Il feeling col nuovo capo, Marcos Lins, fu immediato, per cui iniziammo subito a preparare un primo progetto in appoggio all’Istituto di Terra (responsabile della riforma agraria) nello stato di San Paolo in Brasile. Va detto che in Brasile, stato federale, esistono territori di competenza federale, per cui l’Istituto Nazionale della Colonizzazione e Riforma Agraria (INCRA) ha competenza esclusiva, ed altre terre che sono statali per cui, su proposta della banca mondiale (una di quelle proposte che non si potevano rifiutare), tutti gli stati della federazione avevano creato degli istituti di terra. Frammentare le responsabilità in mille rivoli, e con istituzioni fragili e controllabili politicamente, era un buon sistema per evitare che del tema della riforma agraria se ne parlasse ai piani alti.
Anche qui serve ricordare che il ritorno alla democrazia del Brasile nel 1985 era stato frutto di lotte civili da parte di una popolazione rianimata non solo nelle città ma anche e soprattutto nelle campagne, grazie alla creazione, con l’appoggio decisivo di settori di base della Chiesa Cattolica (Commissione Pastorale della Terra), del movimento dei lavoratori senza terra (MST). Di chiara ispirazione sinistrorsa, il MST fu da subito individuato dalla Banca mondiale come il pericolo pubblico numero uno. La frammentazione istituzionale permetteva quindi di portare avanti una strategia gattopardesca senza che nulla cambiasse.
Voglio anche ricordare che negli anni precedenti la Banca mondiale si era mossa per convincere i governi latinoamericani (e il brasiliano in particolare) ad eliminare il sistema pubblico di assistenza tecnica ai contadini, aprendo la via alla privatizzazione dei servizi come desiderato dal mondo agroindustriale. Questa operazione era uno dei tre pilastri delle politiche di aggiustamento strutturale che negli anni 80 la Banca e il Fondo Monetario imposero a un sinnumero di paesi del sud del mondo (oltre a tagliare l’assistenza tecnica ai contadini, le altre due “perle” furono i tagli al settore della sanità pubblica e quelli al settore educativo).
In Brasile, come in gran parte dei paesi della regione, il tema della riforma agraria si era impantanato in un grumo di errori, incapacità tecniche, scontri politici e chi più ne ha più ne metta.
Negli anni di cui sto parlando il Brasile era rimasto l’unico grande paese latinoamericano (con il suo pendant filippino in asia) a mantenere aperta questa politica, criticatissima da tutto il mondo conservatore, nazionale e internazionale. Fu quasi per caso che, nel mezzo delle solite discussioni politico-ideologiche in Brasile, il nostro rappresentante nel paese, un conservatore austriaco integerrimo e dedicato anima e corpo all’organizzazione, propose di far fare una valutazione dei risultati del programma di riforma agraria messo in atto dal momento del ritorno a un regime democratico. Il PNUD mise a disposizione le risorse finanziarie (come era solito fare negli anni precedenti, prima di diventare uno dei maggiori competitor interni alle varie agenzie tecniche dell’ONU) e la FAO incaricò una squadra di specialisti di eseguire il lavoro.
La solidità dell’impianto di lavoro fu fondamentale per fronteggiare le ondate di critiche che arrivarono una volta pubblicati i risultati. La domanda centrale era abbastanza semplice: investire soldi pubblici nella riforma agraria, crea reddito per i contadini beneficiari? Le attese erano quasi tutte negative, ma al contrario emersero dei valori più positivi di quanto si pensasse. A parte gli attacchi della destra, i più virulenti vennero ovviamente dalla Banca mondiale che però, una volta analizzato fin nei minimi dettagli l’approccio proposto, dovette ammettere che i risultati erano corretti. Fu questo un momento storico perché significava che il tema riformista usciva dalle chiacchiere da bar per entrare nel mondo della vera politica, cioè nei ministeri dove si gestivano i soldi e laddove si prendevano decisioni di giustizia.
