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lunedì 10 aprile 2017

Kakistocrazia: ci siamo dentro fino al collo

Qualche giorno di riposo, nella quiete di Formelluzzo, permettono di rinfrescare la mente, guardarsi attorno con occhi nuovi e continuare l’incessante processo di cercar di capire il mondo in cui viviamo.

La parola del giorno è kakistocrazia, ovvero il governo dei peggiori. Che si guardi al sud o al nord del mondo, dentro e fuori i governi, l’impressione crescente è che siamo oramai in mano a una casta di poveracci incompetenti, il che non può presagire nulla di buono per il futuro.

Viene da chiedersi il perché ci siamo ridotti a questo e se sia stato un cammino inevitabile.

Abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni i segni di un impoverimento globale, economico, ecologico, sociale e culturale, che tocca noi tutti esseri umani. L’ultima goccia per me è stato l’eccellente docu-film passato su da Sky intitolato Baraccopolis, di Sergio Ramazzotti e Andrea Monzani. L’ennesima conferma che oramai i tempi d’oro delle nostre democrazie occidentali sono alle spalle, e che il futuro che ci aspetta assomiglierà sempre di più a quello del terzo mondo.

Da anni sono convinto che si sia capito poco delle ragioni che hanno permesso ai paesi occidentali di diventare delle oasi di benessere per quasi mezzo secolo. E il non capire le cause ovviamente produce una incapacità di capirne gli effetti attuali e futuri.

Ricordiamo brevemente che quando siamo usciti dalla seconda guerra, noi europei eravamo ridotti alla fame, con i nostri paesi distrutti nelle infrastrutture di base. Come ricostruire tutto questo e, soprattutto, che modello di stato si voleva ricostruire, è stato oggetto di parecchie discussioni. Da un lato il modello capitalista, oramai impostosi negli Stati Uniti, potenza egemone dell’occidente, aveva una visione semplice, cioè di continuare la sua espansione nell’Europa occidentale che rimaneva sotto la sua tutela. Al contempo, era chiaro a tutti che se la guerra era stata vinta lo si doveva allo sforzo immane fatto dall’Unione Sovietica di Stalin, mostrando una capacità di resilienza e di produzione di armamenti insospettata. Del funzionamento reale di quell’economia si conosceva ancora poco, ed è per questa ragione che molti economisti americani pensavano seriamente che il modello sovietico potesse diventare una vera alternativa per gli europei, e di conseguenza non bisognava sottovalutarlo. Il fatto poi che in alcuni paesi occidentali ci fossero partiti comunisti molto forti, di fatto consigliò di adattare un modello di capitalismo meno sfrenato. La paura comunista permise che le lotte sindacali, anche se violente, rimanessero dentro l’alveo costituzionale, con risultati positivi in termini di miglioramento del potere d’acquisto della classe operaia e non solo. 
L’assenza di competizione produttiva, ha fatto sì che il legame diretto fra produzione europea ed espansione del mercato interno (italiano ed europeo) andassero di pari passo. I profitti crescevano per gli industriali, ma nello stesso tempo emergeva una classe media con potere d’acquisto sufficiente. La spirale positiva è durata parecchio tempo, sopportata anche da una crescita culturale del paese dovuta a un sistema educativo pubblico che si diffuse nel secondo dopoguerra. La paura che gli “altri” prendessero il potere ha ovviamente limitato lo spazio d’azione delle opposizioni comuniste, di fatto cooptando nel cerchio di potere anche una parte della feccia fascista, sempre pronta a riciclarsi pur di restare al potere. Margini ridotti ma comunque esistenti.

Il giochino si è rotto negli anni 70 e per due ragioni: da un lato la decisione unilaterale degli USA di rompere la parità monetaria del dollaro con l‘oro (1969) e poi l’emergere di forze intellettuali estremiste nel campo liberale. Era oramai chiaro che i sovietici non sarebbero mai stati una alternativa viabile, per cui oramai l’agenda vera era come spingere le forze del mercato libero ad occuparsi tutti gli spazi disponibili, senza preoccuparsi più degli pelli “sociali” che avevano costretto ad una minima ripartizione dei benefici fra tutti i partecipanti.

L’arrivo dei neoliberali al potere in America e Gran Bretagna segna il cambio di paradigma. Da quel momento in poi inizia la distruzione progressiva di tutti i mattoni della democrazia, e il capitale inizia a staccarsi dall’aspetto meramente produttivo per iniziare il cammino che lo porterà alla specializzazione finanziaria.

La rottura progressiva delle istituzioni democratiche è iniziata dalla periferia, attraverso i programmi di aggiustamento strutturale nei paesi del sud del mondo, in Africa in particolare. Noi li abbiamo visti, li abbiamo lasciati fare e invece di renderci conto che poi sarebbe arrivato il nostro turno, ci siamo innamorati della tavoletta che grazie a quelle ricette il miracolo sarebbe ritornato.

Dagli anni 70 in poi il refrain governativo, italiano ed europeo, è stato quello della crisi. Tagliare di qua e tagliare di là, mentre pian piano le grosse industrie sparivano, o all’estero oppure semplicemente mangiate nel gioco della competizione asimmetrica indotta dal capitalismo americano.

