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giovedì 28 aprile 2022

Egemonia culturale nello “sviluppo”

(a giorni seguiranno traduzioni in altre lingue)
 

Il concetto di egemonia culturale ci è stato lasciato in eredità dal buon Antonio Gramsci, di cui ha scritto nei quaderni dal carcere e che indica le varie forme di «dominio» culturale e/o di «direzione intellettuale e morale» da parte di un gruppo o di una classe che sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo. (Wikipedia)

 

Di seguito presenterò alcune brevi riflessioni sull’applicazione di questo concetto nel tema dello “sviluppo”.

 

Credo sia possibile considerare che la pratica di interventi detti di “sviluppo” nel cosiddetto “terzo mondo”, sia andata crescendo a partire dagli anni 80 del secolo scorso, grosso modo in parallelo con l’affermarsi dell’ideologia neoliberista di cui i capostipiti politici erano Margaret Thatcher e Ronald Reagan, e quelli intellettuali provenivano da gruppi poco conosciuti come il Mont Pelerin Society, che prepararono il terreno universitario che avrebbe poi inondato il mondo a partire da Milton Friedman e i suoi seguaci nel Cile di Pinochet.

 

La loro influenza su politiche e programmi di “sviluppo” fu tale che, senza tema di smentita, possiamo dire che tutte le organizzazioni (non governative) che si sono impegnate nello “sviluppo” sono nate in opposizione all’egemonia culturale neoliberale. A livello di governi, la creazione di istituzioni responsabili della “cooperazione allo sviluppo” ha seguito strade e tempi diversi, ma penso si possa dire che, per ovvie ragioni, l’opposizione al mondo neoliberale è sempre stata molto più misurata. Finalmente, a livello supra-governativo, agenzie delle Nazioni unite, essendo queste il punto di caduta delle asimmetrie di potere nazionali, di fatto hanno sempre risentito dell’ambiente culturale nel quale bagnavano, per cui se a livello di individui (funzionari/e) le critiche erano (e sono) molto forti, mano a mano che si sale nella scala gerarchica, le critiche spariscono per diluirsi in una retorica istituzionale piena di buone intenzioni ma senza effetti pratici nel concreto.

 

L’unica vera sfida a questa egemonia culturale è venuta dal mondo delle organizzazioni (movimenti) contadini. Esemplare in questo senso il caso della Via Campesina, nata ai primi anni 80, nel pieno dell’ascesa del pensiero neoliberale e influenzata (in opposizione) dalle censure e restrizioni che i governi dittatoriali militari di molti paesi del Sud. Negli anni ha cercato di imporre una specie di controcultura basata su concetti derivati dal pensiero socialista e dalle esperienze ancestrali dei popoli contadini che volevano rappresentare. Cresciuta negli anni fino a diventare una specie di contro modello internazionale, sta scontando ora una specie di lassitudine da parte delle nuove generazioni che, anche quando l’hanno messa nell’olimpo dei miti, se ne stanno alla larga nella pratica, probabilmente a causa di pratiche dirigiste ancor oggi prevalentemente patriarcali, molto restie all’apertura verso posizioni diverse dall’ortodossia da loro stesse definita.

 

In questo caso non possiamo parlare di una vera e propria egemonia, perché di fatto la loro influenza nel quotidiano degli/delle operatori/operatrici dello sviluppo, e sempre rimasta marginale.

 

Quella contro cui ho combattuto durante i miei anni alla FAO è stata un’altra forma di egemonia culturale, che non vuole riconoscersi come tale, più subdola ma che di fatto ha permeato in maniera durevole il modo di pensare e quindi di operare, di una parte importante delle organizzazioni tanto del nord come del Sud.

 

Il primo punto che mi ha fatto pensare, è stato l’incontro (negli anni ottanta) con alcune Ong italiane che si occupavano di sviluppo agricolo, in Nicaragua prima e in Costa d’Avorio dopo, negli anni ottanta. Erano organizzazioni diverse, per origine e orientamento politico, ma in comune avevano quello che chiamerei un senso incosciente di superiorità nei confronti delle contadine e contadini del Sud. Si trattava di un mix di empatia superficiale evidente nella voglia di essere ben accetti, ma nel non andare mai a studiare in profondità le società nelle quali si voleva intervenire, cosa che avrebbe richiesto molto più tempo per prepararsi, che avrebbe magari portato ad interrogarsi sul senso di quello che “noi” volevamo portare a “loro”, e di una credenza inequivocabile che “noi”, che provenivamo da antiche e ancora esistenti società contadine, e che ci eravamo “sviluppati” dopo la seconda guerra grazie alla meccanizzazione e all’industria chimica nell’agricoltura, avevamo le risposte ai loro “problemi”. In altre parole, senza saperlo, questi colleghi avevano interiorizzato senza alcun spirito critico quello che Arturo Escobar aveva ben dettagliato nel suo libro L’invenzione del terzo mondo – costruzione e decostruzione dello sviluppo (che avrei letto molti decenni dopo). Oppure, visto in un’altra ottica, riproponevano con poche varianti, lo stesso discorso di “modernizzazione” dell’agricoltura proposto/imposto dagli americani alle nostre agricolture europee alla fine del secondo conflitto, sulla base del loro mitico “Yeoman Farmer” (https://discover.hubpages.com/politics/Myth-of-the-Yeoman-farmer#:~:text=The%20western%20Yeoman%20did%20not%20have%20particularly%20high,were%20changing%20their%20views%20on%20Agriculture%20in%20society.)

