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domenica 12 febbraio 2017

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Il numero delle urgenze quando sei negli Stati Uniti, oramai simbolo mondiale delle chiamate d’emergenza.
Vedo passare reportages sul Nicaragua, i tagliatori di canna da zucchero della monopolista Pellas (la proprietaria del rum Flor de Canha) che muoiono come mosche a causa di una malattia, l’insufficienza renale cronica) dovuta ai prodotti chimici sparsi nella produzione. Sono migliaia, ma non interessano a nessuno, non di certo alla compagnia privata, men che meno al governo e nemmeno ai tanti operatori dello sviluppo. Cambio programma e mi ritrovo ai confini tra il Pakistan e l’Afghanistan, anche lì migliaia di rifugiati afgani rispediti a casa senza niente, e che cercano di ricostruirsi una vita a Kabul. Solo l’HCR sembra presente per aiutarli, almeno per dar loro quattro soldi per provare a installarsi. La polizia di Kabul li vuol cacciare dalle terre invase ai margini della città dove cercano di costruirsi una misera capanna in zone aride. Fanno anche loro parte dei tanti dimenticati. Giro allora sul confine del Messico col Texas. Una iniziativa lodevole per cercare di dare un nome alle migliaia di morti ritrovati alla frontiera nel vano tentativo di rincorrere un sogno di una vita migliore. 

Sempre la stessa storia. Nella lista dei programmi già visti in questi gironi, i pulitori di cessi indiani, gran parte donne, i senza patria del Myanmar e poi una lunga fila di tanti altri reportages da ogni parte del mondo. Fame, povertà, perdita di identità, violenze di ogni tipo che ti fanno oscillare tra la voglia di non guardare più e invece il bisogno di ricordarsi sempre e ancora di più di cosa sia questo mondo in cui viviamo e quale era il compito immane attribuito alle nazioni unite e alle sue agenzie tecniche. 

Avendo avuto il privilegio di lavorarci per quasi trent’anni ho potuto osservare da abbastanza vicino  la traiettoria discendente che ci ha portato ai livelli attuali. Da piccolo ricordo ancora quando si parlava delle nazioni unite e subito veniva un pensiero di rispetto (o forse ero io che me lo sognavo, essendo piccolino).Poi ci sono andato a lavorare, ed ho conosciuto una vecchia generazione di colleghi che passavano gran parte del loro tempo a seguire progetti sul terreno, e che sempre ti parlavano di quello che stavano facendo, con una foga che ti faceva sentire voglioso di far parte di quella squadra. Gli anni sono passati, il mondo è cambiato, la povertà e la fame sono diventati giochi di potere, per cui ci si batte sulle statistiche annuali in modo da far dire ai numeri quello che interessa a noi, e cioè che ci sono meno morti di fame, meno poveri, anche se sono ancora tanti. 

Ma non senti mai una sola persona dire la cosa più ovvia: se questi decenni passati sono stati quelli che hanno permesso uno sviluppo economico così forte, grazie alla liberalizzazione dell’economia e alla globalizzazione, e grazie ai quali l’un per cento della popolazione è diventato così ricco da non saper più cosa fare dei soldi, mentre il rimanente 99% resta lì ad arrabattarsi per mettere assieme pranzo e cena, non verrebbe da pensare che forse è il modello economico che continuiamo a perseguire che ci sta portando alla rovina? Dove sono andati i nostri economisti dello sviluppo, perché non si sentono mai a dire che o si cambia sul serio o finiremo tutti contro un muro? Nella mia organizzazione gli economisti capaci di pensare con la loro testa sembrano spariti nel nulla. Anche qui dove mi trovo, si parla del più e del meno, di nuovi progetti da formulare, ma le basi restano sempre le stesse, un paradigma economico che non si vuol mettere in dubbio.

