Gli anni 60 si sono caratterizzati, in Africa, per
l’apparizione di una miriade di nuovi Stati indipendenti. La geografia
emergente era alquanto precaria, frutto com’era di decisioni prese dalle
potenze coloniali oltre un secolo prima. Ma in quel momento non importava,
troppo forte l’euforia per la trovata libertà. Una prima generazione di leader
nazionali provò a dare un senso progressista e universalista a questa novità
storica, mentre in altri casi i nuovi capi erano stati scelti dalle stesse
potenze coloniali per cui l’indipendenza nasceva con il guinzaglio corto.
Globalmente parlando, si era ancora nell’era in cui il ruolo centrale dello
Stato nel dirigere l’economia e la società era considerato come un’ovvietà.
Bastarono pochi anni perché la situazione cambiasse
completamente. L’emergenza delle grandi organizzazioni finanziarie
internazionali, Banca e Fondo, dalla fine degli anni 70 in poi, come gendarmi
della nuova ortodossia neoliberale si manifestò in maniera violenta a metà
degli anni 80 in Africa. Le nuove istituzioni avevano poco più di ventanni, un
nulla rispetto ai tempi biblici che c’avevano messo le istituzioni democratiche
ad emergere nei nostri paesi del nord. Naturalmente affette dai problemi che
erano all’origine di quei paesi: poca istruzione concessa ai nativi, per cui
trovavi funzionari incapaci, sottoposti ad una casta politica che aveva
rapidamente rimpiazzato con le buone o le cattive quei leader troppo
indipendenti di spirito (Ben Bella in Algeria, Sankara nel Burkina) per
sostituirli con obbedienti servitori del dio mercato, a cambio di cui gli si lasciava
una libertà di fare man bassa delle casse nazionali.
Gli anni 80 sono quelli dell’imposizione degli aggiustamenti
strutturali alla gran maggioranza dei paesi africani. Il popolo dovette
eseguire e seguire, dato che i loro governi avevano accettato (potevano fare
diversamente?) queste imposizioni. Ne uscì fuori un’Africa più impresentabile
di prima agli occhi di un Occidente che restava il king maker delle regole di
bonton della società sviluppata. Nacque così l’urgenza di “democratizzare”
l’Africa, con l’imposizione ai governi pro occidentali e corrotti di sottoporsi
a un esercizio purificatore, ma da loro controllato, chiamato “elezioni
democratiche”. Passò anche questo senza che cambiasse alcunchè, e si andò
avanti con la depredazione lenta e silenziosa delle risorse naturali locali e
con le promesse per un futuro migliore che venivano elargite a piene mani sia
dai governi nazionali che dai controllori del nord.
Le cose peggioravano con calma, ad un ritmo che anche le
popolazioni del nord del mondo riuscivano a digerire. Quando arrivavano delle
crisi “umanitarie” maggiori, bastava lasciar fare ai cantanti che si dannavano
a organizzare concerti e raccolte fondi, e dopo un po’ la febbre passava e si
tornava al business as usual.
In questi ultimi anni, prima con la crisi finanziaria e poi
con l’accelerazione del movimento del grabbing da parte di operatori stranieri,
è diventato sempre più palese quello che si sapeva fin dall’inizio e cioè che
gli Stati africani attuali rappresentano sempre meno delle realtà storiche
quanto invece delle costruzioni imposte.
Finchè si viveva nella finzione di
voler credere che fossero gli stati nazionali a decidere delle loro politiche,
tuttti stavano calmi. Mano a mano che l’incapacità di questi stessi Stati è
diventata palese, e che le popolazioni hanno cominciato a percepire non solo la
fragilità ma soprattutto l’artificialità di queste istituzioni, i conflitti si
sono accelerati. La crisi finanziaria ha avuto un ruolo minore in questo
scenario, perché ha toccato tutti, nord e sud. Diverso il caso degli
accaparramenti di terre e risorse naturali che sta accelerando in questi ultimi
mesi. Lì è evidente che nessun governo riesce a controllare alcunchè e che in
molti casi sono loro stessi, al massimo livello, ad essere parte in causa in
questi grabbing. A quel punto, il resto della (scarsa) fiducia riposta nelle
istituzioni “democratiche” se ne sta andando. Riprende forma la regola
consuetudinaria, la tribù e i clan. Aggiungiamoci poi i problemi creati dalle
religioni che, da sempre, considerano l’Africa terra di missione, cioè di
conquista. Ognuno per sé diventa quindi la regola di base. Il costo delle armi
si riduce, così che i vecchi conflitti tribali diventano immediatamente dei
conflitti armati e molto sanguinari.
La cartina che ho messo recentemente sul blog (la mia
africa), ricorda solo una parte dei conflitti in corso attualmente. Stati in dissoluzione,
come la Libia, altri che si vuol ricostruire con ben poche speranze, come la
Somalia, altri in fase di implosione come la Nigeria, il Camerun e la
repubblica Centrafricana, sono alcuni dei segnali del futuro che si prepara: la
conflittualità è destinata ad aumentare, parallelamente con la perdita di
fiducia dei cittadini in quelle istituzioni mai completamente nate e ridotte ai
minimi termini dalla Banca e dal Fondo, troppo interessate agli equilibri
macroeconomici per rendersi conto delle conseguenze delle loro azioni. Aver
ridotto a poco le istituzioni statali in paesi di scarsa presa geografica è
stato il segnale di partenza della corsa verso la dissoluzione degli equilibri
firmati a Vienna nel 1815. Ancora oggi non si capisce la necessità di
(ri)costruire lo Stato e le istituzioni per cercare di gestire situazioni
altrimenti intenibili. Ci si preoccupa della finanza e della macroeconomia.
Domani se non si cambia subito, sarà troppo tardi. E guardando alle ricette imposte
dalla Troika ai nostri paesi europei, che ricalcano il modello degli anni 80 in
Africa, non c’è di che star allegri. Buon anno.
Nessun commento:
Posta un commento