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giovedì 23 febbraio 2017

Where have our dreams gone?


Una dedica particolare a 5 amici di vecchia o vecchissima data: Massimo Schiavotto e Mauro Vinchesi, dai tempi del Canova, Roberto de Marchi dall’epoca universitaria, Giuseppe “Patty” Chiò, dall’epoca dell’Angola e Walter de Oliveira con cui condivido una quindicina d’anni, credo, di comune lavoro, dopo aver scoperto di aver frequentato la stessa università e gli stessi professori molti anni prima. Un pensiero anche a Elisabetta che proprio stamattina mi chiedeva a cosa mi servisse questo Blog. Ecco, adesso hai la risposta, a mettere sfoghi e riflessioni da condividere.
In comune, una passione per la politica, non necessariamente partitica, e un impegno verso gli altri presente fino ad oggi nel loro lavoro, riflessioni e quant’altro.
Eravamo giovani allora, scoprivamo la politica con la coscienza (limitata) che potevi arrivando alle superiori. Massimo era più dentro l’organizzazione partitica, noi fuori, oserei dire più liberi di movimenti e pensieri, ma chissà poi se era vero.
Sognavamo in qualche modo un mondo diverso, più giusto, cercavamo ovviamente di capire il nostro posto dentro questo mondo sognato mentre vivevamo in mezzo ad un altro, quello vero. Non sognavamo la Russia e nemmeno Cuba, le esperienze dei fratelli maggiori ci avevano vaccinato contro queste influenze; ci piacevano i jeans americani anche se per i Lewis io ho dovuto aspettare ancora anni, all’epoca andavo avanti con y Roy Rogers, ma tant’è. L’America ce l’avevamo li vicina, grazie al nostro amico Alberto Z. e alla sorella che si faceva fotografare in posa plastica sul Giornale di Vicenza.
Crescendo le strade si sono differenziate, ci siamo persi di vista con alcuni, incontrati nuovi compagni di strada ed oggi siamo tutti qui a riflettere su questo mondo, dove sta andando e noi, sempre lì a chiederci cosa ci facciamo e quale sia il nostro posto e ruolo.
Io posso dire la mia, magari cosi stimolerò anche loro a voler scrivere qualcosa, non si sa mai. Il sogno restava presente, anche se la sua materializzazione era difficile. Ovviamente era più facile essere contro qualcosa che a favore di un qualcos’altro che non trovava contorni chiari.
Per me fu il Nicaragua a cambiarmi la vita. Un viaggio iniziatico breve, sufficiente per far battere forte il cuore ed innamorarmi di una rivoluzione che sembrava molto pacata nella sua espressione governativa. Facce giovani, aperte al dialogo e tese a ricercare il benessere del proprio popolo. Ricordo ancora quando vidi passare la carovana presidenziale, con Daniel Ortega presidente, a Matagalpa, agosto del 1983, con lui che guidava, finestrino aperto e braccio mezzo fuori, tanta era la sicurezza di sentirsi amato dal proprio popolo. Poi Ortega è diventato quello che è diventato, fra lui e la moglie è difficile capire chi comandi sul serio, ma non si tratta di una vittoria dell’uguaglianza di genere, ma di una sconfitta della libertà e della democrazia. 
In casa nostra morivano i partiti di ieri e dell’altro ieri, nasceva l’Ulivo e io mi ci ritrovai dentro quel sogno del Mortadella che voleva far cambiare l’Italia in modo progressivo senza strappi troppo forti.
Ognuno si porta dietro la propria storia, la mia è fatta di quelle passioni, ragionevoli, senza troppe rivoluzioni. Il cuore da giovane andava con Democrazia Proletaria, ma la ragione diceva che il potere va conquistato e cambiato dal didentro, col rischio, fortissimo, che sia il potere a cambiare te.
Arrivarono i sogni latinoamericani più recenti, ed ancora una volta si tratto di decidere da che parte stare: con Chavez o con Lagos/Bachelet in Cile? Con Kirchner o con Lula, con Lugo o con Ortega?
La stella polare era rimasta la stessa: da un lato studiare per capire dove andasse il mondo e come indirizzare il mio piccolo sforzo quotidiano, dall’altro seguire le esperienze “progressiste” per capire il livello di coerenza fra promesse e realizzazioni.
Ecco perché questi paesi ho cercato di seguirli ancor più da vicino, grazie a tutte le opportunità avute in questi anni. Molti di noi avranno avuto il cuore che gli batteva forte quando Ricardo Lagos, primo socialista dopo Salvador Allende, entrava al palazzo presidenziale in Cile. E ancor di più al vedere come dopo di lui una donna, Michelle Bachelet, entrava in quel covo machista che era la politica cilena per guidare il paese.