 

Negli anni ho incontrato altre realtà, a volte sinceramente più preoccupate di “capire” le società dove erano chiamate ad operare, ma sempre a un livello molto superficiale. Lo stesso dicasi per il credo smisurato nella tecnologia che veniva dal nord. Anche quando queste tecnologie diventavano “appropriate”, raramente ci si poneva, a priori, la domanda su quali fossero le cause reali del problema che si aveva di fronte e se la richiesta di intervento era una domanda originaria e genuina di quelle popolazioni oppure stava diventando una pratica di tipo amministrativo, una richiesta che facevano i donatori, ansiosi di dimostrare ai loro taxpayersche i soldi spesi nella “cooperazione allo sviluppo” erano ben spesi (value for money, come dicono gli anglosassoni, con la loro retorica dell’economico, efficiente ed effettivo - https://www.oecd.org/development/effectiveness/49652541.pdf).

 

Se la mia critica a questi modi di vedere mi era venuta spontanea fin da subito, molto è dipeso dagli insegnamenti del mio mentore Marcel Mazoyer che, nella cattedra di Agricoltura comparata e sviluppo agricolo dell’INAP-G, era abituato ad iniziare l’anno ricordandoci due sani principi: il primo era quello che bisognava capire a che gioco volevamo giocare, (il faut savoir à quoi on joue) e il secondo che era di ricordarci che nessuno ci aveva invitato a metter piede nei paesi, nelle economie e nelle culture del Sud. Era una scelta nostra che, nei fatti, imponevamo a popoli che non ce lo chiedevano.

 

L’aspetto subdolo contro il quale ho lottato, e lotto ancora, è quello della retorica della partecipazione. Non ho nessun dubbio che quando venne introdotta (negli anni 70 del secolo scorso) la proposta per approcci più partecipativi si trattasse di una piccola rivoluzione che voleva proprio andare contro quella dimensione di dominio indiscusso che avevano gli esperti (ovviamente maschi e bianchi) la cui parola era vangelo e per i quali le popolazioni locali erano i ricettacoli delle loro direttive, senza che fosse loro riconosciuto una profondità storica e culturale, nonché tecnica, insomma una base concreta dalla quale partire. Cominciare a parlare di partecipazione era quindi radicalmente diverso, tanto che alla FAO venne finanziato per molti anni un programma sulla partecipazione della gente contadina (People’s Participation Programme) che io conobbi nei miei primi anni con l’organizzazione.

 

Un concetto però, quale che esso sia, deve evolvere negli anni, in funzione delle mutevoli realtà dove è chiamato ad operare, pena la sua obsolescenza o, peggio, la sua trasformazione in direzioni non volute. Questo è quanto è accaduto con la “partecipazione”, a mano a mano che l’elite culturale dominante se n’è impadronita, fino a svuotarlo di contenuto, tanto che il mio vecchio amico Hernan Mora ha coniato l’epiteto di “participulacion”, cioè di partecipazione manipolata, usata per far finta di ascoltare le opinioni, critiche e proposte delle controparti con cui si lavora, senza però che questo “ascolto” scalfisca di un millimetro le posizioni predeterminate da parte di chi detta legge, i donatori e/o gli operatori dello sviluppo.

 

Il modo migliore per imporre subdolamente la trasformazione della “partecipzione” in “particupalacion” è stato quello di farla passare al vaglio del credo economico neoliberale dominante. Un approccio partecipativo richiede tempo, di fatto potremmo dire che è impossibile determinare a priori quanto tempo ci vorrà per creare un sentimento di credibilità della persona straniera alla comunità, negli occhi di chi è membro della comunità, in modo da far sì che nasca un vero dialogo fra persone aperte. Il tempo è denaro, e nessun donatore può permettersi il “lusso” di dedicare troppo tempo all’instaurazione di un clima di fiducia (sempre in nome della retorica del taxpayer nostrano che vuole value for money). Io l’ho sperimentato in un progetto finanziato dalla cooperazione olandese con noi della FAO nella regione di Kafa in Etiopia: il documento di progetto iniziale, rigettato dal donatore, che poi aveva deciso di non dare i soldi alla Ong che lo aveva preparato, era stato scritto nella capitale senza mai andare nelle zone di operazione, questo perché erano lontane, scomode, ci sarebbe voluto troppo tempo etc.etc.. 