Accettato il fatto che i nuovi assentamentos creavano lavoro e reddito, le scuse si spostarono sul costo dell’operazione, ma oramai la diga era aperta. Le modalità di creazione di questi nuovi assentamentos erano di due grandi tipi: da un lato una specie di regolarizzazione ex-post di terreni invasi dai movimenti sociali (terreni occupati per lo più illegalmente da grandi proprietari che avevano anche inventato un sistema tipicamente brasiliano per fabbricare vecchi titoli di proprietà risalenti all’epoca coloniale (una volta scritti su carta i dati essenziali, riferiti all’epoca e al terreno in questione, queste carte venivano racchiuse in scatole di cartone assieme a dei grilli che, con la loro azione, invecchiavano naturalmente i titoli facendoli sparire come vecchi di secoli - da lì l’espressione di “grillagem” che ha caratterizzato queste operazioni). L’altra modalità era quella di creare degli assentamentos ex-novo in terre dello stato (federali o statali). Una parte della battaglia (e delle corruzioni, va detto) riguardava le liste degli assegnatari, e un’altra si riferiva a che tipo di produzioni mettere in atto.
Ricordiamo che all’epoca non esisteva nel dibattito pubblico o accademico, alcun riferimento ai piccoli contadini che, in molte regioni del paese, costituivano una parte importante della realtà agraria. Di conseguenza i tecnici degli istituti di riforma agraria pensavano a tavolino quali fossero le produzioni più adatte, sulla base delle vecchie indicazioni della FAO (pianificazione fisica delle terre) e con un occhio anche alle priorità politiche dei governi in causa. L’adeguazione di queste proposte alle realtà locali era molto aleatoria perché non basata su nessun diagnostico reale delle realtà tecniche e produttive esistenti.
Facendo seguito al primo lavoro, capitanato dal professor Carlos Guanziroli, il primo progetto che proponemmo per migliorare le capacità dei tecnici nella formulazione delle proposte per i nuovi assentamentos, si basò sull’approccio sistemico che avevo messo a punto negli anni precedenti.
Il lavoro lo svolgemmo in una delle aree più conflitti dello stato di San Paolo, il Pontal de Paranaparema dove noi tecnici FAO avevamo bisogno di una “security clearance” per andare sul terreno. Questo a casa dei violentissimi scontri tra latifondisti e movimenti dei senza terra (MST e altri). Fu possibile introdurre un primo livello di analisi fatta sulla base delle pratiche conosciute e messe in atto l’inverno degli assentamentos dagli stessi contadini, nonché un minimo di modellizzazione dei vari itinerari tecnici, sistemi di coltura e allevamento nonché, a livello superiore, dei sistemi di produzione. Questo permetteva di avere un’idea dei rischi incorsi dai contadini, i possibili redditi e le possibili piste di azione tecnica e economica per le politiche dello stato (che colture sovvenzionare, che inputs, che mercati prospettare…).
Questa esperienza permise un altro salto di qualità, fornendo degli strumenti più adeguati ai tecnici nonché una base più concreta sulla quale discutere di produzioni e prezzi. Riuscimmo a replicare il lavoro anche in altre parti del paese (Maranhao e Sergipe) così come ad aprire progetti simili in vari altri paesi della regione.
Parallelamente con la fase di implementazione, continuavamo a stimolare un processo interno di riflessione su quello che osservavamo e sulle realtà locali, nonché sui possibili limiti del nostro stesso approccio. Uno dei problemi era (e resta ancora oggi) legato alla necessità di avere una preparazione di base sull’approccio sistemico che permetta ai tecnici di essere qualcosa di più di semplici esecutori. Nell’assenza totale (o quasi) di scuole di riferimento nella regione, questo ci fece decidere di cercare maggiori contatti col mondo universitario (sia brasiliano che negli altri paesi) allo scopo di promuovere un meticciamento reciproco: ricevere stimoli, suggerimenti e correzioni e dall’altra parte far sì che anche loro assumessero i principi di base dell’approccio dentro le loro università. Era un approccio pragmatico, dettato dalla realtà che ci imponeva di tener conto di quali fossero le scuole di formazione di quei tecnici. L’altro limite riguardava i dati stessi sui quali realizzare le modellizzazioni. Come detto precedentemente, la nostra scuola si differenziava da quella americana per l’importanza data ai processi storici e per il limitato interesse per le analisi statistiche. L’idea di fondo era quella di avvicinare gli “osservati” (i contadini) agli “osservatori” (i tecnici). A noi interessava conoscere le pratiche agricole, gli itinerari tecnici messi in opera, e il perché di quelle sequenze e di quelle pratiche, nonché ovviamente come erano variati i risultati nel tempo e perché (nell’opinione dei contadini). Operazioni che prendevano tempo e che quindi riducevano il campione di aziende e famiglie con cui lavorare. La scuola americana non si interessava a questi problemi e a loro bastava mandare in giro delle persone addestrate a riempire questionari, dopodiché l’esperto li analizzava con i suoi computer nei suoi uffici e estraeva le verità finali. Esattamente l’opposto di quanto interessava a noi. Lavorare a contatto voleva dire entrare in empatia con loro, capirne le ragioni di fondo e non applicare ricette ideologiche ai fatti che stavamo osservando. Non fu sempre facile perché il rischio ideologico era ben presente, ma qualcosa riuscimmo a fare. Il punto era che osservavamo delle famiglie che erano insediate da poco in questi assentamentos le cui conoscenze biofisiche del territorio erano a volte limitate, per non dire delle famiglie di senza terra originarie di atre regioni dello stesso stato. Insomma, il rischio di capire bene una realtà sbagliata era ben presente.
