lunedì 24 ottobre 2016
2016 L47: Newton Thornburg - La renversée
Gallimard, 1969
«"Ce grand immeuble, sur l'autre rive du fleuve, expliqua Cross, c'est la banque du Commerce. Et maintenant, tout en bas, vous voyez cette petite porte d'acier inox ? C'est par là que passe le fric destiné à la banque..." "Alors, s'exclama Raven en ricanant, c'est là qu'on va braquer le fourgon blindé ? Au beau milieu de la ville ?" "Autre chose, reprit Cross, imperturbable. On n'emportera pas le magot avec nous. On le balancera aussi sec... à la flotte !"»
vabbé... letto e messo via... niente di speciale...
mercoledì 19 ottobre 2016
2016 L46: Pierre Magnan - Le commissaire dans la truffière
Gallimard, 1978
Qui aurait dit à Laviolette, venu à Banon, Basses-Alpes, pour y déguster une omelette aux truffes, qu'il y trouverait des cadavres ? Qu'il se casserait le nez sur un tombeau protestant depuis longtemps désaffecté et qu'il serait obligé de partager ses lauriers avec une truie nommée Roseline ?
Comme d'habitude, la solution ne lui apparaîtra que par hasard, au terme d'une série d'échecs tous plus lourds de conséquences les uns que les autres.
Bello, un francese un po' aulico ma divertente.. consigliato anche questo.. candidato alla Top
martedì 18 ottobre 2016
Brasile - Bolsa Familia (Fome Zero): Era tutto oro quello che luccicava?
Leggo un articolo sulla versione elettronica del giornale di Rio O GLOBO: http://g1.globo.com/bom-dia-brasil/noticia/2016/06/mais-de-500-mil-funcionarios-publicos-receberam-bolsa-familia-diz-mpf.html
Dopo il cambio di governo avvenuto qualche mese fa, é iniziata una verifica dettagliata degli iscritti al famoso programma di lotta alla fame. I primi accertamenti indicano la cifra astronomica di cinquecentomila funzionari pubblici che risultano iscritti al programma per cui ricevono dei sussidi come fossero dei poveracci del NordEst.
Capisco che il Brasile é il paese "mais grande du mundo..." ma mi sembrano cifre da far impallidire anche i nostri compaesani (penso in particolare all'insuperabile Remo Gaspari - vi invito a leggere l'articolo che segue: http://ricerca.gelocal.it/ilcentro/archivio/ilcentro/2013/09/03/AQ_12_11.html - che alle poste era riuscito a far assumere tutta Pescara e paesi limitrofi, ma mai si era inepricato a questi livelli. Qua stiamo confrontando il pur rispettabile Monte Bianco con l'Everest.
Spero proprio che qualcuno dei miei amici brasiliani mi spieghi come questo sia stato possibile. Si tratta di cifre, se non erro, relative al solo periodo 2013-2014. Il problema delle liste "aggiustate" d'altronde é nato assieme al Fome Zero: ricordo le discussioni con il mio amico Padre Martinho su come le buone intenzioni di Brasilia finissero troppo spesso nelle tasche degli amici degli amici a livello locale. Si pensava peró di averne posto rimedio, ma adesso invece viene fuori che quello era solo lo stadio zero del missile Bolsa Familia/Fame Zero e che il bello era tutto da scoprire.
Vedremo nei prossimi mesi cos'altro salterá fuori. L'unica cosa sicura, su cui possiamo mettere la mano al fuoco, é che i fondi per il programma saranno ridotti, data la crisi economica in cui Dilma ha lasciato il paese, e che il numero di poveri e affamati riprenderà a salire.
La mia personale impressione é la stessa di tanti altri commentatori: non aver voluto cambiare le ragioni strutturali del problema della fame e della povertà rurale (che, come scriveva 70 anni fa Josué de Castro, sono riconducibili in buona parte a una struttura agraria altamente diseguale), cioé non aver fatto una riforma agraria seria, come tuttavia era stata promessa dall'allora candidato Lula, ha lasciato il problema della povertà e fame in balia di misure congiunturali (ancorchè "politiche pubbliche") dipendenti dai prezzi internazionali delle commodities. Finchè c'erano soldi da spartire, tutto é andato bene, ma adesso che non c'é trippa pe' gatti, é logico attendersi quello che i francesi chiamano un "retour de bâton prévisible et mérité".
Dopo il cambio di governo avvenuto qualche mese fa, é iniziata una verifica dettagliata degli iscritti al famoso programma di lotta alla fame. I primi accertamenti indicano la cifra astronomica di cinquecentomila funzionari pubblici che risultano iscritti al programma per cui ricevono dei sussidi come fossero dei poveracci del NordEst.
