martedì 21 febbraio 2012
2012 L15: Marco Malvaldi - La carta più alta
Sellerio editore
Aldo, Ampelio, Gino e Pilade, i quattro pensionati-detective di Pineta affondano in questa nuova avventura fra un pettegolezzo, una bevuta e quattro risate, rompendo la monotonia della placida vita di provincia con arguzia e ironia. E dimostrando alla fine che la scienza serve, anche tra i tavolini di un bar.
«Non è che tutti gli anni possono ammazzare qualcuno per farvi passare il tempo», sbotta disperato Massimo il barrista. Ma è impossibile sottrarsi al nuovo intrigo in cui stanno per trascinarlo i quattro vecchietti del BarLume: nonno Ampelio, il Rimediotti, il Del Tacca del Comune, Aldo il ristoratore. Dalla vendita sottoprezzo di una villa lussuosa, i pensionati, investigatori per amor di maldicenza, sono arrivati a dedurre l’omicidio del vecchio proprietario, morto, ufficialmente, di un male rapido e inesorabile. Massimo il barrista, ormai in balìa dei vecchietti che stanno abbarbicati tutto il giorno al tavolino sotto l’olmo del suo bar nel paese immaginario e tipico di Pineta, al solito controvoglia trasforma quel fiume di malignità e di battute in una indagine. Il suo lavoro d’intelletto investigativo si risolve grazie a un’intuizione che permette di ristrutturare le informazioni, durante un noioso ricovero ospedaliero: proprio come avviene nei classici del giallo deduttivo. E a questo genere apparterrebbero, data la meccanica dell’intreccio, i romanzi del BarLume, se non fosse per le convincenti innovazioni che vi aggiunge Marco Malvaldi. La situazione comica dei quattro temibili vecchietti che sprecano allegramente le giornate tra battute diatribe e calunnie, le quali fanno da base informativa e controcanto farsesco al mistero. La feroce satira che scioglie nell’acido ogni perbenismo ideologico. La rappresentazione, umoristica e aderente insieme, della realtà della provincia italiana nel suo localismo, nel suo vitalismo e nel suo eccentrico civismo, incarnata in un paesino balneare della costa toscana, da dove passano e ripassano i personaggi di una commedia di costume in forma di giallo.
Sempre alto livello. Sicuro che uno di questi sarà nella top list dell'anno.
2012 L14: Arne Dahl - Misterioso
Deux hommes d'affaires suédois sont assassinés dans leur maison avec le même modus Operandi : deux balles dans la tête, aucun signe de violence ou de cambriolage, et toutes traces soigneusement effacées. Et tout porte à croire que l' assassin ne s' arrêtera pas là.
Afin de résoudre les meurtres de riches industriels et de magnats de la finance, mais aussi d' arrêter un tueur en série présumé, la Sapo ( la police suédoise) crée dans l'urgence, une unité spéciale grossièrement appelée groupe A, faute de mieux.
Un premier roman publié sous le pseudonyme de Arne Dahl et l'écrivain qui se cache derrière cet alias, connaît sacrément son affaire.
Dahl est en Suède salué comme l'héritier de Sjöwall et Wahloo et son roman , Misterioso est une satire critique de la police mais aussi de la société suédoise et attaque insidieusement la politique fiscale et la politique d'immigration, porte un regard éclairé sur les accointances entre mafia russe et estonienne et les milieux d'affaires suédois, et expose aussi les travers d'une haute bourgeoisie sans tabous ou l'argent flirte avec prostitution, inceste et pédophilie.
L' enquête menée par six enquêteurs part peut être tout azimut mais grace à cela, Arne Dahl, n'hésite pas à écorcher ces milieux d'affaires et à nous éclairer sur leur travers.
Bel libro, consigliato!
giovedì 16 febbraio 2012
Haiti: Martelly l'italiano
PAP
La situazione politica in questi giorni è non solo calda, ma bollente. Peccato non poter dire lo stesso dell'acqua del mio hotel che, invece, continua a restare di speratamente fredda.
La storia va avanti da parecchi giorni e riguarda l'accusa fatta direttamente al Presidente della Repubblica di avere un paio di passaporti in più, oltre l'haitiano, uno americano e uno italiano.
Le regole locali vogliono che un Presidente non possa avere altri passaporti e questo sarebbe un buon sistema per farlo fuori. Va ricordato che siamo in un sistema dove i vari deputati e senatori devono le loro fortune politiche ai loro giochi personali piuttosto che a partiti politici che sonno troppo deboli e mal strutturati. Per cui il Presidente ha un controllo relativo sulla situazione del suo governo e in particolare ha dei rapporti un po' complicati col primo ministro.
In questo contesto si spiega la sua reazione all'accusa di avere altri passaporti (che, se provata, porterebbe dritto dritto alla sua destituzione), rinviando la palla e dicendo che ci sono anche parecchi altri ministri del governo che hanno altri passaporti (ricordate il "così fan tutti" di craxiana memoria? sarà forse si chiama Martelly come il nostro Claudio?).
L'idea era che il primo ministro, per difendere il suo governo, facesse fronte comune col Presidente contro la commissione d'inchiesta senatoriale che vuole delle risposte chiare su questi punti. Ma dall'ufficio del PM viene un invito ai vari manistri a presentarsi senza problemi alle convocazioni che riceveranno.
In questo modo lui vuole profilarsi come l'uomo delle istituzioni, sereno e dritto sul cassero, in modo da distanziare la sua figura da quella del Presidente che potrebbe rischiare grosso. Se nel mezzo dovessero cadere anche qualche pezzo ministeriale, la battaglia ne varrebbe la pena..
Ma pensare che il Presidente Martelly si lasci prendere così facilmente vuol dire non conoscerlo bene. Si annunciano giorni ancor più caldi, e non solo per l'arrivo del carnevale....
La situazione politica in questi giorni è non solo calda, ma bollente. Peccato non poter dire lo stesso dell'acqua del mio hotel che, invece, continua a restare di speratamente fredda.
La storia va avanti da parecchi giorni e riguarda l'accusa fatta direttamente al Presidente della Repubblica di avere un paio di passaporti in più, oltre l'haitiano, uno americano e uno italiano.
Le regole locali vogliono che un Presidente non possa avere altri passaporti e questo sarebbe un buon sistema per farlo fuori. Va ricordato che siamo in un sistema dove i vari deputati e senatori devono le loro fortune politiche ai loro giochi personali piuttosto che a partiti politici che sonno troppo deboli e mal strutturati. Per cui il Presidente ha un controllo relativo sulla situazione del suo governo e in particolare ha dei rapporti un po' complicati col primo ministro.
In questo contesto si spiega la sua reazione all'accusa di avere altri passaporti (che, se provata, porterebbe dritto dritto alla sua destituzione), rinviando la palla e dicendo che ci sono anche parecchi altri ministri del governo che hanno altri passaporti (ricordate il "così fan tutti" di craxiana memoria? sarà forse si chiama Martelly come il nostro Claudio?).
L'idea era che il primo ministro, per difendere il suo governo, facesse fronte comune col Presidente contro la commissione d'inchiesta senatoriale che vuole delle risposte chiare su questi punti. Ma dall'ufficio del PM viene un invito ai vari manistri a presentarsi senza problemi alle convocazioni che riceveranno.
