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martedì 20 febbraio 2024

Vi dico perché, anche per gli agricoltori, non cambierà nulla (in meglio)


 Incontri, dichiarazioni pubbliche, tavoli tecnici, promesse di rimangiarsi decisioni già prese (tagli fiscali) e, asso nella manica, ribadire che è tutta colpa di Bruxelles: insomma il governo fascio-leghista le sta tentando tutte pur di venir fuori dalle proteste varie dei “trattori”. Una possibile via d’uscita passerebbe per tre (più una) mosse che, anche se non necessariamente avrebbero vita facile nell’Italia e nell’Europa attuale, rappresentano tre pilastri chiave per un futuro diverso e migliore.

 

La prima riguarda la ripartizione dei fondi PAC. Ricordiamo che i criteri di ripartizione attuale non li hanno mica decisi gli algoritmi dell’intelligenza artificiale oppure quattro amici al bar, ma i responsabili dei governi membri della UE tra cui, ovviamente, il nostro. Che questi criteri favorissero i più grandi, lo sapevamo da molti anni, ma non ricordo una proposta di nessuno dei governi italiani degli ultimi 50 anni, che andasse in una direzione diversa. Magari mi sbaglio e, in tal caso, faccio ammenda.

 

Qui si tratterebbe di escludere totalmente dai sussidi tutte le grandi aziende, al di sopra di un certo livello di reddito, dimensioni o altro. Una negoziazione non facile, dato il peso della lobby agricola a Bruxelles, ma che libererebbe una quantità non indifferente di risorse. Le grandi aziende, se stanno in piedi perché sono ben gestite, allora imparerebbero sulla loro pelle cosa vuol dire il “libero mercato” di cui tanto si vantano. Quel libero mercato che permette loro, grazie ai cospicui aiuti PAC, di esportare a prezzi di dumping, rovinando le agricolture contadine del Sud.

 

Il secondo passo riguarda la riallocazione di quelle risorse alle agricolture contadine, facendole respirare ma, soprattutto, aiutarle nella transizione verso l’agroecologia. Parte importante di questa mossa sarebbe la lotta, a livello europeo inizialmente, per vietare l’uso di veleni come il glifosato (che ha tanti amici dentro e fuori Bruxelles). Ovviamente, c’è anche bisogno di una azione incisiva, lenta, difficile ma fondamentale, per rendere i criteri ecologico-sanitari più stringenti non solo per le produzioni europee ma anche, e soprattutto, per quelle importate. Per facilitare scambi e partenariati commerciali si potrà usare la leva dei dazi doganali, ma il criterio base dovrà diventare quello dell’equivalenza delle norme ecologico-sanitarie per tutti. 

 

Il terzo passo, oltremodo difficile, riguarda la creazione di prezzi minimi, a partire dai costi di produzione delle agricolture contadine, per prodotto e territorio, così da rafforzare il loro potere negoziale ed impedire le gare al ribasso manipolate dalla Grande Distribuzione Organizzata.

 

Tra gli effetti possibili di queste misure possiamo contare: un aumento del reddito degli agricoltori (maschi e femmine) delle aziende contadine, nonché un aumento della transizione verso l’agroecologico (che, ripetiamolo, se non si accompagna anche a misure di uguaglianza di altro tipo, in particolare di genere, resta solo una tecnica meno intrusiva e nulla più, cioè NON è una misura “di sinistra”!). È ragionevole pensare che la GDO cercherà di trasmettere i costi più alti (per lei) nel prezzo finale al consumo, ma anche su questo sarebbero possibili misure di politica pubblica per ridurre le filiere e i profitti generati dai molti intermediari.