Capisco che il Brasile é il paese "mais grande du mundo..." ma mi sembrano cifre da far impallidire anche i nostri compaesani (penso in particolare all'insuperabile Remo Gaspari - vi invito a leggere l'articolo che segue: http://ricerca.gelocal.it/ilcentro/archivio/ilcentro/2013/09/03/AQ_12_11.html - che alle poste era riuscito a far assumere tutta Pescara e paesi limitrofi, ma mai si era inepricato a questi livelli. Qua stiamo confrontando il pur rispettabile Monte Bianco con l'Everest.
Spero proprio che qualcuno dei miei amici brasiliani mi spieghi come questo sia stato possibile. Si tratta di cifre, se non erro, relative al solo periodo 2013-2014. Il problema delle liste "aggiustate" d'altronde é nato assieme al Fome Zero: ricordo le discussioni con il mio amico Padre Martinho su come le buone intenzioni di Brasilia finissero troppo spesso nelle tasche degli amici degli amici a livello locale. Si pensava peró di averne posto rimedio, ma adesso invece viene fuori che quello era solo lo stadio zero del missile Bolsa Familia/Fame Zero e che il bello era tutto da scoprire.
Vedremo nei prossimi mesi cos'altro salterá fuori. L'unica cosa sicura, su cui possiamo mettere la mano al fuoco, é che i fondi per il programma saranno ridotti, data la crisi economica in cui Dilma ha lasciato il paese, e che il numero di poveri e affamati riprenderà a salire.
La mia personale impressione é la stessa di tanti altri commentatori: non aver voluto cambiare le ragioni strutturali del problema della fame e della povertà rurale (che, come scriveva 70 anni fa Josué de Castro, sono riconducibili in buona parte a una struttura agraria altamente diseguale), cioé non aver fatto una riforma agraria seria, come tuttavia era stata promessa dall'allora candidato Lula, ha lasciato il problema della povertà e fame in balia di misure congiunturali (ancorchè "politiche pubbliche") dipendenti dai prezzi internazionali delle commodities. Finchè c'erano soldi da spartire, tutto é andato bene, ma adesso che non c'é trippa pe' gatti, é logico attendersi quello che i francesi chiamano un "retour de bâton prévisible et mérité".
venerdì 14 ottobre 2016
2016 L45: Romain Puertolas - L'extraordinaire voyage du fakir qui était resté coincé dans une armoire ikea
Le Dilettante 2013
Un voyage low-cost... dans une armoire Ikea! Une aventure humaine incroyable aux quatre coins de l'Europe et dans la Libye post-Kadhafiste. Une histoire d'amour plus pétillante que le Coca-Cola, un éclat de rire à chaque page mais aussi le reflet d'une terrible réalité, le combat que mènent chaque jour les clandestins, ultimes aventuriers de notre siècle, sur le chemin des pays libres.
Il était une fois Ajatashatru Lavash Patel (à prononcer, selon les aptitudes linguales, "j'arrache ta charrue" ou "achète un chat roux"), un hindou de gris vêtu, aux oreilles forées d'anneaux et considérablement moustachu.
Profession: fakir assez escroc, grand gobeur de clous en sucre et lampeur de lames postiches. Ledit hindou débarque un jour à Roissy, direction La Mecque du kit, le Lourdes du mode d'emploi : Ikea, et ce aux fins d'y renouveler sa planche de salut et son gagne-pain en dur: un lit à clous.
Taxi arnaqué, porte franchie et commande passée d'un modèle deux cents pointes à visser soi-même, trouvant la succursale à son goût, il s'y installe, s'y lie aux chalands, notamment à une délicieuse Marie Rivière qui lui offre son premier choc cardiaque, et s'y fait enfermer de nuit, nidifiant dans une armoire... expédiée tout de go au Royaume-Uni en camion.
Digne véhicule qu'il partage avec une escouade de Soudanais clandestins. Appréhendés en terre d'Albion, nos héros sont mis en garde à vue.
Réexpédié en Espagne comme ses compères, Ajatashatru Lavash Patel y percute, en plein aéroport de Barcelone, le taxi floué à qui il échappe à la faveur d'un troisième empaquetage en malle-cabine qui le fait soudain romain... et romancier (l'attente en soute étant longue et poussant à l'écriture).
Protégé de l'actrice Sophie Morceaux, il joue une nouvelle fois la fille de l'air, empruntant une montgolfière pour se retrouver dans le golfe d'Aden puis, cargo aidant, à Tripoli.
Une odyssée improbable qui s'achèvera festivement en France où Ajatashatru Lavash Patel passera la bague au doigt de Marie dans un climat d'euphorie cosmopolite.
Sur le mode rebondissant des périples verniens et des tours de passe-passe houdinesques, voici donc, pour la première fois dans votre ville,
L'extraordinaire voyage du fakir qui était resté coincé dans une armoire Ikea, un spectacle en Eurovision qui a du battant, du piquant et dont le clou vous ravira. Non, mais.
