di Carlo Alberto Graziani (Università di Siena)
1. Dal suolo alla terra
Di fronte alla “rapina di suolo”, che rappresenta una caratteristica dell’attuale sviluppo e uno
dei problemi drammatici che affliggono l’umanità (si pensi ad esempio al land grabbing, fenomeno
che sta esplodendo in questo inizio del millennio), occorre tornare a riflettere sui concetti
fondamentali, in particolare sul concetto di proprietà, cercando di individuare e possibilmente di
chiarire nozioni, approcci, percorsi nuovi, nella consapevolezza che è oramai venuto il tempo di
abbandonare la sicurezza dei pensieri consolidati e di affrontare il mare aperto, anche correndo il
rischio del naufragio.
Ritengo necessario porre al centro di questa riflessione non più il suolo, ma la terra: la
terra considerata nella sua naturalità, nella sua fisicità feconda, fonte di vita e vita essa stessa; la
terra coperta da vegetazione, destinata alla coltivazione e al pascolo di animali domestici e
selvatici; ma anche la terra ritenuta sterile - sabbie e deserti, rocce e spiagge, grotte e cave
dismesse - che contiene, essa pure, forme di vita; la terra dell’aperta campagna, ma anche la
terra degli orti e dei giardini prigionieri degli spazi metropolitani, cioè la terra del vuoto urbano;
la terra che a volte appare nella sua affascinante bellezza, a volte nella sua desolata aridità.
Non è mera questione terminologica, è cambiamento di orizzonte.
Il suolo è neutro, inerte, può essere calpestato; la terra, anche la più arida, è viva, feconda,
non si calpesta, vi si affonda. La terra si lavora; il suolo non si lavora, ma su di esso e sotto di esso
si cementifica. La terra violata, perché cementificata, infrastutturata, inquinata, muore, cessa di
essere terra e diventa suolo; il suolo resta sempre e comunque suolo. Il suolo rende uniforme città e
campagna, edificato e inedificato, vuoto e pieno della città. La terra caratterizza: nella città
distingue il vuoto dal pieno, rappresenta l’interstizio del tessuto edificato, costituisce il verde; nella
campagna distingue le attività pulite da quelle che inquinano e sterilizzano, individua e denuncia
quegli artifici umani che rinnegano la naturalità, che uccidono la fecondità. Il suolo non dà conto
della finitezza delle risorse perché tutto è suolo. La terra invece è il segno di quella finitezza. Il
suolo non si consuma, non si sfrutta, non si rapina; è la terra che si consuma perché si sfrutta, è la
terra che si rapina.
Perché il suolo è ontologicamente oppresso ed è nello stesso tempo oppressore; la terra è
libertà: una libertà che può essere oppressa, violata.
Occorre, per salvare la terra, conservare questa libertà che è la pienezza della fecondità nella
campagna, che è la vitalità del vuoto nella città.
2. Il problema della proprietà della terra
E’ possibile impossessarsi, appropriarsi, essere proprietari della terra?
La storia del genere umano ci viene tramandata nel segno del dominio dell’uomo sulla terra.
La stessa narrazione biblica viene interpretata alla luce di un dominio che è sfruttamento: parola,
quest’ultima “d’incredibile rozzezza” (G. Capograssi, Agricoltura, diritto, proprietà, in Riv. dir. agr., 1952, I, p. 246) che impolvera anche la nostra Costituzione (art. 44).
Non importa se i moderni studi antropologici dimostrano che l’originario rapporto del
genere umano con la terra si sia svolto nel rispetto timoroso delle prerogative di quest’ultima; se
le più approfondite letture interpretano il famoso passo della Genesi - “riempite la terra,
soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che
striscia sulla terra” (Genesi, I, 28) - in termini di buon governo e di contemplazione; se alcune moderne costituzioni dell’America Latina, riallacciandosi all’origine, assumono come centrali i diritti
della Terra madre. La forza degli interessi in gioco, registrati dalla prassi giuridica, è tale che la
logica dello sfruttamento accompagna ancora oggi, e oggi in modo particolarmente virulento, le
vicende che si svolgono attorno alla terra.