 

Fuor di dubbio che se si vuole fare una vera transizione verso il mangiar meglio, serviranno anche politiche salariali espansive. Nel settore agricolo i controlli contro il lavoro nero e caporalato andrebbero estesi a tappeto dato che, con i maggiori sussidi e i prezzi minimi garantiti, non ci sarebbero più scuse per questo sfruttamento. Negli altri settori, industriale, commercio etc. anche il nuovo governatore della Banca d’Italia Panetta insiste nella necessità di aumentare i salari. In teoria quindi si può ragionare su questo tema. Ovvio comunque che anche una politica culturale diretta a far capire cosa siano le spese essenziali per vivere bene (mangiar bene per stare in salute) e le spese voluttuarie che rispondono ai capricci della pubblicità e degli/delle influencer, andrebbe fatta. 

 

Una delle scuse che viene spesso accampata, in Italia ma anche altrove, appoggiandosi al lavoro fatto dalle lobby dell’agribusiness a livello ONU, è che senza le grandi aziende non si riuscirebbe ad aumentare la produzione di cibo del 70% entro il 2050 come dice la FAO, livello necessario per alimentare una popolazione mondiale in crescita. La stessa FAO (in realtà sono altri gruppi di potere, meno forte del primo) indica però che già adesso la produzione mondiale di alimenti è eccedentaria rispetto ai bisogni nutrizionali. Si calcola che il 14% circa della produzione alimentare sia perso, abbastanza per nutrire 1,3 miliardi d persone. In altre parole, cibo ce n’è, il problema chiave è l’accesso al cibo, non la sua produzione. Quindi anche se noi europei producessimo meno, non cambierebbe granché, finché non cambiamo il modo di produrre e non aumentiamo il potere d’acquisto delle classi popolari e medie.

 

Togliere soldi alle grandi aziende non significa che andranno tutte in malora, ma solo che ridurranno una parte dei loro profitti e che ripenseranno le loro strategie di esportare e conquistare mercati grazie alle sovvenzioni europee.

 

Questo circolo virtuoso potrebbe poi essere accompagnato da una proposta, questa sì ambiziosa, di aiutare le agricolture contadine del Sud a rafforzarsi. Questo significa rivedere le politiche liberticide per cui i nostri prodotti entrano nei loro mercati con pochissimi dazi, facendo concorrenza sleale. Vuol dire anche pensare a un mondo dove le contadine e i contadini possano vivere degnamente del loro lavoro a casa propria, senza bisogno di migrare altrove. Dico che questa mossa è la più ambiziosa perché, culturalmente, le elite al potere nei paesi del Sud sono, tendenzialmente, tutte contro all’agricoltura contadina che considerano cosa d’altri tempi e non “moderna”. Un’agricoltura che, avendo bisogno di meno meccanica e chimica, riduce anche le possibilità di mazzette e corruzioni varie. Quindi lanciarsi su questa strada vuol dire pensare a un futuro diverso, ma che non vedremo nei prossimi anni. Ma va fatto.

 

Come scrivevo giorni fa, un cambio strutturale del nostro sistema agricolo, a parte la possibilità di rivalorizzare su scala non miniaturizzata le tante varietà locali di tutti i prodotti possibili che abbiamo in Italia, così rendendo più forti e stabili tantissimi territori del nostro paese, avrebbe anche delle ricadute (oltreché lavorative) in termini di salute, riducendo i morti per avvelenamento, tumore e infezioni varie dovute alla chimica. La biodiversità ne trarrebbe vantaggio e finalmente potremmo tornare a passeggiare in campagna senza paura di respirare glifosato.

 

Insomma, un mondo difficile da costruire, ma possibile. Questo però significherebbe mettere davanti i più deboli, i più precari, quelle persone con meno potere. E allora gli occhi vanno su un altro settore, emblematico dello sfruttamento capitalistico attuale, quello dei raiders: capita così di leggere che la direttiva che avrebbe garantito diritti fondamentali ai lavoratori delle piattaforme, a cominciare dai rider, è stata bloccata da un ristretto numero di Paesi Ue con, in testa, Francia e Germania. Un governo di destra (Macron) e uno “semaforo” (Socialdemocratici-Verdi e Liberali) in Germania: tutti uniti nel fregarsene di chi è povero e non ha tutele.

 

E allora, se tanto mi da tanto, non vedo ragioni per pensare che anche nel mondo agricolo non cambierà nulla. 

 

 

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