L’ipotesi fondante del nuovo corso era abbastanza semplice: a mano a mano che si spingeva sui bisogni individuali e non più collettivi, l’uomo veniva posto al centro della società (il sogno della dama di ferro), e quindi si riducevano le energie per lotte organizzate. A quel punto si poteva spingere sull’acceleratore della speculazione (e concentrazione della ricchezza) perché tanto il popolino non sarebbe più stato capace di organizzarsi, come nei decenni precedenti, per controffensive collettive.

Un cambio di cultura, con effetti che non riuscimmo a vedere bene. L’agenda dei “diritti” cominciava ad apparire, ma erano diritti per lo più individuali, e così facendo anche queste lotte, “progressiste”, di fatto portavano acqua al mulino della individualizzazione della società.

La speculazione finanziaria oramai domina, i meccanismi di organizzazione delle lotte collettive, partiti, movimenti, sono quasi allo stremo, e le classi politiche messe al governo, sono diventate tutte figlie dello stesso stampino: destra e sinistra tutte a fare gli elogi delle politiche restrittive e degli aggiustamenti strutturali che ci vengono imposti.

Abbiamo creato uno spazio economico e di mercato sovranazionale, l’Europa, essenzialmente perché il capitale produttivo e finanziario aveva bisogno di spazi più grandi per espandersi. Così come si era inventato il concetto di Stato-Nazione alla fine del XIX secolo, per soddisfare i bisogni crescenti dei mercanti nazionali, adesso bisognava passare alla scala superiore. Ecco perché il SI all’Europa dell’Euro ma i NO ripetuti a una Europa politica e sociale. Quest’ultima non serve e non fa parte dell’agenda del capitale internazionale, ed ecco perché non si farà.

Un modello di sviluppo di questo genere, lo sappiamo da anni, concentra le ricchezze in mani sempre più ridotte, cancella il lavoro manuale, non compensato neanche minimamente dell'offerta di lavoro intellettuale. Quindi siamo di fronte a una forbice: da un lato cala l’offerta di lavoro e dall’altro aumenta la ricchezza in poche mani.

Per evitare che questo provochi delle sommosse di massa bisogna agire su molti livelli: uno, ovvio, è il controllo dell’offerta culturale, per cui i magnati come Murdoch sono elementi chiave nella costruzione di un idearlo collettivo che non intacchi i privilegi dei pochi. Pane e circense, quindi sport a tutto spiano, telenovelas e bla-bla. Ma anche questo ovviamente non basta, anche perché i bisogni del Leviatano continuano a crescere. Il capitale vuole pronti crescenti, e non lo zero percento che ti da la tua banca quando porti i tuoi risparmi. 

Ecco quindi l’attacco alla natura, trasformarla in beni commerciabili e sui quali poter speculare. Anche questo lo sappiamo, e malgrado i timidissimi tentativi di controllare questa forza, da parte di governi sempre più deboli, lo spettro avanza.

Resistenze locali si sono mosse, a partire dall’unica forza che il capitale non riesce ancora a controllare completamente, la religione. Parte del lavoro è stato fatto, stimolando la crescita di sette di tutti i tipi che operassero per non far vedere i malefatti di quelle classi politiche messe lì dal capitale. Altre chiese sono state ridotte al silenzio, ed altre ancora sono rimaste fuori dal controllo. Il caso tipico riguarda i vari movimenti dell’estremismo islamico, un ottimo modo per distogliere l’attenzione dai problemi veri che assillano la nostra società. Se non ci fossero, bisognerebbe inventarli questi “terroristi”. 

Per chi è cresciuto all’epoca delle BR, rimane sempre quello stesso sapore di amaro in bocca che molte volte ci fece pensare a una eterodirezione delle BR (ed altri movimenti), sempre pronte ad entrare in azione quando la società si avvicinava a possibili cambi di direzione democratica. Noi adesso abbiamo l’ISIS, Boko Haram, AlQaida e quant’altro, ottimi diversivi, e ottimo volano per spingere ancora una volta l’agenda della sicurezza, delle spese militari e della necessità di controllare i movimenti di tutti. Ovviamente che siamo tutti a favore di queste misure, prese per il nostro bene. E intanto il vero problema avanza: la distruzione del lavoro è uno di quei temi che i rimasugli di partiti politici italiani ed europei, non considerano degno di studio (a parte qualche rara eccezione, vedi Melenchon in Francia). Negare l’importanza di questo problema vuol dire avere già interiorizzato il fatto che la nostra Repubblica (fondata sul lavoro, art. 1 della Costituzione) è già pronta per la sepoltura. 


Siamo dei morti che camminano, guidati da una banda di incapaci e ignoranti, messi lì per coprire i veri burattinai i cui nomi sono conosciuti e venerati da tanti. Basta prendere una copia della lista stilata dal giornale Forbes, è gli zii Paperoni sono tutti lì. Loro ingrassano, noi affondiamo e andiamo alla deriva verso una società che non sarà una società del futuro, ma quella del medio evo, da cui tanto ci è costato venir fuori. 

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