 

La FAO accettò i soldi e chiese a me di proporre una persona per andare ad occuparsi della messa in pratica. Proposi un amico, Alberto, col quale avevo lavorato in altri paesi, un agronomo ruspante, che andò ad installarsi nel villaggio da dove si sarebbero gestite le operazioni. Ci volle poco perché si rendesse conto che il documento di progetto non solo non c’entrava nulla, ma peggio ancora aveva creato un clima di sfiducia nei confronti degli “stranieri” che volevano fare “sviluppo”. Ci vollero nove mesi per rimettere in piedi il tutto, creare un’atmosfera di vera cooperazione, sia con le autorità locali (e chi ha lavorato in Etiopia capisce di cosa parlo) che con le comunità. Le pressioni che la FAO riceveva dal donante erano difficili da tenere: la loro preoccupazione era quella tipica dei donatori, cioè mostrare che i soldi dati sono spesi (innanzitutto) e poi, magari, spesi bene. I miei capi FAO rigettavano la responsabilità su di me, dato che ero io a coprire il lavoro di Alberto sul terreno, e siccome avevo le spalle larghe (ed anche una certa reputazione), alla fine aspettarono. Una volta che il clima di fiducia venne ristabilito, il progetto andò benissimo, ma rimase una goccia nel deserto. La FAO continuando a cercare soldi per fare progetti, scritti magari in un paio d’ore (come fu il caso quando venne eletto Lula in Brasile, d’accordo col direttore generale dell’epoca, fu deciso che entro il 31 dicembre (prima della scadenza amministrativa e che si chiudesse il budget), eravamo a novembre, una decina di progetti legati allo slogan “Fame Zero”, dovevano essere preparati ed approvati. Conosco amici che si misero a scrivere questi progetti a Natale, e in cinque giorni vennero cotti e mangiati. Sulla qualità e sulla loro adeguazione alle realtà locali, nonché al livello di “partecipazione”, credo dia meglio stendere un velo pietoso.

 

Gli anni son passati. Io e chi ha lavorato con me, siamo andati avanti non solo nella critica a questa egemonia culturale “partecipativa”, ma anche con le proposte, messe in modo semplice e chiaro fin dai primi anni 2000. Parlare di negoziazione e non più di partecipazione, era un modo per introdurre una terminologia proveniente dal mondo degli affari, così che fosse chiaro che anche le popolazioni locali, oggetti del “progetto”, difendevano interessi (e diritti) molto concreti, per cui non bastava fare una riunione partecipata, magari con la metà di donne così da dire di essere gender-sensitive e poi fare una foto da mettere sul giornale. Negoziare vuol anche dire che si può arrivare ad un accordo, se c’è il consenso delle parti, ma anche no. Per cui non basta più dire “vi portiamo un progetto di milioni di dollari”… bisogna costruire una empatia, una fiducia, ascoltare le loro logiche, i loro modi di vedere il mondo ed essere preparati a una eventuale risposta del tipo “no grazie!”. Ma parlare di dialogo e negoziazione vuol dire anche parlare di dinamiche di potere, e questo è l’aspetto che più fa paura, sia alle agenzie ONU, sia ai governi, del Nord come del Sud, e infine anche alle organizzazioni che operano sul terreno. 

 

Tutte queste entità preferiscono fare quello che Berlusconi avrebbe chiamato il “teatrino” della cooperazione. Far finta di fare qualcosa di strutturale, mandare giovani con poca esperienza a farsi le ossa, scrivere delle storie dal terreno strappalacrime e alla fine tutto resta uguale a prima.

 

Il punto è che questa egemonia culturale della partecipazione, anche se ha avuto dei contatti col mondo neoliberale, in realtà è frutto non capito di un modo di fare “sviluppo” che resta figlio della stessa storia colonialista di sempre. Non vogliamo guardarci dentro, preferiamo esteriorizzare sentimenti di tipo cattolico, del vogliamoci bene, faccio del mio meglio, che è quanto ci riesce meglio, ma che non tocca nemmeno superficialmente le ragioni di questo “sottosviluppo”. Studiare, capire, criticare e proporre, sono tutte tappe che richiedono tempo, sforzi di volontà e capacità autocritiche, tutto quello che sembra mancare nel Barnum della cooperazione. 

 

 

 

 

 

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