Molto "rigolo"... da ridere e da leggere assolutamente... ovvio che sarà nella Top
Un voyage low-cost... dans une armoire Ikea! Une aventure humaine incroyable aux quatre coins de l'Europe et dans la Libye post-Kadhafiste. Une histoire d'amour plus pétillante que le Coca-Cola, un éclat de rire à chaque page mais aussi le reflet d'une terrible réalité, le combat que mènent chaque jour les clandestins, ultimes aventuriers de notre siècle, sur le chemin des pays libres.
Il était une fois Ajatashatru Lavash Patel (à prononcer, selon les aptitudes linguales, "j'arrache ta charrue" ou "achète un chat roux"), un hindou de gris vêtu, aux oreilles forées d'anneaux et considérablement moustachu.
Profession: fakir assez escroc, grand gobeur de clous en sucre et lampeur de lames postiches. Ledit hindou débarque un jour à Roissy, direction La Mecque du kit, le Lourdes du mode d'emploi : Ikea, et ce aux fins d'y renouveler sa planche de salut et son gagne-pain en dur: un lit à clous.
Taxi arnaqué, porte franchie et commande passée d'un modèle deux cents pointes à visser soi-même, trouvant la succursale à son goût, il s'y installe, s'y lie aux chalands, notamment à une délicieuse Marie Rivière qui lui offre son premier choc cardiaque, et s'y fait enfermer de nuit, nidifiant dans une armoire... expédiée tout de go au Royaume-Uni en camion.
Digne véhicule qu'il partage avec une escouade de Soudanais clandestins. Appréhendés en terre d'Albion, nos héros sont mis en garde à vue.
Réexpédié en Espagne comme ses compères, Ajatashatru Lavash Patel y percute, en plein aéroport de Barcelone, le taxi floué à qui il échappe à la faveur d'un troisième empaquetage en malle-cabine qui le fait soudain romain... et romancier (l'attente en soute étant longue et poussant à l'écriture).
Protégé de l'actrice Sophie Morceaux, il joue une nouvelle fois la fille de l'air, empruntant une montgolfière pour se retrouver dans le golfe d'Aden puis, cargo aidant, à Tripoli.
Une odyssée improbable qui s'achèvera festivement en France où Ajatashatru Lavash Patel passera la bague au doigt de Marie dans un climat d'euphorie cosmopolite.
Sur le mode rebondissant des périples verniens et des tours de passe-passe houdinesques, voici donc, pour la première fois dans votre ville,
L'extraordinaire voyage du fakir qui était resté coincé dans une armoire Ikea, un spectacle en Eurovision qui a du battant, du piquant et dont le clou vous ravira. Non, mais.
Molto "rigolo"... da ridere e da leggere assolutamente... ovvio che sarà nella Top
giovedì 13 ottobre 2016
2016 L44: Cédric Bannel - Baad
Robert Laffont 2016
BARBARIE
Des jolies petites filles, vêtues de tenues d’apparat, apprêtées pour des noces de sang.
ABOMINATION
Deux femmes, deux mères. À Kaboul, Nahid se bat pour empêcher le mariage de sa fille, dix ans, avec un riche Occidental. À Paris, les enfants de Nicole, ex-agent des services secrets, ont été enlevés. Pour les récupérer, elle doit retrouver un chimiste en fuite, inventeur d’une nouvelle drogue de synthèse.
AFFRONTEMENT
Il se croit protégé par ses réseaux et sa fortune, par l’impunité qui règne en Afghanistan. Mais il reste encore dans ce pays des policiers déterminés à rendre la justice, comme l’incorruptible chef de la brigade criminelle, le qomaandaan Kandar.
DÉFLAGRATION
Nicole et Nahid aiguisent leurs armes. Pour triompher, elles mentiront, tortureront et tueront. Car une mère aimante est une lionne qui peut se faire bourreau.
Bello.. non c'é altro da dire. Candidatissimo alla Top dell'anno.
lunedì 10 ottobre 2016
Haiti: per finirla con la retorica della sofferenza
L’uragano
Matthew è passato da quelle parti e subito i morti si sono
contati a centinaia. A Cuba non ne ha fatto nemmeno uno e negli Stati Uniti, a
forza di cercare, ne hanno trovati una decina, così da giustificare lo spiegamento
di forze per far sfollare qualche milione di persone.
Non mi interessa Matthew, dato che non sarà certo l’ultimo; il mio sguardo va verso i giornali e telegiornali che, o per ignoranza o per altro, hanno fatto circolare l’informazione su Haiti, ricordando, al massimo, che il paese è ancora per terra dopo il terremoto del 2010. Non ne ho trovato uno, o una, che facesse uno sforzo per cercare di capire come mai questo paese sia messo così male.