In questo modo lui vuole profilarsi come l'uomo delle istituzioni, sereno e dritto sul cassero, in modo da distanziare la sua figura da quella del Presidente che potrebbe rischiare grosso. Se nel mezzo dovessero cadere anche qualche pezzo ministeriale, la battaglia ne varrebbe la pena..
Ma pensare che il Presidente Martelly si lasci prendere così facilmente vuol dire non conoscerlo bene. Si annunciano giorni ancor più caldi, e non solo per l'arrivo del carnevale....
Back to Powoprens (Port au Prince)
Sono ritornato a PAP, la capitale di Haiti. Due anni sono passati dal terremoto che ha messo in ginocchio la città e, per estensione, il paese intero. Il palazzo presidenziale è ancora lì, mezzo buttato giù, in attesa che qualche santo provveda a rimetterlo in piedi, anche se molti sperano questo non succeda più, dati i crimini che sono stati pensati li dentro.
Non sarà cosa facile ricostruirlo, malgrado i santi abbondino in questo paese. Ma più che santi servirebbero istituzioni, un catasto minimamente funzionante, tutte cose che non c'erano prima e non ci sono adesso.
Si arriva all'aeroporto che il sole sta tramontando e, come sempre nei paesi tropicali, pochi minuti ed è già notte. L'impatto con gli haitiani è molto "cool", sono profondamente gentili anche se molto poveri per cui è ovvio che ti stanno attorno a cercar di mendicare qualcosa o a proporti affari mirabolanti.
In giro per le strade è il buio totale, come hai già visto in tante altre capitali del sud; penso a Managua, la prima che visitai nel lontano 1983. I marciapiedi sono brulicanti di gente, che sta lì, vende, chiacchiera, fa da mangiare e mangia, beve, commercia, cammina, litiga e fa pace: insomma, vive. Tutto in mezzo ai fari delle macchine, gli unici fasci di luce che, a intermittenza, permettono di vedere dove e cosa si stia facendo. Poi, ogni tanto, appaiono i distributori di benzina che, come in tutte la capitali buie, diventano centri di aggregazione, per il solo fatto di avere della luce.
L'altro ieri è capitato un camion lanciato sulla strada che passa davanti all'hotel; era già sera e il casino abituale siu era ridotto. Così l'incidente ha fatto solo 30 morti invece del massacro che poteva essere. Ci sono ripassato stasera e non c'era già più traccia di nulla... la vita continua.
La differenza evidente con gli anni 80, quando cominciai a girare il mondo, è rappresentata dalla miriade di lucette individuali, i telefonini, che oramai sono più presenti di qualsiasi altra cosa. Servono anche come lampadine per cui in queste notti buie sono i benvenuti.
Incredibile ma vero, ma i semafori, almeno nel tratto dall'aeroporto al quartiere dove mi hanno alloggiato, funzionano e, globalmente, i furbetti in macchina, quelli che ti soprassano a destra, sinistra, sopra e sotto, non sono più numerosi che a casa nostra.
Sarà perchè è giovedì e si prepara il fine settimana, i bar cominciano a mandare musica, ma si respira un'aria calma, come avessero oramai imparato a digerire anche questa catastrofe che gli è cascata addosso.
La cooperazione internazionale si agita molto, mette a disposizione soldi, uomini e "know-how", ma dopo due anni trovi che quasi 150mila rifugiati, quelli che stanno sotto una tenda inattesa di qualcosa che non verrà, sono minacciati di espulsione perchè quelle famiglie che hanno i titoli di proprietà sulle terre, rivogliono indietro proprio quelle lì, dove sono stati creati campi per i rifugiati. La sottile linea rossa rapresentata dalla questione fondiaria fa parte del "non detto", di quei temi che, capisci subito appena arrivato, nessuno vuol sentir parlare.
Ma dopo un paio di birre, le lingue si lasciano andare, ed allora scopri l'ovvio, ciò che tutti sanno e cioè che senza sicurezza di base, sul pezzo di terra dove ricostruire casa o dove piantare alberi o mettere un piccolo sistema d'irrigazione, nessuno è disposto a rischiare, per cui tutti aspettano i progetti internazionali, che stanno alla larga da questi temi ma almeno portano un po' di lavoro, in attesa che qualcuno abbia il coraggio di metter le mani lì, dove fa male.
Domani ci organizzeremo e andremo al sud a visitare una delle zone dove vorremmo provare a fare un' esperienza nella direzione di un futuro catasto rurale. Proveremo a mettere assieme istituzioni di governo, ONG locali, noi delle nazioni unite e i contadini e contadine della zona dove stiamo lavorando.
Una speranza, piccola, ma almeno proviamo a cominciare dall'inizio. Haiti è oramai allo sbando, ma questa gente non merita di essere abbandonata, rimettere in piedi il paese richiederà anni, decenni, e richiederebbe tutto quello che non abbiamo nemmeno noi: trasparenza nella politica, facce affidabili, fiducia e capacità... insomma, ci proviamo.. avanti..
Non sarà cosa facile ricostruirlo, malgrado i santi abbondino in questo paese. Ma più che santi servirebbero istituzioni, un catasto minimamente funzionante, tutte cose che non c'erano prima e non ci sono adesso.
Si arriva all'aeroporto che il sole sta tramontando e, come sempre nei paesi tropicali, pochi minuti ed è già notte. L'impatto con gli haitiani è molto "cool", sono profondamente gentili anche se molto poveri per cui è ovvio che ti stanno attorno a cercar di mendicare qualcosa o a proporti affari mirabolanti.
In giro per le strade è il buio totale, come hai già visto in tante altre capitali del sud; penso a Managua, la prima che visitai nel lontano 1983. I marciapiedi sono brulicanti di gente, che sta lì, vende, chiacchiera, fa da mangiare e mangia, beve, commercia, cammina, litiga e fa pace: insomma, vive. Tutto in mezzo ai fari delle macchine, gli unici fasci di luce che, a intermittenza, permettono di vedere dove e cosa si stia facendo. Poi, ogni tanto, appaiono i distributori di benzina che, come in tutte la capitali buie, diventano centri di aggregazione, per il solo fatto di avere della luce.
L'altro ieri è capitato un camion lanciato sulla strada che passa davanti all'hotel; era già sera e il casino abituale siu era ridotto. Così l'incidente ha fatto solo 30 morti invece del massacro che poteva essere. Ci sono ripassato stasera e non c'era già più traccia di nulla... la vita continua.
La differenza evidente con gli anni 80, quando cominciai a girare il mondo, è rappresentata dalla miriade di lucette individuali, i telefonini, che oramai sono più presenti di qualsiasi altra cosa. Servono anche come lampadine per cui in queste notti buie sono i benvenuti.
Incredibile ma vero, ma i semafori, almeno nel tratto dall'aeroporto al quartiere dove mi hanno alloggiato, funzionano e, globalmente, i furbetti in macchina, quelli che ti soprassano a destra, sinistra, sopra e sotto, non sono più numerosi che a casa nostra.
Sarà perchè è giovedì e si prepara il fine settimana, i bar cominciano a mandare musica, ma si respira un'aria calma, come avessero oramai imparato a digerire anche questa catastrofe che gli è cascata addosso.
La cooperazione internazionale si agita molto, mette a disposizione soldi, uomini e "know-how", ma dopo due anni trovi che quasi 150mila rifugiati, quelli che stanno sotto una tenda inattesa di qualcosa che non verrà, sono minacciati di espulsione perchè quelle famiglie che hanno i titoli di proprietà sulle terre, rivogliono indietro proprio quelle lì, dove sono stati creati campi per i rifugiati. La sottile linea rossa rapresentata dalla questione fondiaria fa parte del "non detto", di quei temi che, capisci subito appena arrivato, nessuno vuol sentir parlare.
