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domenica 22 gennaio 2023

Lotta al patriarcato nei campi: rovesciare le priorità.


 Molti dei movimenti (e/o sindacati) contadini (nazionali e internazionali) li ho frequentati per ragioni di lavoro da una quarantina d’anni. Il mio punto d’entrata era la questione della terra, bene primario per produrre beni e riprodurre la società. 

La prima esperienza fu in Nicaragua, nel 1983, dove toccai con mano per la prima volta il tema caldo della riforma agraria. Ma fu anche lì che conobbi una persona che, oggi, definirei, una femminista, la cui lotta attraverso il gruppo di Medicina Democratica di Milano era centrata sulle condizioni delle donne nel mondo del lavoro.

 

I primi semi della necessità di guardare il mondo nel quale volevo lavorare (quello agrario), con occhi non rivolti solo ai soggetti maschili, erano stati posti. Se ne aggiunsero altri nel periodo che passai lavorando alla Coldiretti della mia città, dove conobbi le iniziative portate avanti da quello che all’epoca si chiamava il “Quadrifoglio”, dirette alle mogli dei contadini. Oggi mi viene da sorridere pensando al paternalismo di quelle iniziative, ma all’epoca erano cose concrete, le prime, che vedevo dirette a un pubblico (donne contadine), che non appariva mai negli studi di agraria che stavo realizzando all’Università di Padova.

 

Dopo la laurea, andai a specializzarmi a Parigi, dove incontrai dei maestri molto importanti per vedere il mondo agrario da una prospettiva storica e comparata. Il titolare della cattedra è diventato poi un amico, con cui discutere di come andava il mondo e di quello che facevo una volta che iniziai a lavorare nella FAO.

 

Ma in quegli studi francesi mancava, come nella precedente università italiana, qualsiasi riferimento all’altra metà del mondo agricolo. Sembrava proprio non interessasse a nessuno dei 4-5 professori titolari con cui lavoravamo. 

 

Fortuna volle che nei tre anni che passai al Centro di Sviluppo dell’OCSE, conoscessi una sociologa italo-americana che già da tempo lavorava su quello che allora si chiamava “Women in Development”. Grazie a lei i pezzi del puzzle cominciavano ad unirsi ed avere un senso, anche se mancava ancora molto per trovare una logica, una visione d’assieme e dei / delle colleghi /e con cui parlarne.

 

Alla FAO cercai in ripetute occasioni di trovare qualcuno con cui fare sponda, ma con risultati limitati. Dopo parecchi anni uscimmo con un documento iniziale nel 2012 (Improving Gender Equity in Territorial Issues – IGETI), che voleva aprire una strada per trattare questo tema nel mondo di agronomi ed economisti (maschi nella maggioranza) con cui lavoravo in FAO.

 

Ci vollero ancora altri anni per rendermi conto di come, anche noi, continuassimo a discutere della sfera produttiva, dimenticandoci completamente della sfera privata (del “care” o riproduttiva, come vogliamo chiamarla). Volevamo aiutare le famiglie contadine più povere, senza terra, o le comunità rurali africane e anche quelle indigene, ma non guardavamo mai le logiche di potere e di sopraffazione interne.

 

Credo che il momento del cambio sia arrivato pochi anni fa, grazie alle discussioni iniziate con mia figlia Charlotte, che aveva (ed ha) posto la questione di genere al centro dei suoi interessi personali e professionali. Letture mirate, discussioni con poche persone che avevano approfondito il tema, e così iniziai anche a ripensare agli anni precedenti della mia vita professionale, a come anche nei movimenti contadini la priorità fosse sempre e solo quella produttiva. 

 

La famosa “contraddizione secondaria del capitalismo”, cioè la disuguaglianza di genere in seno alle famiglie dei membri dei movimenti, la ritrovai nei silenzi di tanti dirigenti che non volevano aprire questa discussione. Scoprire che donne organizzate dal basso erano riuscite ad imporre una svolta un po’ femminista a una grande organizzazione come la Contag (Confederazione dei lavoratori agricoli del Brasile) fu e resta un momento molto bello. Provai anche a stimolare uno dei loro capi storici, un brasiliano di origini vicentine come le mie, con cui ci siamo scambiati per anni video e proverbi in dialetto veneto (o veneto-brasiliano), ma la risposta fu solo il silenzio.

 

Provai allora anche con altri “amici”, di una associazione di cui facevo parte in Francia, composta in teoria da progressisti, uomini e donne, impegnati a fondo sulle questioni agrarie. Ma anche lì non ci fu nulla da fare. La cupola, come sempre composta da maschi, non era interessata ad iniziare una discussione sulle asimmetrie di potere a partire dalla sfera privata.

 

Con la FAO avevo perso ogni speranza, sia per la poca spinta da parte dell’unità tecnica responsabile delle politiche di genere nello “sviluppo”, sia per le reticenze strutturali dei colleghi (maschi e femmine) delle varie unità tecniche con cui ho lavorato per 30 anni.

 

Da tutto questo venne l’idea di cominciare a scrivere delle riflessioni personali, e a proporre ad altre amiche (Elisabetta, Emma e Charlotte) di condividere questo sforzo che, da domani, sarà in libreria (Editore Ombre Corte, Verona).

 

Ogni giorno che passa diventa sempre più chiaro che avevano ragione loro: Mariarosa Dalla Costa, Selma James, Laura Cima, ad insistere fin dai primi anni 70, sulla centralità della sfera privata. Come scrisse Silvia Federici, parlando dei lavori di Mariarosa Dalla Costa (a cui abbiamo dedicato il libro): il lavoro domestico è il pilastro centrale dell’accumulazione capitalista. E’ da lì che bisogna ripartire per provare non solo a pensare il post-sviluppo, ma anche per cercare alleanze con persone e gruppi con cui lavorarci assieme.

 

Sperando che questo messaggio sia raccolto, mando un abbraccio di lotta a tutte e tutti quelli che lo leggeranno.

 



 

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