Quando va proprio bene, troviamo qualche reportage che ci illustra la deforestazione quasi totale e la degradazione dei suoli agricoli e poi il fatto che gran parte della gente viva in capacchie di legno e bandoni e fango. Già questo é un primo passetto in avanti nell'informazione. Invito quindi a farne qualcuno in più, così la prossima volta che un cugino di Matthew passi da quelle parti e faccia qualche altro centinaio o più di morti, almeno la smettiamo di piangere per quello e cominciamo a dirigere la rabbia verso altri lidi.
Il giorno dopo il terremoto del 2010, una radio francese intervistava un membro del gruppo “architetti senza frontiere” (mai sentito prima, ma va bene lo stesso), in partenza per la capitale. Il suo giudizio era quanto mai sferzante e, dal mio punto di vista, di una correttezza esemplare. Diceva, in soldoni, che sarebbe stato un grossissimo problema ristrutturare e ricostruire le case (il riferimento era, all’epoca, ai tanti morti nella capitale) dato che nessuno aveva un pezzo di carta, un titolo o roba simile, che ne certificasse la proprietà.
La stessa situazione si applica da decenni e decenni (non voglio andar indietro di secoli, ma ritroveremmo la stessa situazione) anche nelle campagne agricole. Il tutto aggravato dalla solita concentrazione di terra in mano a poche famiglie e, da ultimo, un sistema legale e giuridico quanto mai farraginoso, fatto apposta per complicare qualsiasi operazione di accatastamento.
Nessuno si sente proprietario a casa sua o nella sua terra (proprietario non nel senso come lo intendiamo noi, ma almeno sicuro di avere una legittimità forte e riconosciuta, che a volte passa anche per un pezzetto di carta con una X messa sopra). La mancanza di sicurezza fondiaria, ce lo insegnano i liberisti della banca mondiale, porta ad avere una relazione predatoria rispetto al bene in oggetto: non si investe per migliorarlo o proteggerlo, come fanno i contadini nel resto del mondo, ma si prende quel che si può nel minor tempo possibile. Il concetto di futuro, di domani, diventa sempre più aleatorio, per cui intanto tiriamo a campare oggi e poi si vedrà.
Haiti era un’isola molto più prosperosa della Repubblica Dominicana, tanto che i francesi fecero di tutto per barattarla con gli spagnoli, facendo cambio: io mi prendo Haiti, le sue foreste, le sue sorgenti, e vi do questa metà Dominicana che interessava molto poco. Oggi se guardate su un google earth qualsiasi, Haiti lo riconoscete perchè non vedrete una macchia di verde neanche dipingendola. Deforestazione, degradazione delle terre e coltivazione su qualsiasi pendente fanno sì che alle prime gocce di ioggia viene giù tutto, figuratevi quando arriva un uragano.
La comunità internazionale ha fatto di tutto per non vedere sul serio questo problema. Abbiamo proposto dei palliativi, tipo il piantare alberelli (un collega forestale mi diceva che con gli alberelli che noi abbiamo fatto piantare avremmo fatto un’autostrada da Port Au Prince fino a Roma). Non ce ne sono più di alberi perchè una volta messi lì, sulle terre di qualcun altro, appena arrivava la fine del progetto finiva tutto, anche i salari per quei quattro poveracci che lavoravano col sistema del food for work. Tanto poi, la comunità internazionale, intenerita dalle immagini che periodicamente arrivavano da questa Africa piazzata in mezzo ai Caraibi, mandava sempre altri soldi per cui non mancava mai una organizzazione, grande o piccol, pronta a proporre un altro progetto... di riforestazione....
Il terremoto, come fu chiaro a qualcuno di noi, rappresentava un’occasione storica per affrontare i veri problemi alla radice. Lo scrissi in messaggi interni ai miei colleghi, corsi sul posto per aiuti di emergenza. Lo scrissi e lo dissi ai miei capi, lo andai a ripetere sul posto, ma nulla è mai stato fatto. Toccare la questione dei diritti sulla terra, in campagna e in città, vuol dire affrontare il potere economico e politico, cosa che le Nazioni Unite e i vari donanti internazionali, Francia in testa, non hanno mai voluto fare.
Era quello il momento quando esisteva una legittimità per intervenire, i poteri forti erano meno forti, c’erano soldi e si poteva quindi iniziare.
Non è stato fatto. Al giorno d’oggi, non mi pare che nemmeno il palazzo presidenziale (costruito su terre che non si sa a chi appartenessero) sia stato ricostruito anzi, a gennaio di due anni fa il presidente dell'epoca ha dichiarato che la sua ricostruzione non rappresentava una prioritá per il paese. I poveracci delle città e delle campagne non avranno mai una certezza sulle loro terre per cui continueranno a disboscare ogni albero che troveranno, perchè di energia ne hanno bisogno per cucinare e per vivere.