Ma dopo un paio di birre, le lingue si lasciano andare, ed allora scopri l'ovvio, ciò che tutti sanno e cioè che senza sicurezza di base, sul pezzo di terra dove ricostruire casa o dove piantare alberi o mettere un piccolo sistema d'irrigazione, nessuno è disposto a rischiare, per cui tutti aspettano i progetti internazionali, che stanno alla larga da questi temi ma almeno portano un po' di lavoro, in attesa che qualcuno abbia il coraggio di metter le mani lì, dove fa male.
Domani ci organizzeremo e andremo al sud a visitare una delle zone dove vorremmo provare a fare un' esperienza nella direzione di un futuro catasto rurale. Proveremo a mettere assieme istituzioni di governo, ONG locali, noi delle nazioni unite e i contadini e contadine della zona dove stiamo lavorando.
Una speranza, piccola, ma almeno proviamo a cominciare dall'inizio. Haiti è oramai allo sbando, ma questa gente non merita di essere abbandonata, rimettere in piedi il paese richiederà anni, decenni, e richiederebbe tutto quello che non abbiamo nemmeno noi: trasparenza nella politica, facce affidabili, fiducia e capacità... insomma, ci proviamo.. avanti..
martedì 14 febbraio 2012
Ecco perchè è complicato lavorare sulla questione fondiaria ad Haiti
Attenzione: ci vuole pazienza, molta pazienza.. e non arrendersi fino alla fine.
Narro qui in forma riassunta un lavoro di una eminente specialista haitiana, M. Oriol (con me nella foto). Lo studio è stato realizzato nel 1987 in un Municipio del paese. Dal 1966 al 1987, vari conflitti maggiori si sono susseguiti, uno dietro l'altro, sulle stesse parcelle di terra.
Momento Uno (1966 – 1971)
Stiamo parlando di una superficie di poco più di 2 ettari e mezzo, spartiti in cinque campi. Un gruppo di eredi (della famiglia X) veniva contestato in toto da un altro gruppo (famiglia Y). Secondo Y, gli X stavano usando delle terre vicine alle loro (due campi) che, anticamente, appartenevano agli antenati di Y. A sostegno avevano trovato un comprovante rilasciato da un geometra, con data 1840 (avete letto bene). Questo docuento attestava che il loro antenato possedeva effettivamente 5 campi. Quindi, nel 1966, risvegliatisi dal sonno, volevano che X restituissero i 2 campi in uso.
Dopo le discussioni iniziali, nel 1968 gli Y, capitanati da Gian Battista, pagano un geometra per rifare i rilievi sul terreno, inglobando i due campi contesi. Immaginatevi il casino: altercazioni, animali mandati a pascolare sulle terre dei vicini, taglio di alberi sui campi etc. etc. niente di nuovo. Gli X, disperati, ma senza nulla di concreto in mano, sono costretti a cedere.
Sembra quasi fatta, ma tre anni dopo, 1971, i famigli X trovano, per caso, un atto di un geometra che, nel 1890 (cinquant'anni dopo) citava il lascito gratuito da parte dell'antenato Y dei due campi in questione alla famiglia X. Si procedette allora a una nuova operazione catastale che chiarisse la situazione, lasciando, di fatto, tutti in un regime detto dell'indivisione (nessuno aveva mai regolamentato nulla dal 1840 in poi).
Momento 2 (1971 – 1984)
Gli Y, incazzati per non aver recuperato i due campi, se la prendono, com'era ovvio, con colui che li ha portati a questa battaglia (dove hanno speso già parecchi soldi) e quindi contro Gian Battista. Ma non ce l'hanno con lui per questa battaglia ma per la divisione, informale, che lui aveva gestito dei tre campi di loro appartenenza. Vari sottogruppi di Y, vengono a reclamare la loro parte di eredità che nel frattempo, dopo la morte dell'antenato, era stata gestita da un'altra branca della famiglia. GianBattista, accusato di aver abusato dei suoi diritti e di aver venduto terra senza tener conto di tutti gli aventi diritto, rifiuta qualsiasi decisione. Vanno quindi a finire davanti il tribunale civile del dipartimento che, salomonicamente, decide di dare ai due contendenti (GianBattista e tutti gli altri sottogruppi) una autorizzazione (necessaria nel diritto haitiano) per fare un rilievo catastale (da parte dei soliti geometri). Il lavoro fu eseguito nel 1984, con conseguente negoziazione fra i vari contendenti, con i seguenti risultati:
-Una parcella, occupata da oltre 20anni da una delle eredi (sulla quale aveva costruito casa) viene attribuita ad un altro gruppo della famiglia
-Tre parcelle occupate da un gruppo vengono restituite a uno dei due sottogruppi che non avevano mai fatto valere in precedenza i loro diritti. Risultato, i famigli che operavano su quelle parcelle, incazzati neri, tagliarono tutti gli alberi, lasciando le parcelle completamente a nudo per i nuovi arrivandi.
-Il cimitero famigliare è stato occupato e messo a coltura da parte di uno degli eredi.
-Gli eredi di due campi si ritrovarono su terre parzialmente nuove che non avevano mai coltivato prima, lasciando delle terre alle quali avevano apportato parecchi benefici.
Le negoziazioni andavano avanti da un po' quando il nostro GianBattista decide di fare causa contro la divisione dell'eredità.
Momento 3
La storia non finisce comunque. Siamo nel 1985 e una delle eredi, nubile, con figli a carico, senza risorse ne lavoro, decide di lasciare la città dove abita da parecchi anni e tornare alle terre di residenza antica della famiglia, del nonno in particolare, per rivendicare due ettari e mezzo che erano stati lasciati, di comune accordo degli eredi, ad un'altra nipote. I soliti schiamazzi vari e poi si aprì una causa che, al momento dello studio, risultava aperta.
L'autrice ci fa notare che il bilancio, dopo questi anni, confermava che la preminenza degli utilizzatori realiu (chi sta sui campi da tanti anni) può essere rimessa in questione in qualsiasi momento da parte di co-eredi defraudati, ricorrendo al diritto formale.
In altre parole, più tecniche, l'imperscrittibilità di fatto della divisione ereditaria gioca sempre contro il principio della prescrizione acquisitva.
Il mio bilancio, più semplicemente, è: ma chi me l'ha fatto fa?
lunedì 13 febbraio 2012
2012 L 13: Donna Leon - De sang et d'ébène
Calmann-LèVY, Série Points
L'assassinat d'un vendeur à la sauvette dans le quartier San Stefano de Venise a tout l'air d'un règlement de comptes. Pourtant, le commissaire Brunetti n'y croit pas trop et désire poursuivre ses investigations. Il découvre alors dans les affaires de la victime, une boîte contenant des diamants bruts qui relance son enquête.
