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martedì 6 luglio 2010

Parole, parole, parole

Lavoro in una organizzazione che si occupa di terzo mondo. Ci si aspetterebbe quindi che li dentro parole come partecipazione, solidarietà, “commitment” avessero un senso compiuto. Sappiamo tutti che bisogna saper distinguere i sogni dalla realtà e sappiamo anche che le ingiustizie del mondo attuale sono state costruite durante secoli di prevaricazioni. Quindi siamo preparati a lotte di lunga durata, e siamo anche preparati a trovare una dose di persone che stanno lì dentro per difendere gli interessi di chi il potere ce l’ha già e non vuol perderne nemmeno un’oncia a favore dei più poveri e deboli. Sappiamo anche che troveremo dei raccomandati il cui unico scopo era riuscire ad arrivare lì dentro per aspettare la fine del mese e lo stipendio.
Quindi non è nemmeno questo che brucia. Dopo tanti anni però stupisce vedere che i criteri per la scelta di chi va su, ed arriva a comandare, siano sempre gli stessi, e raramente si trovino fra di loro dei combattenti per quei valori che stanno scolpiti in pietra sulle pagine della nostra organizzazione.
Forse però non dovrei stupirmi; la retorica del discorso facile, dell’impegno a un tanto al chilo, sono parte costituente di queste strutture e se vuoi provare ad entrare in sala comandi devi abbassare il capo ed accettare questo modo di essere. Quanti ne ho conosciuti che quando erano ancora giovani e pieni di idee (e con la carriera da fare) avevano tante belle idee, progressiste, criticavano il management e i governi troppo conservatori. Li ritrovi dieci o quindici anni dopo e, se hanno fatto carriera, allora si sono dimenticati di quei valori di un tempo e, se invece non l’ hanno fatta, sono tristi e acidi.
Ti insegnano ad abbassare la testa, fare le tue cose per conto tuo, mai cercare la collaborazione e men che meno le idee nuove. Tutto questo scompiglia e l’ultima cosa che vogliono è proprio quella. Il principio è sempre quello: chi non fa non falla. Per cui un senior officer che sta li a dormire o quasi, non produce nulla da quando è entrato, fa meno danni (secondo loro) di uno giovane che prova a spostare i muri, a creare ponti dentro e fuori l’organizzazione stimolando discussioni su approcci e provocando la critica vera, l’unica che fa andare avanti.
Proprio non capiscono che è questo loro modo di essere che sta minando, giorno dopo giorno, la credibilità stessa di queste organizzazioni. Il fossato che li separa dalla vita reale si sta allargando ogni giorno di più ma questo non sembra preoccuparli più di tanto.
Poi onestamente fa anche pena vedere la massa critica che sta zitta, non alza mai la voce per paura delle ritorsioni. Non è che manchino le idee e le proposte sul come fare e sul con chi farlo. Solo che se le idee vengono dal basso non vanno molto lontano, anzi rischiano di essere controproducenti.
E allora, si riempiono libri, documenti, dichiarazioni, di parole, parole e parole: diritti di qua e diritti di la; la partecipazione; la sostenibilità; l’importanza dell’equilibrio di genere e avanti così. Poi passi nei bagni, maschili e femminili, e capisci che il problema del rispetto non riguarda solo il livello che va verso i capi, ma anche il livello che va verso giù, verso il personale di pulizia. Lasciate pure sporco tanto ci sarà sempre, lo sapete, una donna delle pulizie che dovrà pulire la vostra mancanza di rispetto.
Ma sul serio possiamo pensare che sia in questo modo che affronteremo le grandi sfide di questo secolo? Povertà, desertificazione, cambio climatico e fame nel mondo? Se fin dal nocciolo interno, da dove dovrebbe partire l’esempio, non si riesce ad accendere la luce, ma anzi si continua a bastonare chi prova a smuovere qualcosa, stando dentro le regole, allora bisogna proprio chiedersi dove andremo.

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