Haiti traeva ricchezza anche dall’allevamento dei suini, che quasi tutti i contadini avevano a casa. Andate a cercare l’anno: una minaccia di peste suina toccò gli Stati Uniti che, per proteggersi, passarono su Haiti peggio dell’uragano Matthew, uccidendo tutti, ma proprio tutti, i maiali che esistevano nel paese )a parte quelli politici ovviamente). Da allora non c’è più stato modo di far ripartire quella capitalizzazione agricola minima su cui costruire un domani migliore.
Quindi al prossimo uragano, pensateci due volte e caso mai incazzatevi con chi ha paura di fare quello che sarebbe il suo scopo ultimo: ridurre la povertà e la fame.
PS. I colleghi responsabili delle azioni di terreno ai quali avevo cercato di spiegare questi problemi, senza successo, sono stati, nel frattempo, tutti promossi. Vabbé, magari non c'entra niente.
Non mi interessa Matthew, dato che non sarà certo l’ultimo; il mio sguardo va verso i giornali e telegiornali che, o per ignoranza o per altro, hanno fatto circolare l’informazione su Haiti, ricordando, al massimo, che il paese è ancora per terra dopo il terremoto del 2010. Non ne ho trovato uno, o una, che facesse uno sforzo per cercare di capire come mai questo paese sia messo così male.
Quando va proprio bene, troviamo qualche reportage che ci illustra la deforestazione quasi totale e la degradazione dei suoli agricoli e poi il fatto che gran parte della gente viva in capacchie di legno e bandoni e fango. Già questo é un primo passetto in avanti nell'informazione. Invito quindi a farne qualcuno in più, così la prossima volta che un cugino di Matthew passi da quelle parti e faccia qualche altro centinaio o più di morti, almeno la smettiamo di piangere per quello e cominciamo a dirigere la rabbia verso altri lidi.
Il giorno dopo il terremoto del 2010, una radio francese intervistava un membro del gruppo “architetti senza frontiere” (mai sentito prima, ma va bene lo stesso), in partenza per la capitale. Il suo giudizio era quanto mai sferzante e, dal mio punto di vista, di una correttezza esemplare. Diceva, in soldoni, che sarebbe stato un grossissimo problema ristrutturare e ricostruire le case (il riferimento era, all’epoca, ai tanti morti nella capitale) dato che nessuno aveva un pezzo di carta, un titolo o roba simile, che ne certificasse la proprietà.
La stessa situazione si applica da decenni e decenni (non voglio andar indietro di secoli, ma ritroveremmo la stessa situazione) anche nelle campagne agricole. Il tutto aggravato dalla solita concentrazione di terra in mano a poche famiglie e, da ultimo, un sistema legale e giuridico quanto mai farraginoso, fatto apposta per complicare qualsiasi operazione di accatastamento.
Nessuno si sente proprietario a casa sua o nella sua terra (proprietario non nel senso come lo intendiamo noi, ma almeno sicuro di avere una legittimità forte e riconosciuta, che a volte passa anche per un pezzetto di carta con una X messa sopra). La mancanza di sicurezza fondiaria, ce lo insegnano i liberisti della banca mondiale, porta ad avere una relazione predatoria rispetto al bene in oggetto: non si investe per migliorarlo o proteggerlo, come fanno i contadini nel resto del mondo, ma si prende quel che si può nel minor tempo possibile. Il concetto di futuro, di domani, diventa sempre più aleatorio, per cui intanto tiriamo a campare oggi e poi si vedrà.
Haiti era un’isola molto più prosperosa della Repubblica Dominicana, tanto che i francesi fecero di tutto per barattarla con gli spagnoli, facendo cambio: io mi prendo Haiti, le sue foreste, le sue sorgenti, e vi do questa metà Dominicana che interessava molto poco. Oggi se guardate su un google earth qualsiasi, Haiti lo riconoscete perchè non vedrete una macchia di verde neanche dipingendola. Deforestazione, degradazione delle terre e coltivazione su qualsiasi pendente fanno sì che alle prime gocce di ioggia viene giù tutto, figuratevi quando arriva un uragano.
La comunità internazionale ha fatto di tutto per non vedere sul serio questo problema. Abbiamo proposto dei palliativi, tipo il piantare alberelli (un collega forestale mi diceva che con gli alberelli che noi abbiamo fatto piantare avremmo fatto un’autostrada da Port Au Prince fino a Roma). Non ce ne sono più di alberi perchè una volta messi lì, sulle terre di qualcun altro, appena arrivava la fine del progetto finiva tutto, anche i salari per quei quattro poveracci che lavoravano col sistema del food for work. Tanto poi, la comunità internazionale, intenerita dalle immagini che periodicamente arrivavano da questa Africa piazzata in mezzo ai Caraibi, mandava sempre altri soldi per cui non mancava mai una organizzazione, grande o piccol, pronta a proporre un altro progetto... di riforestazione....