Intrigante sto ispettore Brunetti... pian piano ti entra dentro.. anche se l'autrice dovrebbe fare più attenzione sulle ricette venete... il pasticcio fatto con vari strati di polenta proprio non va giù, nemmeno con tutte le grappe che fa bere, a stomaco vuoto, al caro commissario...
domenica 5 febbraio 2012
2012 L12: Yasmina Khadra - Les Hirondelles de Kaboul
Pocket 2004
Dans les ruines brûlantes de Kaboul, la mort rôde, un turban noir autour du crâne. Ici, une lapidation de femme, là un stade rempli pour des exécutions publiques. Les Talibans veillent. La joie et le rire sont devenus suspects. Atiq, le courageux moudjahid reconverti en geôlier, traîne sa peine. Toute fierté l'a quitté. Le goût de vivre a également abandonné Mohsen, qui rêvait de modernité. Son épouse Zunaira, avocate, plus belle que le ciel, est désormais condamnée à l'obscurité grillagée du tchadri. Alors Kaboul, que la folie guette, n'a plus d'autres histoires à offrir que des tragédies. Quel espoir est-il permis ? Le printemps des hirondelles semble bien loin encore.
Una scrittura particolare, sul tragico, a volte eccessivo a mio giudizio. Il tema è molto particolare, la vita a Kaboul di alcune figure maschili che si interrogano sul senso di quello che sta succedendo (siamo all'epoca dei Talebani dopo la cacciata dei sovietici e prima dell'arrivo occidentale). Le morti si susseguono alle morti, la vita delle donne, delle loro spose, che oramai è più degradata di quella dei cani, un paese all'abbandono, in mano a fanatici, violenti.
Non può esserci fine felice in una storia come questa, lo senti subito, per cui vai a cercare come l'autore arriverà all'inevitabile tragedia finale.... bello....
R4: e sono 31
sabato 4 febbraio 2012
Xuor Wok Elite
Xuor Wok Acras
Per la pasta:
400 gr di baccalà salato
250 gr di farina
2 uova
¼ di litro di latte
Una bustina di lievito (non per dolci)
Scalogno
Prezzemolo
Erba cipollina (chi ce l’ha)
Peperoncino
Sale
Cominciare il giorno prima:
Desalare il baccalà durante tutta la notte, cambiando frequentemente l’acqua. Farlo cuocere mettendolo in acqua fredda con cipolla, carote e alloro e quando l’acqua freme lasciar cuocere dieci minuti. Togliere la pelle e le lische. Passarlo al mixer.
Si comincia dagli elementi liquidi: latte, uova, batterli assieme. Aggiungere la farina (setacciata).
Tagliare finemente lo scalogno, prezzemolo e l’erba cipollina (o cipolle fresche). Aggiungere alla pastella. Aggiungere anche il baccalà mixato e il peperoncino.
Assaggiare per sentire il sale e il peperoncino.
Mettere tutto in frigo per la notte coperto da una pellicola.
Il giorno dopo:
Friggere in olio di semi, un cucchiaino da caffè di pasta (per la dose), per circa 3 minuti (quando è dorato).
Servire accompagnato da tabasco e rum, zucchero di canna e limone.
Xuor Wok 1
Pollo peperoni e zucchine (e cipolle)
Tagliare le zucchine con la mandolina, i peperoni a striscette fine e la cipolla “a plumas”.
Il pollo tagliarlo anche lui a strisce di un centimetro circa di larghezza.
Un po’ d’olio di semi, fuoco forte e cominciare col pollo che, un po’ alla volta comincia a dorare. A quel punto tirarlo fuori e mettere le verdure al suo posto, cominciando dal peperone. Due minuti circa. Aggiungere le zucchine e la cipolla, abbassare il fuoco e coprire per 6 minuti.
Alzare il fuoco, mettere il pollo, latte di cocco, salsa HP e peperoncino. Mescolare 5-6 minuti e servire caldo con riso (thai per esempio) oppure, come in questo caso, con broccoletti lessi e ripassati. L’amaro del broccoletto va benissimo col gusto dolce del cocco.
Mescolare spesso e usare le pareti per cucinare. Far girare il tutto sulle pareti, continuamente.
Consiglio Xuor per il wok: se al posto del pollo volete usare un’altra carne, manzo o altro, prendete il filetto perché per questo tipo di cucina ci vuole carne tenera.
Incubi Romani 3 febbraio 2012
Prima che finisca questa giornata, voglio raccontare di ieri, il venerdi nero di Roma e di chi, come me, ha scelto i mezzi pubblici per viaggiare: un’ Odissea nello spazio per solo 1 Euro.
Avevano annunciato per tempo, almeno da una settimana, che questo venerdi la neve sarebbe arrivata anche a Roma, così come aveva fatto in mezza Europa e nel nord e centro Italia nei giorni precedenti.
Insomma, c’era stato tempo per prepararsi. Solo che a Roma questo verbo si coniuga in un altro modo: prepararsi (di fronte a un evento raro come questo – la neve e il freddo in inverno, suvvia, si è visto mai, come si permette questo signor Tempo di far venire anche neve e freddo… ?) prepararsi dicdvo a sparger sale ma non per terra, come pensate tutti, ma sulle ferite altrui. Lo scopo è solo di rimbalzarsi le colpe di quello che tanto non si farà. Oggi tocca ad Alemanno, Moretti (quello delle Ferrovie) e a quelli della Protezione Civile (oramai in Italia siamo abituati così e mi scuso con i lettori stranieri che non capiscono cosa c’entri la Protezione Civile con il fatto che d’inverno venga la neve…. C’ entra, c’ entra..). Ieri è toccato a qualcun altro e così sarà domani. Quindi per il momento prendiamocela con chi ci sta.
In ufficio da noi danno l’autorizzazione di uscire prima perché sta scendendo tanta neve nelle zone del centro nord della città e periferia e che le previsioni sono per un peggioramento. Quindi alle 14.00 via alla stazione Ostiense a cercare un treno verso Nord.
Moretti, quello delle ferrovie, aveva anticipato. Dato che si aspettava parecchio freddo, les sue FFSS hanno messo in azione il Piano Emergenza, detto anche il Piano dei Grulli. Consiste in far girare meno treni, molti di meno, così la gente s’abitua a prendere la macchina per andare a lavorare. Peggio pe’ i grulli che hanno seguito il consiglio di Moretti, che poi, dato che son grulli, e non hanno messo le gomme da neve e nemmeno le catene, la sera non sono tornati a casa, ma sono rimasti lì ad intasare le strade, Raccordo e tutto il resto. Questa mattina alle dieci il telegiornale annunciava che la Braccianese (la strada che vien su dalle nostre parti) è ancora bloccata dalle macchine di ieri sera.
Siccome io sono più intelligente e non son grullo, mica c’ho una laurea, un master e un dottorato per nulla… ho deciso di sfidare Moretti e prendere lo stesso il treno, anche se ce n’erano pochi. Fossi stato un po’ meno intelligente e più furbo (le due cose non andando mai assieme), avrei fatto la scelta giusta: starmene sotto le coperte .. ma così è la vita e quella sarebbe un’altra storia..
Quindi alle 14.20 sto lì all’Ostiense, monumento al nulla, con la sua stazione mezza chiusa da sempre. L’unica volta che l’ho vista aperta è stato nel 1996 quando si è realizzato alla FAO il summit mondiale sull’alimentazione e la stazione è stata usata per gli eventi paralleli della società civile. Ho scoperto uno spazio grande e bello, poi chiuso per l’eternità.