Non tutte le vicende. Una parte di esse si sottrae a tale logica, ma è ignorata dalla cultura
urbano-centrica che è cultura dominante soprattutto nel mondo sviluppato. Il riferimento è alle
proprietà collettive che caratterizzano l’assetto sociale di alcune popolazioni e che anche in
Italia si rinvengono in una parte consistente delle aree interne (i cosiddetti usi civici). Per usare
l’espressione di Carlo Cattaneo, divenuta titolo dello splendido libro di Paolo Grossi, esse
rappresentano “un altro modo di possedere” ( P. Grossi, Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative
di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, Giuffrè,
1977): fenomeno marginale sul piano economico, ma rilevantissimo sul piano dei valori sociali, culturali e oggi in particolare di quelli ambientali.
Le vicende più appariscenti, quelle che determinano l’assetto dei rapporti di potere, sono
però dominate dalla logica dello sfruttamento, che è logica di potenza e di rendita e ha alla base
quei concetti di pienezza e di esclusività che continuano a caratterizzare il diritto di proprietà
nonostante la forte previsione costituzionale della funzione sociale.
Ma può il rapporto tra la terra e la persona, anche dal punto di vista giuridico e perciò dei
diritti e in particolare del diritto di proprietà, consumarsi all’interno della logica dello
sfruttamento?
In altri termini che significa essere proprietari della terra? Può la terra essere oggetto di
impossessamento, di appropriazione e in che limiti? Se la terrà è vita è possibile impossessarsi
della vita?
Quest’ultimo’interrogativo apre aspetti assai delicati perché la vita ha sempre interpellato
il giurista in termini problematici. Così la vita umana che in passato è stata oggetto di conquista
e di compravendita (il corpo degli schiavi) e di un lungo e complesso percorso emancipatorio e
nel presente costituisce uno dei problemi scientifici ed etici più tormentati, quello della
disponibilità della propria vita. Così la vita degli altri esseri viventi che, ponendo il problema
della configurabilità dei diritti degli animali, chiama in causa contrastanti visioni del mondo e
della persona umana e rappresenta comunque una sfida che il giurista non è ancora in grado di
affrontare.
La terra è vita perché vita sono il suo humus e la sua fecondità; perché vita è la natura,
vita è l’ambiente. Ed è proprio qui la ragione della problematicità allorché si voglia guardare
alla terra come oggetto di situazioni giuridiche: le espressioni possedere la terra, essere
proprietari della terra diventano evanescenti perché non è possibile impossessarsi di quell’intima
sua essenza che è la vita.
Se nel passato il problema poteva essere accantonato o addirittura sfuggire, nascosto da
una disponibilità di risorse apparentemente illimitata, oggi che l’umanità ha oltrepassato la
soglia del sovraccarico ecologico globale la ragione di fondo di quella impossibilità emerge
drammaticamente: incidere sulla vita della terra, anche solo per quanto concerne la “propria”
terra, significa contribuire a mettere a rischio il pianeta e perciò a ledere un interesse che
corrisponde a esigenze avvertite sempre più profondamente nel tessuto sociale e che trova la sua
tutela nelle carte costituzionali più importanti della nostra epoca. Il diritto all’ambiente, che nel
nostro ordinamento trae il suo fondamento in particolare dagli artt. 2, 9, 32 della Costituzione,
non può non avere alla base il diritto di tutti a godere di una terra che sia viva e feconda.
Ma la terra non è solo vita per se stessa, lo è anche per le persone con cui esse entra in
relazione: perché è “sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi
fructi con coloriti fiori et herba” (Francesco d’Assisi, Il Cantico delle Creature); perché le aggressioni nei suoi confronti – dall’inquinamento alla cementificazione - incidono sulla salute e sulla qualità dell’esistenza di singoli e di collettività; perché le rapine – dalle espulsioni che nella storia si sono dolorosamente ripetute fino al land grabbing – segnano la fine delle comunità che vi sono insediate.
La terra è vita, ma è anche paesaggio e bellezza. Con questi termini non alludo a elementi
puramente formali, estetici, ma a concetti più pregnanti.