Il terremoto, come fu chiaro a qualcuno di noi, rappresentava un’occasione storica per affrontare i veri problemi alla radice. Lo scrissi in messaggi interni ai miei colleghi, corsi sul posto per aiuti di emergenza. Lo scrissi e lo dissi ai miei capi, lo andai a ripetere sul posto, ma nulla è mai stato fatto. Toccare la questione dei diritti sulla terra, in campagna e in città, vuol dire affrontare il potere economico e politico, cosa che le Nazioni Unite e i vari donanti internazionali, Francia in testa, non hanno mai voluto fare.
Era quello il momento quando esisteva una legittimità per intervenire, i poteri forti erano meno forti, c’erano soldi e si poteva quindi iniziare.
Non è stato fatto. Al giorno d’oggi, non mi pare che nemmeno il palazzo presidenziale (costruito su terre che non si sa a chi appartenessero) sia stato ricostruito anzi, a gennaio di due anni fa il presidente dell'epoca ha dichiarato che la sua ricostruzione non rappresentava una prioritá per il paese. I poveracci delle città e delle campagne non avranno mai una certezza sulle loro terre per cui continueranno a disboscare ogni albero che troveranno, perchè di energia ne hanno bisogno per cucinare e per vivere.
Haiti traeva ricchezza anche dall’allevamento dei suini, che quasi tutti i contadini avevano a casa. Andate a cercare l’anno: una minaccia di peste suina toccò gli Stati Uniti che, per proteggersi, passarono su Haiti peggio dell’uragano Matthew, uccidendo tutti, ma proprio tutti, i maiali che esistevano nel paese )a parte quelli politici ovviamente). Da allora non c’è più stato modo di far ripartire quella capitalizzazione agricola minima su cui costruire un domani migliore.
Quindi al prossimo uragano, pensateci due volte e caso mai incazzatevi con chi ha paura di fare quello che sarebbe il suo scopo ultimo: ridurre la povertà e la fame.
PS. I colleghi responsabili delle azioni di terreno ai quali avevo cercato di spiegare questi problemi, senza successo, sono stati, nel frattempo, tutti promossi. Vabbé, magari non c'entra niente.
mercoledì 5 ottobre 2016
2016 L43: Olivier Norek: Territories
Pocket 2015
Depuis la dernière enquête du capitaine Victor Coste, le calme semble être revenu au SDPJ 93. Son équipe, de plus en plus soudée, n'aura cependant pas le temps d'en profiter. L'exécution sommaire, en une semaine, des trois jeunes caïds locaux de la drogue va tous les entraîner dans une guerre aussi violente qu'incompréhensible. Des pains de cocaïne planqués chez des retraités, un ado de 13 ans chef de bande psychopathe, des milices occultes recrutées dans des clubs de boxe financés par la municipalité, un adjoint au maire torturé, retrouvé mort dans son appartement, la fille d'un élu qui se fait tirer dessus à la sortie de l'école... Coste va avoir affaire à une armée de voyous sans pitié : tous hors la loi, tous coupables, sans doute, de fomenter une véritable révolution. Mais qui sont les responsables de ce carnage qui, bientôt, mettra la ville à feu et à sang ? Avec son deuxième polar admirablement maîtrisé, Olivier Norek nous plonge dans une série de drames – forcément humains – où seul l'humour des " flics " permet de reprendre son souffle. Un imbroglio de stratégies criminelles, loin d'être aussi fictives que l'on croit, dans un monde opaque où les assassins eux-mêmes sont manipulés.
Per tutti quelli interessati alle discussioni globali sulla governance, questo tuffo nel quotidiano delle perifierie parigine, viste dall'angolo di una amministrazione in bilico fra corruzione e sopravvivenza é quanto mai salutare.
Sará sicuramente nella Top
2016 L42: Franck Thilliez - Pandemia
Pocket 2016
"L'homme, tel que nous le connaissons, est le pire virus de la planète. Il se reproduit, détruit, étouffe ses propres réserves, sans aucun respect, sans stratégie de survie. Sans Nous, cette planète court à la catastrophe. Il faut des hommes purs, sélectionnés parmi les meilleurs, et il faut éliminer le reste. Les microbes sont la solution."
Après Angor, une nouvelle aventure pour Franck Sharko et Lucie Henebelle. Et l'enjeu est de taille : la préservation de l'espèce humain
Libro da divorare... molto ma molto apprezzato.. Thilliez prepara benissimo i suoi libri per cui troviamo sempre cose nuove da imparare...