L’Ostiense è lì col suo freddo (non trovi una sala d’aspetto neanche se hai il Tom-Tom) e con le sue tecnologie di base perennemente fuori uso. Deve essere un messaggio subliminale che Roma vuol mandare a chi osa venire a trovarla. Probabilmente pensando che tutti quelli che sbarcano a Fiumicino e poi prendono il trenino ed arrivano qui, primo punto utile per le corrispondenze per il centro e la metropolitana, siano tutti emuli di quei barbari di una volta, i vari responsabili (sono sempre molti, così non sai mai a chi dar la colpa) si devono essere messi d’accordo per non far funzionare le scale mobili (sono anni che sono lì, ferme), le insegne luminose destinate a informare i passeggeri e tutto quello che potrebbe servire in quei casi. Vi consiglio di provare ad entrare nelle toilette degli uomini, così giusto per l’ebbrezza del pericolo. Insomma, il messaggio di Welcome al rovescio, in modo da chiarire come sarete trattati dopo (chi decide di prendere un taxi a Fiumicino, invece del trenino, lo scopre da sè, cosa sia il messagggio di Badcome).
All'Ostiense, così in molte altre stazioni delle FFSS, esiste una stanza segreta, mai trovata, dove si nascondono i funzionari delle ferrovie, macchinisti, trombettisti, fiscalisti e chi più ne ha più ne metta, per non farsi assolutamente trovare da nessuno in quei momenti quando più ne hai bisogno.
Noi italiani lo sappiamo che va così la vita, per cui a parte smadonnare non facciamo altro.
Di colpo, incredibilmente, un voce misteriosa manda segnali di vita; non proprio quelli che speravi sfortunatamente. Il treno numero… per Cesano, oggi è stato soppresso, ce ne scusiamo con gli utenti. Passano quindici minuti, il treno .. per Bracciano, oggi non verrà eseguito, ce ne scusiamo con gli utenti; altri quindici minuti, il treno .. per Viterbo oggi manco p’e u cazzu… ce ne scusiamo.. etc. etc.
Io rido pensando a tutti questi utenti che hanno fatto il pieno di scuse. Poi mi ricordo che sono anch’io un utente, uno di quelli che ha già fatto il pieno di scuse, ogni giorno, con i ritardi sistematici, 9 su 10, del treno che prendo la mattina per venire al lavoro. Oramai lo so a memoria che Trenitalia si scusa e, per un sussulto di internazionalità (vedi i barbari di prima), lo ripete anche in inglese, Trenitalia apologizes….
Quindi le ore passano, così come i colleghi che abitano dalle nostre parti. E non succede nulla. Alle cinque e qualcosa arriva un messaggio via radio (radio Londra, quella segreta per cui non posso darvi la frequenza) che annuncia che se è vero che dall’Ostiense non partono treni per Cesano, Anguillara e Bracciano, la stazione di San Pietro, forse oramai in mano agli oppositori di Moretti, ha deciso di farli partire da lì, alla faccia nostra, di utenti dell’Ostiense.
Si dice anche, ma solo per pochi intimi, che sul primo binario ci sia un treno che partirà verso Civitavecchia e si fermerà a San Pietro.
I pochi intimi si spostano, con compostezza tutta inglese (io fra quelli, dato che ho avuto un capo inglese per oltre dieci anni). Ed eccoci lì, a correre, spintoni e sorrisi forzati e saltiamo sul treno. I pochi intimi si sono moltiplicati più dei pani e pesci di Gesù e il treno prende delle facezie dei trasporti bestiami. Essendo l’unico modo per sperare di tornare a casa, tutti quelli che arrivano dopo, tanto il treno è lì fermo, senza nessuna intenzione di partire, tutti dicevo usano la stessa scusa che anche noi, ammettiamolo, abbiamo usato in circostanze simili: gridano, gentilmente, “scorrete verso destra (o sinistra, fa lo stesso), ma non vedete che è vuoto? “. Cercar di spiegare in poche parole che il treno non è vuoto e che questo esiste solo nella mente di chi sogna di entrare magari è troppo lungo. Le negoziazioni proseguono un bel po’ finchè appare, dalla stanza segreta di cui sopra, un capotreno, il Sig. Lapalisse, che annuncia che se non gli lasciano chiudere le porte, il treno non può partire. Altra negoziazione ed alla fine si chiudono ste porte e si parte. Le sardine in scatola ringraziano, anche se già pensano alla stazione di Trastevere dove, causa il peccato originale commesso da Adamo, dobbiamo fermarci.
E difatti eccola lì la folla. Sembrano quelli appena usciti dallo stadio dopo che la squadra del cuore si è fatta stendere in casa da un avversario miserevole. Neri. E incazzati, il giusto, come lo siamo noi a dire il vero.
Si aprono le porte ed è come aprire una diga, nel senso contrario però, perché nessuno esce e tutti vogliono entrare. Non vi racconterò della signora piccoletta, un metro e poco più, che avevo a fianco mio e nessuno vedeva per cui mi strillavano di farmi più in la.. e lei sotto a gridare, “aiuto, ci sono anch’ io…”.
Concluse le negoziazioni, cioè esaurite le parolacce da una parte e dall’altra, il solito sig. Lapalisse ripete che senza chiusura delle porte, non si parte. Per cui alla fien partiamo e pian pianino andiamo verso San Pietro. Sono oltre le sei quando arriviamo. Sembra ovvio che, essendo il treno pieno di gente che vuol andare a prendere la corrispondenza verso il nord, il flusso in uscita dovrebbe essere veloce. E tutti si preparano, anche la signora piccoletta che ripete a tutti di non spingere perché c’è anche lei.
Ma una volta aperte le porte, non succede nulla. Questo a causa della paura di chi sta lì, piazzato vicino a queste porte e dovendo (lui o lei) continuare su quella linea, della paura dicevo di farsi travolgere e fregare il posto..Quindi non si muovono. Quelli fuori, che vogliono andare a Civitavecchia iniziano a spingere per entrare e insomma il casino è assicurato. Uno vede lì vicino un’ uniforme, un poliziotto o roba del genere, ma siccome fa parte di quel gruppo di comparse che stanno cercando di raggiungere Cinecittà, non è di nessun aiuto (digressione, dato che in realtà era un vero vigile, poliziotto, ma anche lui non ha la minor idea di cosa fare o dire dato che il ciccione con giubbotto arancione fosforescente accanto a lui, telefonino in mano e simbolo FFSS, sta lì a chiacchierare e l’unica informazione utile che ci da è che quel treno, l’unico treno, dove tutti ma proprio tutti ci stiamo dirigendo e cominciando ad entrare, non andrà da nessuna parte.
Scopriamo così che la stazione San Pietro non è stata presa dai rivoltosi anti-Morettiani, ma che siamo nel cuore del sistema Moretti: mai far sapere agli utenti cosa stia succedendo, cosa stanno facendo e quali siano le previsioni. Tanto sti utenti del cazzo che alternative hanno? Prendere la macchina come gli sfigati che a quell’ora ingorgano già tutte le strade di Roma e dintorni?
Infischiandocene del messaggio del ciccione, invadiamo il treno e riusciamo anche a prendere dei posti a sedere. E inizia un’altra attesa. Negoziazioni, arriva anche la polizia stavolta, e pare che alla fine abbiano deciso che sì, sto treno partirà, verso Nord. Noi qualcosa sappiamo perché siamo all’inizio del primo binario per cui il macchinista e il capotreno ogni tanto, spinti da cristiana volontà (siamo o non siamo vicini al Cupolone?), escono a darci delle briciole di informazione. L’idea di fare un annuncio per tutti gli utenti, manco per sogno.
