforma agraria. La Coldiretti di Bonomi si incaricò di irregimentare gran parte del mondo agricolo fatto di piccole e piccolissime aziende, così da renderle dipendenti dalle prebende del potere politico. Non si cercava la dimensione economica che potesse competere nel nuovo mercato che iniziava a formarsi (europeo e mondiale) ma di tenersi stretta una massa di voti che, negli anni d’oro, arrivò ai 5 milioni (per mamma DC). Dinamiche che ho visto personalmente all’opera, avendo lavorato durante gli anni dell’università, nella sede provinciale di Vicenza della Coldiretti.

 

Gli anni 60 vedono l’inizio della competizione tra questi due agro-sistemi: americano (già ben formato) ed europeo (in via di formazione). Competizione che, a mano a mano che si aprivano nuovi mercati nei vari Sud del mondo, diventa sempre più brutale, usando mille trucchetti per fregare l’altro. Noi europei però avevamo iniziato anche una competizione interna, a scapito di paesi, come quelli dell’area mediterranea, che avevano preferito il bonus politico all’onere di politiche di modernizzazione come i paesi oltralpe.

 

Ecco perché in pochi decenni, il differenziale produttivo tra gli i più forti e gli altri, si è allargato a livelli stratosferici. Stime di quasi una trentina di anni fa davano un gap di 1 a 500 (produttività netta) fra i più produttivi (del nord) e quelli dei PVS. Noi, italiani, eravamo la in mezzo, con un differenziale che è aumentato nei confronti di paesi come la Francia. Non parlo nemmeno del differenziale interno, fra pianura padana e zone agricole del Sud. 

 

Per chi ha buona memoria, quegli sono gli anni dei Montanti Compensativi Monetari, sovvenzioni o imposizioni applicate alle transazioni commerciali di prodotti agricoli tra i paesi membri della Comunità europea in ossequio alla politica agricola comunitaria. Il ricordo personale va alle montagne di frutta che veniva distrutta con i trattori (eh sì, sempre quelli), per mantenere i prezzi stabili.

 

La logica nostra era sempre la stessa: votare la DC in cambio di qualche protezione, prima del bilancio pubblico e poi dalla PAC. La nostra presenza a Bruxelles rasentava il ridicolo, come ben sanno gli specialisti di una certa età: arrivammo a presiedere (1970), per la prima volta, la Commissione europea con Franco Maria Malfatti, il quale preferì mollare tutto poco più di due anni dopo (1972) per concorrere alle elezioni italiane, lasciando uno spazio che altri occuparono meglio di noi (olandesi e francesi). I paesi forti facevano lobbying agguerrite (e portavano a casa leggi, sussidi e quanto altro gli servisse), e a noi restavano le briciole. 

 

Con la caduta del Muro (1989) e la dissoluzione dell’URSS (1991) la situazione non cambiò molto, in superficie. In realtà la presa di potere delle grosse multinazionali dei vari settori (chimici, meccanica…) era già diventata evidente per chi volesse vederla, così come i danni all’ambiente e alla salute che il sistema agricolo dominante nel nord infliggeva a tutti e a tutte, contadini/e o meno. Non parlo nemmeno della distruzione sistematica delle agricolture del Sud che, grazie alla dominazione dell’agribusiness americano ed europeo, accompagnato da politiche protezionistiche allo scopo di farci la guerra tra di noi, impedirono qualsiasi possibilità di creare dei sistemi agrari solidi ed indipendenti nel Sud del mondo.

 

Arriviamo quindi ai giorni nostri: il differenziale produttivo fra noi e le agricolture del nord Europa, che abbiamo contribuito a costruire con le nostre non-scelte politiche, è diventato sempre più problematico da gestire. Inoltre, all’interno del mondo agricolo europeo, la stessa dinamica differenziale ha fatto sì che i soldi messi nella PAC andassero a finire in misura crescente nelle mani della fetta, sempre più ridotta, di grandi aziende – nord Europa ma anche Italiane. 