Candidato alla Top 2016
martedì 4 ottobre 2016
Colombia: y ahora qué?
Bueno, creo sea inútil
repetir cuanto tristes estamos con estos resultados del plebiscito. El punto es
de ver si hay algo que se pueda hacer y/o los riesgos de no hacer nada. Así les
invito a jugar a:
SI YO FUERA…
Los datos han
revelado que un porcentaje muy alto de colombianos (62-63%) se han abstenido,
lo que, junto con el hecho de la (curta) victoria del NO son los puntos clave a
analizar. Mismo que hubiese vito el SI con esta misma situación, quedaría pendiente
la fragilidad de esta construcción.
Desde mi punto de
vista, las discusiones y un eventual acuerdo político interno a la clase política
tendrán que salir del Congreso colombiano. Esto lo pone al centro de la figura
de abajo. La razón principal siendo la fragilidad del presidente Santos en
estos días, así como de su gobierno de Unidad Nacional, la necesidad obvia de
encontrar un camino de diálogo con la oposición, manteniendo el rumbo de lo
negociado para no re-abrir completamente la caja de Pandora y volver al punto
cero (que podría ser el interés de Uribe en realidad). Al no lograr avanzar en
este diálogo, el riesgo es que todo quede en el limbo actual, con riesgos que
las acciones de guerra vuelven a empezar de nuevo (no olvidemos que estamos en
una situación de tiempo suspendido también con el ELN que declaró un alto para
el plebiscito, y ahora tendrá que decidir si volver la guerra o que hacer). La tentación
de ir empezando la corrida para las próximas elecciones presidenciales de 2018
existe, y esto es más un peligro interno a la coalición de Santos que de la
oposición que ya tiene su candidato. Por eso que este diálogo, si se deja solo
en la mano del Presidente, su gobierno y la oposición (con un posible, pero
limitado, papel de las FARC) podría no ir muy lejos. Para darle fuerza es
necesario que una serie de otros actores salgan de su estado catatónico y empiecen
a actuar de manera concertada.
Hablo primero de
la ONU (tanto el Secretariado General así como las agencias técnicas), (de
notar que Ban Ki-moon ya mandó su enviado especial a la Habana esta noche), de
la OEA (y en particular del socio de mayoría, EEUU) y de la UNASUR. A ellas en
su conjunto les toca, a mi juicio, de manifestarse en tiempos rápidos para
decirle alto y claro que no puede haber marcha atrás. Este lobbying debe ejercerse
tanto a nivel del dialogo político como dentro del Congreso.
La comunidad de
donantes, a partir del reino de Noruega, pero no solo, pienso a la Unión
Europea, España etc. debería confirmar su disponibilidad financiera para apoyar
ciertas iniciativas iniciales que tendrán que arrancar rápidamente. Otras
fuentes financieras, tipo el Banco mundial, el fondo GEF, el nuevo fondo de
cambio climático (GCF), deberán también enviar señales de disponibilidad. Mientras
las primeras son más rápidas, y pueden ser usadas para lo que propongo abajo,
las segundas tienen tiempos más largo para su formulación y negociación, sin
embargo son bastante más gruesas en cantidad.
Hay un actor
clave, tanto en lo referente al acompañamiento de las negociaciones como por su
capacidad de hacer una presión suave a distintos niveles, que, pienso yo,
debería manifestarse tanto a nivel oficial, público, que informal. Hablo obviamente
del Vaticano y de lo que puede decir tanto el Papa como, a nivel más local, las
parroquias y las varias comunidades religiosas. Aun cuando la situación sea muy
tensa, unas palabras de paz y de apoyo por parte del mundo católico a todo
nivel, podría convencer algún parlamentario a cambiar de idea y meterse en pro
del acuerdo (el actual o lo que el presidente Santos podría modificar ligeramente
con el consenso de las Farc – el famoso plan B del cual hablan ciertos diarios).
Un papel obvio le
queda también a la sociedad civil colombiana, por lo menos aquella que está en
favor de los acuerdos, sean ONG, grupos locales, academias y otros.
Un trabajo de
buen aliento de todos estos actores con mira a una discusión (con acuerdo)
parlamentar, debería poder permitir que un acuerdo con pocas modificaciones –
para salvar la cara – le permita tanto al gobierno como a una parte de la
oposición de salirse de una situación potencialmente muy peligrosa.
Estos sin embargo
necesitaría casi en paralelo de empezar una colaboración concreta por parte de
las agencias técnicas de las naciones unidas, con el gobierno (central y en las
departamentos), además de otros partners
locales, para ir empezando a trabajar algunos de los aspectos claves de los problemas
tocados por el acuerdo, aquellos que puedan empezar sin esperar una nueva
versión.