Di colpo, nel silenzio generale (falso, in realtà dovevo scrivere nel casino generale, ma faceva meno poetico), appare un treno dalla mitica stazione Ostiense. Forse anche la hanno temuto che i rivoltosi di San Pietro gli rubassero la scena e quindi mandano un treno che, miracolo, diventa addirittura prioritario. Vi lascio immaginare le scene di chi ha tentato di uscire da questo per saltare dentro l’altro, che già arrivava con la solita folla appena uscita dallo stadio (vedi esempio precedente). Ma ci arriva la buona notizia: il nostro treno andrà su fino a Bracciano, mentre quell’altro che è già partito, si ferma a Cesano. Dato che ho dovuto lasciare la macchina ad Anguillara, la notizia mi rallegra, quasi quasi apro una bottiglia di champagne… ma non ce l’ho.
Ultimi controlli e poi andiamo, dice il capotreno (parente di quel Lapalisse di prima, ma più sfigato). Lui ce l’ha a morte con le porte e controlla venti volte che si aprano e chiudano. E’ l’unico messaggio ripetuto anche ai cani randagi: attenti, prova chiusura porte. Confermato che le porte si chiudono e si aprono, fa la prova delle luci: le accende e spegne almeno tre volte, così come accende e spegne il treno altrettante volte.
Per il resto, nulla. I 5 minuti di prima sono diventati un’ora ed è solo dopo le sette di sera che gli danno la luce verde. Si parte, abbracci, cori di evviva, insomma la festa può cominciare. Un vecchietto davanti a me tira fuori pane e salame e comincia a farsi un panino, tutto contento. Gli altri, ed io fra loro, tutti a sognare un piatto caldo e cosa troveremo appena arrivati.
La velocità è quella che è, tanto dobbiamo star dietro a quello di prima, che va avanti pianissimo e, a un certo punto, via sms, arriva il segnale temuto. Il treno davanti si è rotto e noi dobbiamo aspettare.
Eravamo quasi riusciti a raggiungere la Giustiniana, i nostri cari a casa o altrove cominciavano a respirare ed ecco, ripiombiamo a terra. In realtà le cose, come spiegava Murphy, possono sempre peggiorare. Difatti da lì a poco ci giunge voce (sms) che il treno davanti è partito e che lo faranno arrivare fino a Cesano ma poi basta. Addio sogni di gloria, Anguillara e Bracciano. Per quelli che vengono da quei posti, ma soprattutto per chi vive oltre Bracciano, non esiste un briciolo di informazione, di Piano B o C.. nada. L’unica informazione ce la da (a noi del primo vagone) il nostro amico lapalissiano: si è rotto il nostro treno e dobbiamo aspettare che ne venga su uno da Roma a spingerci.
La risposta, a parte una selva di maledizioni da far impallidire il Papa, conferma il buon senso della gente comune. Viene aperta la porta, tanto il treno da lì non si muove, treni verso Roma non ce ne sono nemmeno in sogno, per cui scendiamo e, a piedi, ci avviamo sui binari verso la stazione della Giustiniana.
Nel frattempo moglie e figlia erano riuscite a trovare un angelo, nella figura del grande Massimo, a cui dedico queste pagine, che ha preso la sua macchina, 4x4 ed è partito da Anguillara per venirmi a prendere.
Il tempo che lui venga giù, decido di farmi una cioccolata calda alla macchinetta. E lì ho l’ennesima conferma che siamo in un paese strano: la macchina prende i soldi, butta giù il liquido a gusto di cioccolato, come dice la scritta e poi, una volta terminato, manda giù il bicchiere di carta che resta lì, bello pulito e assolutamente inutile.
Alle nove e poco più finalmente seduto in macchina, ringraziando Massimo. Il ritorno è al ritmo del possibile, per strada tiriamo su altri due poveracci, sfuggiti alle morse del treno e alla fine, alle dieci, entro nel cancello di casa. Non voglio nemmeno pensare a quelle lunghe fila di luci rosse che si vedevano sulla trionfale, l notizie che arrivano dalla Cassia, e dalla Bis, con la gente bloccata dentro. Penso solo a quelli rimasti dentro il treno. In tanti siamo scesi, prima che arrivasse la polizia, ma tantissimi sono rimasti dentro.
Ceno e guardo un po’ di tele. A mezzanotte ultimo flash prima di andare a letto. Il treno è sempre là, la gente è dentro il treno e nessuno sa cosa fare.
Stamattina intanto confermeranno che quelli della Braccianese hanno passato la notte lì dentro le macchine.
Ed è subito iniziata la sfilata delle dichiarazioni: Alemanno che sostiene che gli avevano dato delle previsioni meteo di 3 centimetri e mezzo (ad Anguillara siamo più sui 40 come vedete dalla foto), subito smentito dal capo della Protezione civile. Oggi ci sarà tempo per molte altre dichiarazioni, e pochi fatti immaginiamo. Intanto adesso sto qua al caldo.. e scrivo
giovedì 2 febbraio 2012
Continuiamo la riflessione sulla proposta della territorializzazione dei Loghi/Marchi
Post precedente in data 12 gennaio 2012
Innanzitutto un GRAZIE a Catherine che mi ha segnalato l’articolo di un economista apparso sul giornale Metro data 1 febbraio, a firma Maurizio Guandalini e dal titolo: Made in Italy Jolly prezioso dove sviluppa una tesi molto vicina a quella che ho presentato nel post precedente.
L’ipotesi che faccio (e dove mi criticano) è il compratore non scelga solo in funzione del prezzo (minore) del prodotto, ma anche in funzione di un congiunto di altri parametri alcuni dei quali (per certi prodotti, non per tutti ovviamente) siano associabili a un certo Luogo, a uno “specifico” che, nel caso dei prodotti agricoli, chiamiamo Territorio. Chi critica questa impostazione parte dall’assunto che il compratore, nella crisi attuale, cerca solo il prezzo più basso. La mia controcritica è che se accettiamo questo assioma, allora non abbiamo altro da fare che chiudere bottega perché nella corsa al ribasso possiamo solo perdere. Ma per correre verso l’alto, qualitá dei prodotti etc. bisogna trovare delle idee e delle politiche che riescano a ridurre la competenza sleale, mantenendo i principi del libero mercato.
Per chi non avesse voglia di rileggere tutto il post precedente, ricorderò che l’idea era di proporre di limitare l’uso del nome (logo/marca) alla zona (più o meno grande, da discutere) dove il prodotto in questione sia stato ideato e/o sviluppato inizialmente. D’altra parte, una ditta che volesse delocalizzare la produzione in un altro paese per l’evidente vantaggio sui costi salariali, potrebbe mantenere una parte del nome (logo/marca) dovendo però aggiungere uno specificativo geografico, in modo che il compratore sia libero di portare la sua scelta, in maniera informata e trasparente, sul prodotto che più interessa. Esempio: calze Omsa, prodotte a Faenza, associate al “made in Italy” nell’immaginario del consumatore e attualmente in fase di delocalizzazione verso la Serbia con l’unica ragione del costo inferiore della variabile salariale. In questo caso le calze Omsa prodotte in Serbia dovrebbero portare il nome OMSA-Serbia, parzialmente diverso dalle OMSA originali italiane.
In questo modo si valorizza il marchio originale, lasciando una libertà di impresa e di profitto all’imprenditore, il/la quale però dovrà parzialmente tirarsi su le maniche non potendo re immettere le stesse calze Serbe, che costano meno, come se fossero state prodotte nel luogo e dagli operai/operaie che hanno sviluppato storicamente quel prodotto e che hanno, perciò, contribuito a inserirlo nell’immaginario collettivo e farlo diventare un nome (logo/marca) conosciuta.