Nel frattempo, la trasformazione dei contadini in operai indebitati era stata completata. La figura del contadino (e contadina, occhio), cioè di una persona che si preoccupa del territorio (Fossi e cavedagne benedicon le campagne, scriveva Carlo Poni nei primi anni 2000) della sua biodiversità, di produrre cose “genuine”, insomma, il mito del Mulino Bianco, era diventata quella di persone indebitate fino al collo per l’acquisto di macchinari sempre più grandi, sommersi da una burocrazia che, per i quattro spiccioli che ricevevano, domandava loro una montagna di carte, con difficoltà crescenti per aumentare le superfici dato che il prezzo della terra saliva, e solo i grossi produttori industriali potevano permetterselo, il tutto continuando a produrre secondo le indicazioni di mamma Coldiretti e dell’Informatore Agrario. Noi Tecnici agricoli o Agronomi, formati nei primi anni 80, eravamo formattati con la visione dell’agricoltura moderna: chimica (tanta) e trattori. 

 

La manna della PAC ha cominciato a ridursi e a cambiare. Piaccia o meno, la sensibilità “ambientale” era arrivata anche ai politici e a Bruxelles, nonché la necessità di ridurre i fondi disponibili, perché, con la storia del Consenso di Washington e l’obbligo di privatizzare e ridurre il ruolo dello Stato (grazie Reagan e Thatcher), bisognava spendere meno.

 

Meno soldi, che però andavano sempre in maggioranza a favore dei più ricchi, e una sensibilità ambientale che iniziava a farsi sentire. Noi italiani (ma probabilmente non da soli) abbiamo pensato che potessimo fregare i burocrati di Bruxelles, taroccando i prodotti (chi si ricorda il vino al metanolo?) oppure non rispettando le quote latte che erano state negoziate ed accordate. Ricordate che spingeva perché non si pagassero le multe che, giustamente, venivano inflitte a questi furbastri agricoltori padani? La Lega del vostro amico Salvini e del papà Bossi.

 

Non ricordo di aver mai sentito i grossi sindacati degli agricoltori lamentarsi o, ancor meglio, lottare e fare lobbying contro la Grande Distribuzione Organizzata. Nemmeno ricordo averli mai sentiti schierati a favore di una transizione ecologica che era evidente dai primi anni settanta. Hanno preferito sempre vivere nell’illusione del breve e brevissimo periodo, cioè gestire urgenze, chiedendo elemosine per tirare avanti (secondo il famoso detto Andreottiano per cui era meglio tirare a campare che tirare le cuoia).

 

L’unica novità, emersa fuori dagli schemi politici, è stata l’agricoltura biologica nelle sue varie declinazioni. Poi è arrivato anche il movimento Slow Food a rimettere all’ordine del giorno la questione della genuinità dei prodotti (antichi e da preservare), con un’agenda che cerca di riportare in auge l’idea che mangiare bene e sano, pochi grassi e tanta verdura, può allungarci la vita anche perché il territorio viene gestito meglio.

 

La crisi attuale arriva quindi da lontano e, se tanto mi da tanto, non cambierà nulla una volta passata la buriana. Poco centra il governo Meloni, perché non è che quando c’era il centro sinistra si sia spinto per riequilibrare i rapporti di potere nelle negoziazioni con la GDO, oppure per far cambiare la PAC in direzione “verde”. 

 

Gli agricoltori – confermando che oramai sono clonati dentro la visione di brevissimo periodo - chiedono al governo di Giorgia Meloni di mantenere in vigore altre agevolazioni fiscali di cui per anni hanno potuto beneficiare. Con la legge di bilancio per il 2024 il governo non ha confermato l’esenzione per i redditi agricoli dall’IRPEF, l’imposta sul reddito delle persone fisiche, che era in vigore dal 2017: gli agricoltori dovrebbero quindi tornare a pagare l’aliquota ordinaria. Il condizionale è d’obbligo perché alla fine Meloni cederà su questo.