Pienso en
particular a los Programas de Desarrollo con Enfoque Territorial (PDET) (punto 1.2 del acuerdo.
Fuera de los
varios aspectos técnicos y políticos), lo que está detrás de todo es una falta
gigante de credibilidad y confianza mutua entre los varios actores. Modificar
una ley o una política es algo que se puede hacer en pocos meses de trabajo
técnico. Otra cosa empezar a trabajar, en ciertas zonas piloto, a identificar,
para recrear confianza a través de mecanismos de dialogo incluyente hacia la
preparación de planes de ordenamiento más inclusivos y donde el tema del acceso
a la tierra no sea el único problema, sino que se toquen también otras
condiciones de creación de empleo rural, educación, vivienda... O sea sentar
bases para ir demostrando concretamente que tipo de futuro se quiere construir.
Ya una vez habíamos visto que zonas así existen, solo hay que hablar con las personas
que conocen el campo y allí nosotros tenemos una ventaja interesante. Los
criterios de priorización (punto 1.2.2) son suficientemente vagos para poder
proponer una serie de lugares donde ya hemos tenido trabajo de campo y
contactos establecidos. Obviamente habría que arrancar en lugares donde el voto
por el SI haya sido mayoritario, para tener una posibilidad mayor que los
actores locales tengan gana de jugar a la reconstrucción social. Poco a poco se
podría abrir también en zonas del NO, sin embargo primero sería necesario haber
testado y puesto en marcha un mecanismo adaptado de dialogo, negociación y
concertación.
El punto 1.2.3. dice claramente que “en cada zona priorizada es
necesario elaborar de manera participativa un plan de acción para la
transformación regional, que incluya todos los niveles del ordenamiento territorial”.
Es una escritura yo diría casi obvia hoy en día: quien no quiere hacer algo
participativo e incluyente? Traducirlo en la práctica es algo distinto, pero lo
cierto es que este trabajo no depende solo de los acuerdos de paz, sino es una
necesidad “normal” de cualquier institución encargada del ordenamiento territorial.
Por eso que sugiero de arrancar de este tema, meno político pero seguramente
también más largo.
De hecho lo que
se trata es de trabajar para recrear confianza no solo entorno al contenido de
los acuerdos de paz, sino entorno al concepto mismo de las instituciones que
deben de gobernar el país. Por eso que no se trataría solo de trabajar el tema
territorial desde un punto de vista económico-ecológico, sino ver la necesidad
de ir reconstruyendo una cohesión social que permita a la gente de volver a
sentirse parte de una comunidad llamada Colombia. El tema de la educación es
por lo tanto fundamental, que se trate o no del acuerdo de paz, así como
restablecer un sistema sanitario público.
Tenemos algo para ofrecer? Yo creo que si, y
mucho. Los PDET deben aplicar un “enfoque territorial de las comunidades rurales que tenga en cuenta las
características socio-históricas, culturales, ambientales y productivas de los
territorios y sus habitantes, así como sus necesidades diferenciadas en razón
del género, edad, pertenencia étnica, orientación sexual e identidad de género
diversa, y condición de discapacidad, y la vocación de los suelos, para poder
desplegar los recursos de inversión pública de manera suficiente y en armonía
con los valores tangibles e intangibles de la nación.”
Más aún: “Un diagnóstico objetivo, elaborado con
la participación de las comunidades —hombres y mujeres—, en el que se
consideren bajo el enfoque territorial señalado las necesidades en el
territorio y las acciones que coordinen los diferentes elementos, y tenga metas
claras y precisas que posibiliten la transformación estructural de las
condiciones de vida y de producción. »
Los que conocen nuestros trabajos territoriales,
en zonas de conflicto y/o post-conflicto usando el Desarrollo Territorial
Participativo y Negociado (DTPN), el Improving Gender Equality in Territorial
Issues (IGETI) y, más recientemente, el Green Negotiated Territorial
Development (GreeNTD) ya tienen la respuesta.
Abordajes incluyentes, que ponen el tema de recrear
confianza, cohesión social al centro de la cuestión territorial y que pretenden
ser verdaderamente de abajo hacia arriba, tal cual termina el párrafo 1.2.3. “El
Plan Nacional de Desarrollo acogerá las prioridades y metas de los PDET.”
Es así como ya lo
planteaba quince años atrás: trabajar local para que a nivel nacional se sienta
el aliento de una nueva Colombia que va reconstruyendo su tejido social. No se
trata de olvidar nada, la memoria es fundamental, sin embargo hay también que
encauzar la memoria dentro de una esperanza de futuro mejor. Y esto no es tarea
solo de los colombian@s, yo creo que nos toca a todos, y en particular a los
que estamos trabajando dentro de una organización de naciones unidas. Ahora más
que nunca debemos acelerar.
El gráfico abajo sintetiza la propuesta.
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