Fu l’osservazione dell’intorno microregionale a darci l’idea che oggi sembra cosa ovvia. Dato che in tutte le zone dove ci chiedevano di lavorare verificavamo la presenza di ampli strati di coltivatori diretti di piccole e medie dimensioni, che non avevano nessun rapporto con gli istituti della riforma agraria (federali o statali) e che ricevevano pochissimo o nullo appoggio da parte del ministero dell’agricoltura (storicamente da sempre dominato e guidato dagli interessi del grande agribusiness), proponemmo di cominciare a studiare meglio quell’intorno di coltivatori che vivevano e lavoravano già in quelle zone. Alla base, avevamo sia una intenzione di tipo utilitaristico (proporre qualcosa che avesse già dimostrato di funzionare in quelle regioni, sia tecnicamente che per esigenze di mercato) sia una intenzione più alta, istituzionale, cioè creare dei ponti fra i servizi della riforma agraria e quelli dell’agricoltura tout court.
A mano a mano che arricchivamo i diagnostici con le informazioni provenienti da questo mondo di coltivatori diretti, ci rendevamo anche conto della loro assoluta irrilevanza politica. Il ministero dell’agricoltura non li considerava degni di nota, non ricevevano più assistenza tecnica (grazie alle forzature della Banca mondiale) e per quanto riguarda gli istituti della riforma agraria non erano soggetti di nota in quanto loro avevano già della terra, anche se poca.
Nel frattempo erano successi anche dei cambiamenti interni nel mio servizio. Malgrado i risultati importanti ottenuti, il contratto del capo servizio non venne rinnovato per cui se ne tornò in Brasile dove gli venne proposto di andare a dirigere l’INCRA. A essere onesti, per noi fu un colpo di fortuna perché permise alla FAO di mettere le basi per un lavoro lungo e proficuo di assistenza tecnica su questi temi, usando fondi propri all’istituto (i progetti precedenti erano stati finanziati dalla stessa FAO su fondi propri). Il programma era ovviamente centrato sugli assentamentos della riforma agraria e fu grazie a quel salto di qualità che potemmo lavorare in parecchie regioni del paese. A quel punto però il problema si pose: secondo noi era necessario riorientare il programma verso questa agricoltura contadina che trovavamo un po’ dappertutto. Questo perché dal nostro punto di vista il programma di riforma agraria doveva servire per permettere a degli agricoltori senza terra di cominciare a sviluppare la loro agricoltura familiare (con varie modalità, individuale, cooperativa etc.) e quindi entrare a far parte di quest’altra realtà, che andava quindi conosciuta. La riforma agraria doveva quindi avere un inizio e una fine per cui da un lato era necessario lavorare su indicatori che permettessero di decidere quando l’aiuto statale (via il programma di riforma agraria) doveva cessare, in modo che altri beneficiari potessero usufruirne, e dall’altro cosa fare una volta che le famiglie uscivano dal girone della riforma agraria (che istituzioni avrebbero proseguito il lavoro, su che basi istituzionali e con che fondi).