Ed ecco che alla lunga capisci perché la tua organizzazione oramai è diventata inascoltata: non abbiamo nulla da dire a chi soffre veramente e non osiamo dire le quattro verità a chi li governa, contentandoci di un tran tran che non serve a noi e nemmeno a loro. Stiamo sparendo perché abbiamo perso il contatto con la realtà. Anche quelle rare volte che ci capita di incontrare un/a contadino/a povero/a, che sia nelle campagne dove cercano di sopravvivere o nelle periferie di casa nostra, non sappiamo più cosa dir loro, perché abbiamo dimenticato di batterci per quei valori che continuiamo a sbandierare ogni giorno.

Vista da quaggiù, la barca sta affondando velocemente, i vari pezzi non si parlano più tra loro e ognuno cerca una soluzione individuale di sopravvivenza. Roma oramai è percepita come un impaccio, un qualcosa che non capisce le dinamiche di questa regione e che solo manda ordini e mai risorse per poter far qualcosa. Quindi tutti sono in caccia di soldi, invece che mettersi alla ricerca di idee, di qualcosa per cui valga la pena dire: sono fiero di aver dato un contributo alle nazioni unite. Oggi siamo un peso per tutti, abbiamo una burocrazia pesante e cara, dall’alto piovono decisioni che sono percepite come provenienti dalla luna e comunque l’esempio che ci arriva da Roma è proprio sempre quello del divide et impera. Le energie sono spese all’interno, per spiegare e rispiegare cose ovvie, e questo vale per tutte le agenzie delle nazioni unite. Prendi il caso del cambio climatico e della invenzione magistrale dell’agricoltura climaticamente smart, che i francesi chiamano agricoltura connessa (sempre precisino sto francesi, vero?). Questa agricoltura viene declinata in mille pubblicazioni e il suo acronimo, CSA, sbandierato ai quattro venti, come la soluzione miracolo. La soluzione per tutti: governi, università, contadini e settore privato. Poi vai a vedere di cosa si parla, e capisci ancora meglio il concetto della scoperta dell’acqua calda. Pratiche agricole vecchie di millenni, saggezza contadina che ha permesso loro di adattarsi a tutte le situazioni, ecco, queste cose vengono scoperte negli anni duemila. Non oso nemmeno immaginare cosa pensi sul serio un contadino a cui venga spiegato che adesso la lotta contro il cambio climatico si farà grazie alla CSA: ci va ancora bene se non prende il fucile con i pallettoni caricati a sale…  Un caso dite voi? Ma allora spiegatemi la magia della apparizione della parola resilienza da alcuni anni a sta parte. Ancora una volta, i contadini sono resilienti by definition, altrimenti sarebbe già scomparsi. Ci ha provato il vecchio Marx a teorizzare la loro fine. Nel frattempo è morto lui, Lenin, Trotsky e quant’altro, e sto contadini sono sempre lì, malgrado tutte le innovazioni tecnologiche che dovevano farli sparire. Quindi abbiamo inventato la parola nuova per dire una cosa che esisteva da sempre: la resilienza. Cioè: invece di andare a studiare con umiltà il mondo che ci circonda e dal quale potremmo prendere lezioni per lottare contro povertà e fame, noi sprechiamo anni a cercare di inventare parole come fossero concetti nuovi. Avessimo almeno l’onestà di dire che siamo noi quelli più indietro della coda dell’asino, allora sarei meno arrabbiato. Ma invece no. Adesso dobbiamo essere climate smart e favorire la resilienza. Ma va a cagher come avrebbe detto mio nonno.


Perché non siamo capaci di dire che questa agricoltura industrializzata, chimicizzata e finanziarizzata ha distrutto il pianeta, le sue risorse umani e naturali? Perché abbiamo paura di questo? Perché quando uno dei tanti ministri dell’agricoltura viene a visitarci non gli diciamo (lui o lei che sia poco importa): dovete cambiar strada, e presto, altrimenti sarete e saremo tutti travolti da una rivolta che quando arriverà non saremo riusciti a capire. Ma statene sicuri che sotto sta covando.   

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