Paesaggio – di cui la terra è elemento fondante - è “una determinata parte di territorio,
così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o
umani e delle loro interrelazioni” (art. 1, Convenzione europea del paesaggio); è “il territorio
espressivo di identità” (art. 131, co. 1, Codice dei beni culturali e del paesaggio); è “componente
essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune
patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità” (art. 5, Convenzione).
La terra è bellezza: la carica di soggettività di questo sostantivo si interseca con la
constatazione di un’esperienza generale profondamente avvertita in ogni epoca e legata a
quell’intima unione tra la persona e la terra che rende la bellezza valore universalmente
riconosciuto e perciò diritto fondamentale.
In questa luce appare evidente come non sia possibile impossessarsi della vita della terra
e delle persone, del paesaggio e della bellezza perché sono beni supremi ed elementi che
riguardano esperienze intime e collettive nello stesso tempo, riconducibili a diritti e a principi
iscritti nelle carte fondamentali e, nella nostra Costituzione, in particolare nell’art. 2.
3. Dal contenuto minimo al contenuto massimo della proprietà
Si capovolge così l’impostazione di uno dei problemi fondamentali che riguardano la
proprietà, il problema del contenuto. Non si tratta più di definire il contenuto minimo, ossia di
verificare fino a che punto il legislatore possa fissare limiti al diritto di proprietà, potenzialmente
illimitato, senza “incidere eccessivamente” sulla sostanza di esso, come ha ritenuto la Corte
costituzionale (Corte cost. 22 dicembre 1977, n. 153); si tratta invece di definirne il contenuto massimo, ossia di verificare i confini oltre i quali non può più configurarsi un diritto di proprietà.
Sia chiaro: qui non entra in questione la riserva di legge, non si può fare riferimento al
concetto di conformazione e perciò al criterio fissato dal legislatore ex art. 42 Cost. per
individuare il contenuto del diritto (la legge “determina i modi di acquisto, di godimento e i
limiti” della proprietà privata). Occorre considerare che il diritto di proprietà non è un diritto
potenzialmente illimitato, che determinati poteri ne sono ontologicamente estranei, sono cioè per
loro natura oltre la proprietà. In altri termini il diritto di proprietà non ricomprende nel suo
contenuto il potere di incidere sulla vita della terra e delle persone, sul paesaggio, sulla bellezza
della terra.
Così il proprietario non può escludere la naturale fecondità della terra attraverso
l’edificazione, l’uso sterilizzante dei fertilizzanti chimici, lo smaltimento di rifiuti, la
costruzione di discariche o di bacini idroelettrici; non può modificarne la morfologia riempiendo
fossi, spianando colline, impiantando campi eolici o fotovoltaici; non può disboscare; non può
attentare alla salute e alla vita delle persone inquinando la terra. Tutte queste facoltà sono a lui
precluse non per dettato di norme conformanti, ma perché sono estranee al contenuto del suo
diritto. Le norme, quando ci sono, rappresentano non il limite entro il quale il proprietario può
fare tutto ciò che vuole, ma la soglia oltre la quale egli comunque non può andare. Perché
quell’oltre è altro rispetto alla proprietà.
Il capovolgimento ha una portata di straordinaria rilevanza sia sul piano teorico che su
quello operativo e pone in crisi orientamenti culturali consolidati.
In particolare se il proprietario non ha il potere di incidere sulla integrità della terra in
maniera tale da eliminarne la fecondità non rientra nel contenuto del suo diritto lo ius
aedificandi in quanto l’edificazione – nell’aperta campagna o nell’agro dove si espandono gli
insediamenti urbani e industriali o anche nel vuoto delle città - sopprime ogni forma di vita. Di
conseguenza non avrebbe più ragion d’essere il problema dell’indennizzo nel caso in cui una
legge negasse al proprietario il diritto di edificare perché non si potrebbe configurare quella
“eccessiva” compressione del suo diritto a cui si è riferita la Corte costituzionale; si supererebbe
così l’ostacolo che ha impedito in Italia l’emanazione di una vera ed efficace legge sui suoli.