Fu questo il momento più critico sia con la dirigenza dell’INCRA, che con i movimenti contadini nonché con un settore del mondo accademico. A livello INCRA trovavano difficile da giustificare l’uso di risorse proprie per fini che andavano oltre il mandato dell’istituto, anche se si capiva la logica della proposta. Va detto che esistevano anche delle ovvie gelosie interne che non facilitavano questo dialogo. Per quanto riguarda i movimenti contadini, non fu mai possibile avere una discussione chiara e franca su questi temi perché nella realtà molti di questi assentamentos erano diventati dei centri di potere politico e anche economico per questi stessi movimenti. Nei fatti esisteva una distribuzione geografica degli assentamentos, alcuni afferenti a un movimento, altri ad un altro e così via. I fondi a disposizione delle istituzioni federali e statali per aiutare le famiglie passavano attraverso le organizzazioni dei movimenti, per cui l’uso strumentale era diventato la norma. Poca trasparenza, condizioni necessarie del tipo di appoggiare la lotta politica del movimento di riferimento per avere diritto a ricevere dei fondi ai quali avevano diritto in ogni caso… Per cui, quando ponemmo sul piatto il tema della durata dell’appoggio statale per ogni assentamento, con data di inizio ma anche con indicatori per decidere la fine del programma (e quindi degli aiuti), ovviamente le resistenze furono moltissime e trasversali (e opache). Tanto che, fino ad oggi, non si è ancora arrivati a mettersi d’accordo su quegli indicatori di base, per cui si sa quando si comincia ma non si sa quando si finisce. Questo ha implicazioni che vanno oltre l’aspetto economico (che non è poco), e riguardano la visione del mondo contadino e il ruolo che le “masse” contadine dovrebbero rivestire in un processo di sviluppo (o di rivoluzione). Su questo tema, e sul ruolo in particolare degli agricoltori “familiari” (coltivatori diretti), si sono divise le forze della sinistra europea e mondiale, con la vittoria di chi li considerò storicamente come elementi negativi per il sogno rivoluzionario, per cui non si poteva accettare di passare da un’ottica di riforma agraria a un’ottica che fosse di riforma agraria e agricoltura familiare. Ritorneremo su questo argomento nei prossimi post.
Finalmente, un ostacolo duro riguardò una parte del mondo accademico. Benché molti dei più autorevoli economisti agrari, sociologi, geografi etc. fossero d’accordo con la nostra posizione, fummo richiesti di discuterne anche con le teste pensanti della sinistra agraria marxista. Ci trovammo di fronte a posizioni che riflettevano quel posizionamento storico della socialdemocrazia europea emersa dalla fine del ‘800 in Germania e poi negli altri paesi europei e cioè l’irrilevanza storica e politica dell’agricoltura familiare. Ragion per cui ci venne consigliato di lasciar perdere.
Malgrado tutte queste resistenze, la nostra proposta di ridirezionare (parzialmente) il programma venne accettata. In quegli anni ci dedicammo quindi a portare il lavoro di diagnostico delle micro realtà locali ad una scala superiore, sulla base di un macro zoneamento del paese. Questo produsse una serie di documenti (vedi foto) che vennero discussi regione per regione con tutte le forze vive interessate al tema.
La squadra di lavoro andò ampliandosi, attirando una serie di specialisti di diversa origine, con un mix di universitari, tecnici dell’INCRA e/o di istituti di terra statali, consulenti indipendenti e organizzazioni della società civile.