Chavez lo prendemmo subito con le pinze e, una volta capito chi fosse il personaggio e soprattutto cosa stava facendo e come, in particolare nel settore agrario, con l’apoteosi dell’ignoranza fatta politica, l’avversione è stata totale e definitiva, continuatasi al giorno d’oggi con l’epigono autista di autobus che ha preso il suo posto.
Il caso argentino è sempre stato nel sottofondo, ma come non ricordare che fu il presidente Kirchner a riaprire i processi contro la dittatura militare e a mandarne un bel po’ in prigione. Voleva fare i conti col passato, cosa che da noi in Italia, e in Europa, si è preferito chiudere in fretta e furia, ritrovandoci i fascisti vicini a tornare al potere in non pochi paesi europei.
Tra Lugo e Lula la scelta ‘e stata difficile. Lula mi sembrava la persona giusta: un paese che soffriva di disuguaglianze feroci a partire dalla base produttiva agricola, tramutatesi in una società classista e razzista, le promesse e l’appoggio politico delle classi popolari in favore di una riforma agraria vera avevano fatto sperare bene.
Vista dall’angolo del Presidente del Paraguay Lugo, col quale ho avuto l’occasione di lavorare personalmente a lungo, Lula aveva cominciato a perdere molti punti: l’assoluta mancanza di volontà di discutere la spartizione delle royalties generati dalla centrale di Itaipu, che lasciava al Paraguay neanche le briciole di un tesoro che Lula si teneva ben stretto, cominciarono a farmi pensare che qualcosa non andava.
La riforma agraria non si fece mai, Lula accarezzo il capitale finanziario fino a farlo sentire contentissimo di avere lui come presidente, e si limito a spartire i frutti di una crescita che dipendeva solo e unicamente dagli alti prezzi delle materie prime. Tutta la politica pubblica espansiva fatta i quegli anni, per eliminare la fame, migliorare la salute e l’educazione.. tutte cose bellissime, ma che si reggevano su un castello di carta. E’ stato sufficiente che i prezzi scendessero, per mettere in evidenza tutte le lacune e, una volta ancora, chi ha cominciato a pagare il prezzo, sono state quelle classi povere e medie che si erano illuse di essere uscite dal loro status anteriore. Adesso la destra ha ripreso il potere, in modo sgangherato, ma dati i chiari di luna la cosa più probabile è che la povertà torni a crescere in Brasile e, se il partito di Lula ha fortuna, ne daranno la colpa alla destra e non a chi, avendone avuto il comando per 13 lunghi anni, non ha nemmeno provato a cambiare il modello economico. Anzi, stando alle inchieste in corso e alla tante condanne di leaders del partito di Lula, l’impressione che si siano adattati benissimo al mondo delle bustarelle e delle amicizie ne esce rafforzata.
Finiti quei sogni, non ne è rimasto uno in piedi. Nemmeno la Bachelet è esente da scandali in questo periodo. Siamo di nuovo con le gomme a terra. Ma con la costatazione che oramai la “gente” non si lascia più abbindolare e comincia a reagire. Reazioni indiscriminate, senza testa se vogliamo, da noi o altrove, ma qualcosa si muove sotto. Chi vuol continuare a far politica dimenticandosi di chi sta sotto, rischia sorprese grosse negli anni a venire.
Io guardo l’Italia da lontano, in questi giorni mi sembra di essere su Plutone e seguire gli incredibili dibattiti sui giornali italiani come una cosa che riguarda un circolo di pazzi. Il mio è un mondo fatto di violenze crescenti contro le classi più povere, di bombe, attentati e quant’altro a ogni pie sospinto, qui in Asia come in Africa. Il turbocapitalismo distrugge posti di lavoro a ritmi sfrenati e noi discutiamo delle beghe interne al PD o di Grillo e/o quell’altra ridicola sindaca romana. Il nostro ex-leader va in California, a vedere il futuro dice lui. Ma il futuro immediato ce l’abbiamo davanti casa ed è fatto di migliaia di poveracci che diventeranno milioni a passare il mare ed arrivare da noi. New volgiamo parlare? Nemmeno gli appelli del Papa che cerca di ricordare come oramai siamo in guerra, sembra riescano ad attirare l’attenzione di qualcuno.
Non fumo, ma se lo facessi, dopo essermi riletto, mi direi: ma cosa ti sei fumato?

1 commento:

  1. questa riflessione merita essere commentata. Lo faro (magari davanti un bicchier di vino e un sigaro) :)

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