Abbiamo già detto che ci si dovrà attendere una serie di reazioni negative, da parte del settore imprenditoriale che, inevitabilmente, avrebbe da registrare delle perdite di potere individuale, mentre dall’altro dovremmo poter registrare delle reazioni positive, da parte del settore lavorativo, data la possibilità (non certezza) di poter mantenere livelli di impiego più elevati.
Quello su cui volevo riflettere oggi riguarda altri due aspetti: da una parte il ciclo produttivo e dall’altro la questione della proprietà e dei salariati.
Partiamo dalla proprietà e dagli operai.
La “protezione” che in questo modo verrebbe data ai prodotti originali, chiaramente non interferisce col diritto di comprare e vendere la tal marca. In altre parole, i proprietari iniziali delle calze Omsa, italiani di Faenza, non sarebbero in alcun modo ostacolati nel caso volessero cedere il marchio o la proprietà a, mettiamo, un russo o un indiano. In altre parole, questa proposta non mira a difendere l’italianità delle imprese. Lo stesso si può dire per quanto riguarda la forza lavoro. La nostra ipotesi è che nel corso del tempo anche gli operai abbiano contribuito a dare suggerimenti per lo sviluppo del prodotto e che, a loro volta, abbiano sviluppato un “know-how” che in qualche modo vada riconosciuto. Ma il fatto che gli operai originali fossero probabilmente tutti italiani, non significa che questa proposta miri a difendere l’italianità della forza lavorativa. Ci si limita a proporre, nel quadro di una economia di mercato, delle misure che valorizzino l’originalità dei prodotti e della forza lavoro associata (indipendentemente dalle nazionalità degli operai/e in fabbrica), lasciando il giusto profitto nelle mani della figura imprenditoriale ma mantenendo (e retribuendolo) il lavoro salariato.
Più complicato, quando si parla di Logo, Made in .. o simili, il discorso diventa quando andiamo ad analizzare le fasi produttive e la provenienza degli inputs. Grosso modo potremmo pensare alle seguenti categorie:
1. Idea iniziale
2. Inputs necessari (materie prime – località per produrre e capitali iniziali)
3. Strategia di mercato (passaggio da prodotto anonimo a Marca)
La fase uno dovrebbe essere abbastanza facile da localizzare geograficamente (una città, regione o Paese) nel senso che la scelta viene lasciata a chi abbia avuto e sviluppato l’idea iniziale.
La questione si complica con la fase due, dato che non è più evidente che l’insieme dei fattori produttivi necessari siano prodotti nella stessa zona, anzi è molto probabile il contrario. Qui è necessario approfondire, per mettersi d’accordo fino a che livello di “estraneità” si possa accettare nella definizione di un marchio territorializzato. Chiaramente questa discussione sarà anche legata alla fase uno (per capirci: se io disegno dei vestiti particolari, frutto delle mie idee e ispirati dal luogo dove vivo, ma poi una parte importante, per non dire quasi tutta, del materiale viene importata – cotone ed altro – fino a quando posso chiamare quel prodotto come “made in ..”?
Fra l’idea iniziale e la sua riuscita commerciale (fase tre) cioè il passaggio da prodotto anonimo a Marca, ce ne corre, parecchio. Anche qui si tratta di negoziare e mettersi d’accordo per capire il peso da dare a questa variabile.
Per “territorializzare” un marchio nei settori non agricoli bisogna quindi trovare delle risposte alle domande precedenti. Proteggiamo l’idea iniziale solamente? Ma se la persona che ha avuto l’idea poi la vende ad un’altra persona di un altro paese o continente, cosa succede? Valorizziamo gli inputs?. E se sono tanti i prodotti necessari per assemblare il prodotto? Se oltre al cuoio argentino (esempio) devo metterci del cotone del Mali, il tutto per fare un vestito “etnico” che mi sono inventato e che voglio far diventare una Marca? Cosa proteggo, il cuoio argentino, il cotone del Mali o la mia idea “italiana”?
E quando poi il prodotto iniziale, grazie a una ottima strategia di marketing (realizzata da una società di pubblicità di un altro paese), passa ad essere conosciuto mondialmente, a quel punto cosa faccio? Come valorizzare il ruolo di questi ultimi?
La mia idea sarebbe quella di limitarsi a “territorializzare” l’idea iniziale, questo perché gli inputs necessari possono variare nel tempo e nello spazio, così come la sua eventuale trasmutazione da prodotto a Marca. In parole semplici: se io ho l’idea giusta (frutto dei miei anni di girovagare per il mondo, ho alimentato la mia mente di immagini e colori, torno a casa e mi metto a disegnare una linea di vestiti “etnici”), sarà questa idea qui che poi, se funziona, troverà un mercato e avrà bisogno di operai/e e uno spazio dove essere prodotta. Poi sarà il mercato a dire quali prodotti di questa linea funzioneranno meglio (e quindi si modificano le materie prime eventualmente, dal cotone al lino o alla lana etc..). Se questa idea quindi troverà un mercato, e i consumatori cominceranno a cercare “quei” vestiti, allora da “prodotto’ comincerà ad essere trattata come “Marca”. A quel punto io potrei decidere di ingrandire la fabbrica oppure di delocalizzare. In questo modo, facendo il furbetto, produco a costo minore e piazzo il prodotto sugli stessi mercati dove piazzavo quello precedente. Risultato, io sviluppo la parte del profitto e non quello della ricerca continua, gli operai iniziali si ritrovano senza lavoro e quindi di fronte a un vantaggio personale mio troviamo uno svantaggio sociale maggiore.
Limitando il diritto di uso della Marca, cioè “territorializzandola”, a quel punto i miei vestiti fatti a casa mia continuerebbero a chiamarsi così, mentre per gli altri, che avrebbero il nome del paese di produzione, mi obbligherebbe a pensare come sviluppare per loro una strategia di marketing adeguata, forzandomi quindi a restare nella competizione di idee (ricerca / sviluppo) per poter restare sul mercato e riducendo il margine speculativo.
Critiche e suggerimenti sono i benvenuti.
Innanzitutto un GRAZIE a Catherine che mi ha segnalato l’articolo di un economista apparso sul giornale Metro data 1 febbraio, a firma Maurizio Guandalini e dal titolo: Made in Italy Jolly prezioso dove sviluppa una tesi molto vicina a quella che ho presentato nel post precedente.
L’ipotesi che faccio (e dove mi criticano) è il compratore non scelga solo in funzione del prezzo (minore) del prodotto, ma anche in funzione di un congiunto di altri parametri alcuni dei quali (per certi prodotti, non per tutti ovviamente) siano associabili a un certo Luogo, a uno “specifico” che, nel caso dei prodotti agricoli, chiamiamo Territorio. Chi critica questa impostazione parte dall’assunto che il compratore, nella crisi attuale, cerca solo il prezzo più basso. La mia controcritica è che se accettiamo questo assioma, allora non abbiamo altro da fare che chiudere bottega perché nella corsa al ribasso possiamo solo perdere. Ma per correre verso l’alto, qualitá dei prodotti etc. bisogna trovare delle idee e delle politiche che riescano a ridurre la competenza sleale, mantenendo i principi del libero mercato.