La reputazione del lavoro in corso crebbe col tempo sia all’interno delle istituzioni governative brasiliane sia in altri paesi della regione dove, grazie alla presenza di altri progetti in appoggio al tema della riforma agraria, ebbi modo di far conoscere l’approccio detto DSA (Diagnostico di Sistemi Agrari - http://www.incra.gov.br/media/reforma_agraria/guia_metodologico.pdf). Un momento chiave fu quando, nell’aprile del 1996, un gruppo di senza terra venne massacrato da poliziotti nella località di Eldorado dos Carajàs nello stato del Parà. Il Parà è uno stato che, per quanto riguarda le zone rurali, è rimasto fermo ai primi anni del medioevo (e con questo penso essere anche molto ottimista): anni dopo ci tornai in missione con una collega dell’ILO per formulare un possibile progetto congiunto e ci trovammo a discutere con una dei giovani giudici che avevano appena preso funzione nel centro del paese. La giudice voleva lottare contro la schiavitù imposta dai grandi proprietari fondiari ai poveri lavoratori provenienti dalle regione del nordest. Ci raccontava delle discussioni avute con questi soggetti il giorno che li portava in carcere (da dove uscirono ben presto): loro insistevano che fosse lei a non capire il bene che loro stavano facendo a quei poveracci, offrendogli un posto dove vivere e un pasto per mangiare in cambio della loro forza lavoro. A un sindacalista che osò mettersi contro, il trattamento fu molto radicale: venne legato e, vivo, messo dentro la carcassa di una vacca mandata al macello. Venne tagliato a pezzi. Questo per farvi capire come i regolamenti a base di fucili e pistole dalla parte del potere contro manifestanti armati di bastoni e falci era considerata cosa comune. Ne vennero uccisi 19 e l’eco mondiale fu realmente impressionante, tanto che il presidente della repubblica dovette correre ai ripari e creare, in fretta e furia, un Ministero Straordinario per la Politica Fondiaria. Venne nominato ministro un ex-componente del partito comunista (attualmente ministro della difesa del governo presieduto da Temer - questo è il Brasile). Raul Jungmann era totalmente nuovo al tema agrario, per cui ci chiese subito consiglio. Fortuna volle che in questo nuovo ministero ci fosse il tema della riforma agraria (con l’INCRA) e poi una certa flessibilità su cos’altro metterci.
Fu in quel contesto che potemmo far conoscere ai piani alti la questione alla quale stavamo lavorando e cioè la caratterizzazione dell’agricoltura familiare e della sua necessaria entrata nell’agenda governativa. Al ministro ovviamente servivano delle evidenze numeriche, ben conscio come una parte accademica da cui lui stesso proveniva, considerava questo tema come non avere “espressione politica”. La proposta che gli facemmo fu quella di rifare un tiraggio dei dati bruti del censimento agricolo, sulla base di una pre-tipologia e di alcune caratteristiche che sarebbero state messe a punto dalla squadra del programma FAO-INCRA. Il gruppo venne integrato con alcuni esperti statistici, come Alberto di Sabbato, nonché uno dei pezzi da novanta del mondo accademico, José Elì da Veiga. Del gruppo facevano già parte altri conosciuti specialisti del tema, Ricardo Abramovay, Antonio Buainain, Ademar Romeiro, Gervasio de Rezende, Shigeo Shiki, Adriana Freitas, Adolfo Hurtado, nonché un paio di amici (Valter Bianchini e Gilson Bittencourt) originari di un Think-tank del Paranà che lavorava in appoggio al MST. La loro estrazione era però diversa, più orientati al tema dell’agricoltura familiare che agli assentamentos. Uno di loro in particolare, Valter, era un vecchio amico del candidato alla presidenza Lula, cosa che permetteva di far conoscere i nostri lavori non solo al governo in carica, presieduto da Fernando Hernrique Cardoso, ma anche al contendente storico, Lula.
Con l’appoggio del ministro ottenemmo tutte le autorizzazioni necessarie per accedere ai dati bruti del censimento. Un nuovo tiraggio venne organizzato sulla base delle pre-tipologie e i risultati arrivarono da lì a poco. I dati che emersero, un orizzonte di oltre 4 milioni di famiglie classificabili come agricoltori familiari, ebbe lo stesso impatto del lavoro svolto anni prima sugli assentamentos della riforma agraria. Basti dire che, ancora oggi, oltre 20 anni dopo, quei dati sono la base, nazionale e regionale, per le politiche e i programmi che sono stati sviluppati (vedi foto libro di Bianchini presentato in FAO nel settembre del 2016 nel quadro del seminario su GreeNTD).