Parimenti il proprietario, anche se il suo agire non violasse norme specifiche, non
potrebbe liberamente utilizzare prodotti chimici per coltivare l’ager qualora tale uso portasse,
sia pure solo progressivamente, alla sterilizzazione dell’humus e neppure potrebbe, al di là della
coltivazione, immettere inquinanti tali da incidere sulla salute e sulla vita degli esseri viventi. Di
conseguenza in agricoltura l’unica attività diverrebbe quella che oggi chiamiamo agricoltura
biologica, negli altri settori le attività possibili, per le quali manca ancora un aggettivo in
positivo, sarebbero solo quelle non inquinanti.
Vedremo tra breve che questo mutamento d’orizzonte non comporta l’arresto del
dinamismo che è proprio dell’agire umano.
4. La terra bene comune
La terra esprime dunque utilità fondamentali che corrispondono a valori
costituzionalmente tutelati e che pertanto devono essere salvaguardate per permetterne la
fruizione da parte dell’intera collettività e soprattutto delle future generazioni.
Sono fondamentali le utilità che si riferiscono alla naturale fertilità della terra e perciò
alla genuinità dei prodotti agricoli e che quindi si connettono al diritto alla salute (art. 32 Cost.);
le utilità legate alla morfologia della terra che richiamano sia il diritto al paesaggio (art. 9) sia,
grazie al mantenimento del manto vegetale, il diritto all’ambiente salubre (art. 32); le utilità che
discendono dalla idoneità della terra a essere lavorata e che consentono l’attuazione del diritto al
lavoro (artt. 35 e 44); la terra è inoltre elemento fondante della cultura e delle tradizioni delle
popolazioni insediate e pertanto richiama la tutela sia delle formazioni sociali sia della cultura
(artt. 2 e 9).
E’ su questa base che si fonda la natura di bene comune della terra (I beni comuni “esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti
fondamentali nonché al libero sviluppo della persona e sono informati al
principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità”: così
definisce i beni comuni – distinguendoli sia dai beni pubblici che da
quelli privati –la Commissione Rodotà istituita dal Ministro della
Giustizia del Governo Prodi nel giugno 2007 con il compito di redigere
uno schema di disegno di legge delega per la riforma del codice civile
sui beni pubblici. La relazione e lo schema del disegno di legge sono
pubblicati in Pol. dir. 2008).
Si aggiunga che, quando nelle elencazioni dei beni comuni si fa riferimento, ad esempio,
ai boschi e alle acque, alle alte montagne e ai parchi, al paesaggio e al territorio, al cibo e alle
produzioni tipiche, la terra è sempre presente nella sua coinvolgente fisicità: contiene l’acqua,
fonda il paesaggio, è elemento costitutivo del territorio, garantisce tipicità e genuinità
alimentare. In ultima analisi la terra è un bene comune che nella sua materialità rappresenta la
base fondamentale di altri beni comuni.
Pertanto a maggior ragione la terra è bene comune.
A questo punto però si delinea una situazione che appare schizofrenica.
La terra è bene comune perché è legata alla soddisfazione di esigenze riconducibili a
diritti fondamentali, ma nello stesso tempo - quando viene confinata, picchettata, quando diventa
una “piccola figura catastale” (G. Capograssi, op. cit., p. 249) – è oggetto di diritti escludenti e in particolare di proprietà.
Come può accadere che una stessa cosa, uno stesso bene materiale, la medesima terra sia
bene comune e nello stesso tempo oggetto di proprietà escludente? Questo è il punto
fondamentale per comprendere il significato e la portata non solo del bene comune terra, ma
anche degli altri beni comuni, almeno di quelli materiali: così l’acqua, che è bene pubblico (cioè
di proprietà dell’ente pubblico) e nello stesso tempo è bene comune; il bosco, che può essere
privato o pubblico e in entrambi i casi è anche bene comune; la fauna selvatica omeoterma, che
è patrimonio indisponibile dello Stato e nello stesso tempo è bene comune; e anche i pesci, che
invece sono res nullius, ma nello stesso tempo sono bene comune; il singolo bene culturale, che
può appartenere a un privato o a un ente pubblico e che nello stesso tempo è bene comune; così
pure la città le cui parti - porzioni di verde, ma anche singoli beni culturali – possono essere
oggetto di proprietà escludente e insieme beni comuni.