Per chi non avesse voglia di rileggere tutto il post precedente, ricorderò che l’idea era di proporre di limitare l’uso del nome (logo/marca) alla zona (più o meno grande, da discutere) dove il prodotto in questione sia stato ideato e/o sviluppato inizialmente. D’altra parte, una ditta che volesse delocalizzare la produzione in un altro paese per l’evidente vantaggio sui costi salariali, potrebbe mantenere una parte del nome (logo/marca) dovendo però aggiungere uno specificativo geografico, in modo che il compratore sia libero di portare la sua scelta, in maniera informata e trasparente, sul prodotto che più interessa. Esempio: calze Omsa, prodotte a Faenza, associate al “made in Italy” nell’immaginario del consumatore e attualmente in fase di delocalizzazione verso la Serbia con l’unica ragione del costo inferiore della variabile salariale. In questo caso le calze Omsa prodotte in Serbia dovrebbero portare il nome OMSA-Serbia, parzialmente diverso dalle OMSA originali italiane.
In questo modo si valorizza il marchio originale, lasciando una libertà di impresa e di profitto all’imprenditore, il/la quale però dovrà parzialmente tirarsi su le maniche non potendo re immettere le stesse calze Serbe, che costano meno, come se fossero state prodotte nel luogo e dagli operai/operaie che hanno sviluppato storicamente quel prodotto e che hanno, perciò, contribuito a inserirlo nell’immaginario collettivo e farlo diventare un nome (logo/marca) conosciuta.
Abbiamo già detto che ci si dovrà attendere una serie di reazioni negative, da parte del settore imprenditoriale che, inevitabilmente, avrebbe da registrare delle perdite di potere individuale, mentre dall’altro dovremmo poter registrare delle reazioni positive, da parte del settore lavorativo, data la possibilità (non certezza) di poter mantenere livelli di impiego più elevati.
Quello su cui volevo riflettere oggi riguarda altri due aspetti: da una parte il ciclo produttivo e dall’altro la questione della proprietà e dei salariati.
Partiamo dalla proprietà e dagli operai.
La “protezione” che in questo modo verrebbe data ai prodotti originali, chiaramente non interferisce col diritto di comprare e vendere la tal marca. In altre parole, i proprietari iniziali delle calze Omsa, italiani di Faenza, non sarebbero in alcun modo ostacolati nel caso volessero cedere il marchio o la proprietà a, mettiamo, un russo o un indiano. In altre parole, questa proposta non mira a difendere l’italianità delle imprese. Lo stesso si può dire per quanto riguarda la forza lavoro. La nostra ipotesi è che nel corso del tempo anche gli operai abbiano contribuito a dare suggerimenti per lo sviluppo del prodotto e che, a loro volta, abbiano sviluppato un “know-how” che in qualche modo vada riconosciuto. Ma il fatto che gli operai originali fossero probabilmente tutti italiani, non significa che questa proposta miri a difendere l’italianità della forza lavorativa. Ci si limita a proporre, nel quadro di una economia di mercato, delle misure che valorizzino l’originalità dei prodotti e della forza lavoro associata (indipendentemente dalle nazionalità degli operai/e in fabbrica), lasciando il giusto profitto nelle mani della figura imprenditoriale ma mantenendo (e retribuendolo) il lavoro salariato.
Più complicato, quando si parla di Logo, Made in .. o simili, il discorso diventa quando andiamo ad analizzare le fasi produttive e la provenienza degli inputs. Grosso modo potremmo pensare alle seguenti categorie:
1. Idea iniziale
2. Inputs necessari (materie prime – località per produrre e capitali iniziali)
3. Strategia di mercato (passaggio da prodotto anonimo a Marca)
La fase uno dovrebbe essere abbastanza facile da localizzare geograficamente (una città, regione o Paese) nel senso che la scelta viene lasciata a chi abbia avuto e sviluppato l’idea iniziale.
La questione si complica con la fase due, dato che non è più evidente che l’insieme dei fattori produttivi necessari siano prodotti nella stessa zona, anzi è molto probabile il contrario. Qui è necessario approfondire, per mettersi d’accordo fino a che livello di “estraneità” si possa accettare nella definizione di un marchio territorializzato. Chiaramente questa discussione sarà anche legata alla fase uno (per capirci: se io disegno dei vestiti particolari, frutto delle mie idee e ispirati dal luogo dove vivo, ma poi una parte importante, per non dire quasi tutta, del materiale viene importata – cotone ed altro – fino a quando posso chiamare quel prodotto come “made in ..”?
Fra l’idea iniziale e la sua riuscita commerciale (fase tre) cioè il passaggio da prodotto anonimo a Marca, ce ne corre, parecchio. Anche qui si tratta di negoziare e mettersi d’accordo per capire il peso da dare a questa variabile.
Per “territorializzare” un marchio nei settori non agricoli bisogna quindi trovare delle risposte alle domande precedenti. Proteggiamo l’idea iniziale solamente? Ma se la persona che ha avuto l’idea poi la vende ad un’altra persona di un altro paese o continente, cosa succede? Valorizziamo gli inputs?. E se sono tanti i prodotti necessari per assemblare il prodotto? Se oltre al cuoio argentino (esempio) devo metterci del cotone del Mali, il tutto per fare un vestito “etnico” che mi sono inventato e che voglio far diventare una Marca? Cosa proteggo, il cuoio argentino, il cotone del Mali o la mia idea “italiana”?
E quando poi il prodotto iniziale, grazie a una ottima strategia di marketing (realizzata da una società di pubblicità di un altro paese), passa ad essere conosciuto mondialmente, a quel punto cosa faccio? Come valorizzare il ruolo di questi ultimi?
La mia idea sarebbe quella di limitarsi a “territorializzare” l’idea iniziale, questo perché gli inputs necessari possono variare nel tempo e nello spazio, così come la sua eventuale trasmutazione da prodotto a Marca. In parole semplici: se io ho l’idea giusta (frutto dei miei anni di girovagare per il mondo, ho alimentato la mia mente di immagini e colori, torno a casa e mi metto a disegnare una linea di vestiti “etnici”), sarà questa idea qui che poi, se funziona, troverà un mercato e avrà bisogno di operai/e e uno spazio dove essere prodotta. Poi sarà il mercato a dire quali prodotti di questa linea funzioneranno meglio (e quindi si modificano le materie prime eventualmente, dal cotone al lino o alla lana etc..). Se questa idea quindi troverà un mercato, e i consumatori cominceranno a cercare “quei” vestiti, allora da “prodotto’ comincerà ad essere trattata come “Marca”. A quel punto io potrei decidere di ingrandire la fabbrica oppure di delocalizzare. In questo modo, facendo il furbetto, produco a costo minore e piazzo il prodotto sugli stessi mercati dove piazzavo quello precedente. Risultato, io sviluppo la parte del profitto e non quello della ricerca continua, gli operai iniziali si ritrovano senza lavoro e quindi di fronte a un vantaggio personale mio troviamo uno svantaggio sociale maggiore.
Limitando il diritto di uso della Marca, cioè “territorializzandola”, a quel punto i miei vestiti fatti a casa mia continuerebbero a chiamarsi così, mentre per gli altri, che avrebbero il nome del paese di produzione, mi obbligherebbe a pensare come sviluppare per loro una strategia di marketing adeguata, forzandomi quindi a restare nella competizione di idee (ricerca / sviluppo) per poter restare sul mercato e riducendo il margine speculativo.
Critiche e suggerimenti sono i benvenuti.
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