Chiedono anche un netto cambio nelle politiche agricole europee. Se la prendono con le timide decisioni di cominciare ad occuparsi della sterilizzazione crescente dei suoli agricoli. Scriveva anni fa la FAO (2015): “Oggi il 33% del territorio risulta da moderatamente ad altamente degradato, a causa di erosione, salinizzazione, compattazione, acidificazione e inquinamento chimico dei suoli”. La situazione è solo peggiorata, ma questo sembra non interessare i manifestanti. Il Green Deal vuole ridurre l’uso dei prodotti fitosanitari che in Italia (dati Istat 2020) ammontano a 122.000 tonnellate l’anno. Detto in altre parole: grazie a questi produttori noi non stiamo mangiando sano: mangiamo cibi avvelenati che accorciano la vita. In Italia non si lamentano (come in Francia) per il prezzo del gasolio agricolo, dato che già beneficia di accise ridotte. Si lamentano, davanti ai ministeri dell’agricoltura o le prefetture (in Italia e in Europa), dei prodotti che importiamo dall’Ucraina per aiutare questo paese che è in guerra per salvare il culo all’Europa. Ma allora perché non vanno a manifestare davanti alle ambasciate russe? Sarebbe più corretto!

Infine, si lamentano della concorrenza (secondo loro sleale) dei prodotti importati che arrivano con meno obblighi sanitari. Interessante e parzialmente corretta questa richiesta. Bisognerebbe però che innanzitutto si guardassero dentro casa propria perché, come dicevo sopra, noi europei, assieme agli americani e poi gli altri grossi produttori mondiali, abbiamo fatto una concorrenza totale e sleale nei confronti di tutte le agricolture contadine del Sud, riducendole ai minimi termini, provocando l’esodo di milioni di persone, impoverite e facili prede dei movimenti islamici terroristici. Anche qua, lo posso dire per aver toccato con mano i disastri prodotti dalle sovvenzioni alle esportazioni di pomodori italiani in scatola che arrivavano nell’altipiano centrale dell’Angola, quando ancora c’era la guerra, primi anni 2000, a prezzi talmente irrisori che i pochi contadini locali non potevano vendere nemmeno un pomodoro perché il loro costo di produzione, per quanto basso, non poteva competere.

Insomma, grazie ai vostri sindacati e alle forze politiche che avete votato, il sistema agroalimentare italiano è arrivato davanti al muro. Ripeto, non è che a sinistra le cose stiano meglio, ma certo con questa banda di bras cassés come dicono i francesi, è chiaro che non si andrà da nessuna parte.

Va bene battersi contro il caporalato e il lavoro nero in campagna. Ma se i produttori non hanno un prezzo minimo garantito, non ce la potranno mai fare. Quindi politiche pubbliche che vadano nella direzione di forzare la mano alla GDO, fissare dei prezzi minimi per tipo di produzione, incentivando chi usa metodi agro-ecologici (con prezzi maggiori) e in parallelo una ricerca di alleanze in Europa per cambiare la PAC e togliere tutti i sussidi ai grandi produttori, liberando risorse per l’agricoltura contadina che ancora resiste, ecco un’agenda minima di lavoro. A questo si può e si deve aggiungere la protezione della biodiversità, il recupero dei suoli e dell’acqua.

Abbiamo fior fiore di economisti in Italia. Possibile che non si possa stimare quanti soldi verrebbero risparmiati alla salute pubblica con politiche di questo tipo? Soldi che andrebbero girati al ministero dell’agricoltura e dell’ecologia, per ricompensare chi fa questo lavoro.

I soldi non mancano. Lo abbiamo visto con la crisi Covid. I soldi ci sono ma vanno nelle mani sbagliate. Il problema che queste mani sono quelle che hanno il potere, a Roma come a Bruxelles, per cui un’agenda come quella sopra, non la farà mai questo governo (ma ho molti dubbi anche se andasse su un governo dell’opposizione).

Ricordiamoci che per gestire tutta la storia dei migranti (che noi europei contribuiamo a generare con le nostre politiche non solo agricole, ma anche militari ed energetiche), spendiamo una montagna di soldi ogni anno. Se vogliamo che la gente resti a casa sua, devono avere un reddito sufficiente, e siccome alle origini sono contadini e contadine, dovremmo cessare di distruggere le loro agricolture e impegnarci a ricostruirle.

Solo cercando un equilibrio più globale staremo meglio tutti. Ma se invece pensiamo che con queste 4 fregnacce che il governo mollerà ai “trattori” abbiamo risolto qualcosa, allora buonanotte. Io ho cercato di spiegarvelo in sintesi, poi fate voi.

 

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