Il numero era molto alto, aldilà delle aspettative (sia da una parte che dall’altra), per cui si impose da sé come giustificazione di base per diventare un attore politico. Nacque così, attraverso un decreto del presidente Cardoso, il programma nazionale per l’agricoltura familiare (PRONAF). La proposta che avevamo preparato come progetto era più ambiziosa, sistemica diremmo oggi, ma poi una cosa il lavoro dei tecnici altro quello dei politici. Per cui il Pronaf nacque essenzialmente con una finalità di canalizzare del credito agli agricoltori familiari. Fu merito quasi esclusivo penso io di Valter Bianchini di esser riuscito a riportare in voga anche il tema abbandonato dell’assistenza tecnica, cosa che fu possibile una volta che iniziò la presidenza Lula e che Valter fu nominato Segretario di Stato all’agricoltura familiare. Altro pregio, e non da poco fu quello di vincolare il tema dell’educazione rurale all’assistenza tecnica, in modo da associare anche le scuole e i licei tecnici al nuovo programma. Ciliegina sulla torta, quando divenne chiara la necessità di correggere i problemi iniziali del programma Bolsa Familia (che nei primi anni della presidenza Lula venne chiamato con un nuovo nome, Fome Zero, per poi tornare nell’alveo storico di quello che era stato nell’epoca di Cardoso), Valter suggerì di collegare i due programmi, in modo che il sistema di acuisti di prodotti alimentari di base che realizzava il governo fosse fatto con priorità con gli agricoltori del Pronaf, in modo da garantire uno sbocco certo a prezzi garantiti in caso non fossero riusciti a vendere a prezzi migliori sul mercato.
Se le cose andavano bene in Brasile (intendiamoci, nel senso di legare il lavoro di terreno con una influenza certa nelle politiche nazionali) e se questi temi iniziavano ad interessare altri paesi, non altrettanto le cose funzionavano bene a Roma. Come parte degli esercizi di riforma periodica che bisogna fare per mostrare di seguire le mode del momento, venne creato un nuovo dipartimento al quale venimmo affiliati, con un nuovo nome. La storia iniziò ufficialmente nel 1994, ma ha le sue radici in anni precedenti e per me ebbe un momento topico successivamente, nel 1997. Come ho già avuto modo di dire e scrivere, il tema della riforma agraria stava molto indigesto a una serie di paesi del nord di chiaro orientamento neoliberale. Sulla scorta della caduta del muro di Berlino e del frantumarsi dell’Unione Sovietica, con un approccio simile a quello di Fukuyama (La fine della storia), qualcuno nel governo americano deve aver pensato che era giunto il momento di fare i conti anche col tema “comunista” per eccellenza. Fu così che cominciò a circolare in FAO quella che sarebbe stata la proposta del governo americano nella conferenza del 1993 e cioè di chiedere la eliminazione di due servizi considerati oramai inutili da parte loro. Il primo era quella che si occupava dell’assistenza ai contadini (rural extension) e il secondo il nostro, della riforma agraria.
Dalla ricerca di giustificazioni da poter offrire al nostro capo dipartimento dell’epoca per poter difendere il mantenimento del gruppo, nacque l’idea che col tempo è diventata il Land Portal (www.landportal.info) - anche su questo ritorneremo in futuro. Riuscimmo a salvarci, cambiando nome e perdendo il riferimento alla riforma agraria (il nuovo nome era Land Tenure Service), e ci ritrovammo così in una nuova divisione (Sviluppo Rurale) con un nuovo direttore che sarebbe arrivato nel 1994. L’unico posto dove rimaneva vivo il riferimento alla riforma agraria era nella rivista che la FAO pubblicava dal 1963 (su lodevole iniziativa del vecchio amico Prof. Ryad El Ghonemi). Io venni nominato responsabile nel 1992 e ne rimasi editore principale per molti anni finché il capo inglese dell’epoca, Paul Munro Faure, riuscì ad interrare definitivamente il tema della riforma agraria in FAO.