La risposta all’interrogativo è semplice e nello stesso tempo complessa.
La natura di bene comune non entra in contraddizione con l’esistenza della proprietà
perché bene comune e bene oggetto di proprietà escludente operano su piani diversi: la terra
oggetto di proprietà o di altri diritti escludenti rileva fondamentalmente sul piano del mercato;
anche quelle terre che per loro natura non sarebbero commerciabili possono mutare natura con
apposito intervento legislativo, come dimostrano l’annosa vicenda della liquidazione delle
proprietà collettive o i recenti tentativi che mirano a mettere in commercio perfino i beni del
demanio naturale; la terra bene comune rileva su un piano diverso dal mercato, quel piano ideale
dove essa è sintesi di valori che rinviano a diritti fondamentali.
La terra oggetto di diritti può essere trasferita agli eredi del proprietario; la terra bene
comune deve essere conservata e custodita perché gli eredi di tutti - le future generazioni - ne
possano godere.
La terra oggetto di diritti esclude; la terra bene comune include, è aperta alla fruizione di
tutti e proprio per questo pone la centralità della questione dell’accesso: tutti hanno diritto di
accedere alle utilità fondamentali, cioè a quelle che si riconducono a valori costituzionali,
chiunque sia il proprietario.
Come si è visto, esiste un oltre la proprietà della terra, un oltre il possesso, un oltre le
altre situazioni giuridiche escludenti che concernono la terra: un oltre che, come abbiamo detto,
è altro rispetto alla proprietà, al possesso e in genere alle situazioni giuridiche escludenti.
Questo altro è appunto il bene comune; al titolare non è dato il potere di impedirne la fruizione
da parte dell’intera collettività, non è dato cioè il potere di violare il diritto di accesso di tutti
perché quel bene ha la funzione di soddisfare esigenze costituzionalmente tutelate. Dunque è
questo profilo funzionale a determinare l’area che non può essere ricondotta nel contenuto della
proprietà.
In sintesi: il diritto di proprietà finisce dove inizia il bene comune. In questo confine
risiede la complessità della risposta.
5. Il ruolo della partecipazione
Perché il diritto di accesso alla terra bene comune non resti mera formula occorre che la
terra venga conservata nella sua integrità e che l’interesse della collettività alla conservazione
abbia rilevanza giuridica, venga cioè tutelato. Terra bene comune significa pertanto riconoscere
alla collettività anche il diritto alla conservazione della sua integrità.
Conservare l’integrità della terra non significa vagheggiare il ritorno a un passato che si
ritiene fondato sull’armonia o pretendere di fissare il presente come in un’istantanea per
impedire ogni trasformazione perché non si può arrestare ciò che è inarrestabile: la vita della
terra e la vita dell’umanità; e non significa neppure illudersi di poter contrastare la corrente della
storia che si svolge sotto la spinta del dinamismo del rapporto tra la terra e la persona, in
particolare del rapporto città-campagna, e del dinamismo delle attività produttive. Conservare
non significa immobilizzare il paesaggio proprio perché è il segno visibile di quel rapporto nel
suo svolgersi storico. Conservare l’integrità della terra significa invece, in negativo, che tale
svolgimento non può essere condizionato dalle logiche proprietarie proprio perché sono logiche
di esclusione e quindi di violenza e, in positivo, che ogni trasformazione deve essere tale da
garantire il rispetto dei diritti fondamentali proprio perché la terra è bene comune.
Il problema allora si sposta sul piano delle garanzie e si apre perciò al grande tema della
partecipazione. Solo attraverso una partecipazione effettiva - perciò informata e preliminare -
della collettività alle scelte che riguardano l’assetto della terra, solo attraverso un
coinvolgimento responsabile di tutti coloro che hanno a cuore le sorti della terra in una specifico
contesto territoriale urbano o extraurbano (proprietari o non proprietari, residenti o non
residenti, soggetti singoli o associati) saranno possibili, nell’ambito di un quadro legislativo ben
definito e attraverso procedure concessorie adeguate, le necessarie trasformazioni che non
violino la natura della terra quale bene comune.
mercoledì 18 dicembre 2013
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