Il nuovo direttore dello sviluppo rurale veniva dal Messico. All’epoca non avevamo ancora internet e compagnia per cui dovevamo fidarci delle voci di corridoio, che lo presentavano come un uomo di sinistra, ex responsabile della riforma agraria in Messico. Col senno di poi ci rendemmo conto che più che di sinistra era un personaggio sinistro. Maoista di base, era arrivato al governo dei fratelli Salinas de Gortari (https://lasillarota.com/nacion/los-escandalos-de-la-familia-salinas-de-gortari/184125) con la chiara intenzione di aprire le strade del mercato asimmetrico delle risorse naturali ai capitali nazionali e stranieri. Fu il promotore della riforma costituzionale che i lider contadini dell’epoca giudicarono come la più antirivoluzionaria degli ultimi 70 anni (http://www.proceso.com.mx/158167/la-contrarreforma-agraria-en-marcha). Era un personaggio tipico di quell’America latina che nasce incendiaria per morire pompiere. La sua strategia interna fu come quella del lupo che si nascondeva sotto pelli di pecora. Innanzitutto scoprire chi fossero gli “intellettuali” del gruppo, capire se li poteva blandire o, in caso contrario, eliminarli. A me toccarono una serie di scontri non da poco ma, essendo uscito vivo dalle critiche di Mazoyer il giorno stesso del mio dottorato, avevo delle difese abbastanza solide.
All’inizio cercò di togliermi la responsabilità tecnica del programma brasiliano, con pretesti che non stavano in piedi. Per due volte il Ministro Jungmann venne a Roma, in visita alla Santa Sede (erano i giorni quando si stava pubblicando il documento del Vaticano (Consiglio Giustizia e Pace9 sul tema terra
(http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/justpeace/documents/rc_pc_justpeace_doc_12011998_distribuzione-terra_en.html) e il presidente Cardoso temeva che ci fossero riferimenti molto espliciti al caso del massacro di Eldorado dos Carajàs. Il ministro venne anche alla FAO per incontri ufficiali e non. Ci vedemmo in quell’occasione e mi confermò aver detto chiaramente al mio direttore di lasciarmi libero di lavorare in Brasile dato che il mio lavoro era molto apprezzato. La seconda volta che il lupo mannaro cercò di buttarmi fuori fu quando, dopo un periodo di pausa, venni convocato per essere informato che ai piani alti avevano deciso di aprire il concorso per il posto che occupavo da anni, in modo, mi disse, da regolarizzare la mia posizione. Io ero ancora giovane e ingenuo, convinto che la qualità del lavoro e l’appoggio espresso da governi come il brasiliano e il filippino fossero sufficienti. In realtà fu proprio lì quando cercò di mandare avanti, nella short list finale, due persone che non avevano requisiti compatibili con quelli richiesti, mentre io ero stato messo all’ultimo posto.
Queste cose le venni a sapere anni dopo da una collega pensionata che aveva fatto parte del comitato di selezione il giorno quando passò il mio caso. Dovete sapere che le liste che vengono mandate con i vari candidati, devono essere controfirmate da un capo dipartimento, come è giusto, in modo che sia chiaro che non si tratta di scelte personali di un direttore o direttrice. Nel mio caso quindi fu anche il capo dipartimento, uno di quei socialisti francesi che è meglio perdere che trovare, sicuramente un Macronista, Henri Carsalade, detto “Napoleone”, a controfirmare quelle proposte. Mi venne detto che essendo ben poca cosa le altre candidature, non ci furono esitazioni a mettere il mio nome per primo, ma decisero ugualmente di chiamare al telefono il direttore (che in quei momenti deve essere raggiungibile) per chiedergli il perché di quelle scelte che non avevano ne capo ne coda.
Il giorno seguente venni chiamato dal capo dipartimento che, con una faccia da funerale, fu costretto ad annunciarmi che avevo vinto io il posto, ma che non voleva più sentir parlare di rogne fra me e il direttore. Ovviamente, e cortesemente, gli feci notare che se “rogne” c’erano state, erano tutte iniziate da parte sua. Da quel giorno mi guadagnai un nemico eterno, il messicano, nonché una quasi impossibilità di lavorare in America Latina.
Fu così che all’apogeo del lavoro svolto in materia di miglioramento metodologico, di assistenza tecnica ai paesi e di successi che sono ancora lì vari decenni dopo, fui pregato di cambiare orientamento geografico.
Finiva il decennio, le riflessioni sul lavoro svolto andavano avanti lo stesso, e quello fu il momento di dare un nuovo orientamento al lavoro futuro. Sopravvissuto alle purghe staliniane, bisognava guardare altrove, ma nello stesso tempo accettare l’evidenza che una serie di cose non andavano nel nostro approccio e che dovevamo metterci mano. La riflessione sul concetto di approccio territoriale iniziò così.
(continua)
Nessun commento:
Posta un commento