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lunedì 15 gennaio 2018

La questione dell’agricoltura “familiare” e l’incomprensione storica della sinistra marxista


Dedico queste pagine ad un approfondimento specifico al tema in oggetto a causa delle discussioni e divisioni che provocò quando lo suggerimmo come tema centrale nel dibattito agrario brasiliano nei primi anni 90. Malgrado il ritorno alla democrazia formale, e pur essendo stato l’appoggio dei movimenti contadini fondamentale per la riscossa democratica, i rapporti di forza nel parlamento federale nonché in molti degli stati del paese, erano a dir poco problematici. A questo si aggiungano una serie di aspetti che caratterizzavano il tema della riforma agraria come eminentemente “comunista”, per cui non era pensabile costruire delle alleanze più amplie a partire da quelle premesse. 

Considerare il tema della riforma agraria da un angolo diverso, cioè come un processo che portasse degli agricoltori poveri e poverissimi a disporre dello strumento principale di lavoro, la terra, accompagnato da credito e assistenza tecnica, dire quindi che la riforma agraria doveva aver un inizio, storicamente necessario in paesi come il Brasile, ma anche una fine, e che il dopo-riforma doveva essere un programma diverso, gestito da istituzioni specifiche, ci obbligava ad aprire il tema dell’agricoltura familiare: quanti erano, cosa facevano e che spazi di collaborazione potessero esserci fra questi due settori. Le esperienze che portavamo noi consulenti e funzionari internazionali, per lo più europei, erano basate sull’evoluzione della proprietà contadina negli ultimi cent’anni in paesi come Francia e Italia, sugli errori già commessi dalle forze politiche di sinistra (che regalarono, nel caso italiano, un bacino di milioni di voti alla Democrazia Cristiana di Bonomi a causa della loro irresolutezza teorica e pratica). 

L’irrisolta questione contadina all’interno delle frazioni marxiste della sinistra internazionale, ha avuto riflessi che si sono protratti fino ai giorni nostri e continuano a minare dal di dentro le possibili azioni politiche a favore di questo settore così importante non solo per la sicurezza alimentare mondiale ma anche per il mantenimento della biodiversità, delle risorse naturali e, cosa non da poco, per il peso economico e di creazione di posti di lavoro.

Ricordo che, sulla scia dell’Anno internazionale dell’agricoltura familiare (2014), le nazioni unite hanno appena deciso di dedicare il decennio 2019-2028 a questo tema (http://www.familyfarmingcampaign.org/en/home), cosa per cui ritornare un momento su questo tema non è tempo perso, anche per capire il basso profilo che su questo tema stanno mostrando le agenzie tecniche delle nazioni unite.

La storia inizia da lontano, legata alle origini urbane di Marx e Engels, e la loro scarsissima (se non nulla) frequentazione dei contadini europei. Le teorie da loro elaborate erano storicamente e geograficamente determinate dal fatto di esser nati e/o di vivere in paesi (Germania prima, Inghilterra poi) dove l’agricoltura giocava già un ruolo secondario nello sviluppo e la figura chiave fosse, ai loro occhi, il proletariato urbano. Ecco perché le loro analisi peccarono sempre di pressappochismo nel tema agrario, settore che, soprattutto nella piccola proprietà coltivatrice, non era facilmente inservibile nel dogma ideologico. Le loro funeste previsioni sulla certa sparizione del mondo contadino, contraddetta continuamente dalle evidenze di terreno, invece di portarli a una seria riflessione (loro e gli ideologhi che li seguirono) portò a un irrigidimento ideologico che, come vedremo, lasciò senza risposta analitica e di prassi il tema.

In queste pagine faccio grande uso del libro scritto da uno specialista del tema (H.G.Lehmann, Il dibattito sulla questione agraria nella socialdemocrazia tedesca e internazionale, Feltrinelli 1977).  
Lehmann ci ricorda come negli scritti di Marx ed Engels sulla storia contemporanea appare talvolta persino l’odio verso i contadini in quanto baluardo della ‘reazione’. “Il comportamento dei contadini francesi dall’insurrezione del giugno 1848 in poi rivelava per Marx ‘inconfondibilmente la fisionomia della classe che rappresenta la barbarie all’interno della civiltà.’ Marx si espresse in termini positivi rispetto al capitalismo nell’agricoltura, dove esso operava “nel modo più rivoluzionario” poiché “eliminava il contadino in quanto baluardo della vecchia società” (Il capitale, vol.1, p. 530). La piccola economia contadina era - secondo la formulazione di un pamphlet allora molto diffuso e al quale Marx aveva collaborato -  “la quinta ruota del carro del progresso politico-sociale, il peso morto che paralizza il movimento operaio in Francia come pure in altre parti del continente.”

Uno dei più forti ideologi del partito socialdemocratico tedesco, Karl Kautsky, con un opuscolo scritto nel 1881, si sforzava di far capire ai contadini la loro inevitabile rovina economica. Al momento del congresso della SPD tenuto a Erfurt nel 1891, Kautsky, oramai diventato LA autorità ufficiale del partito socialdemocratico, preparò quello che sarebbe diventato il programma del partito. La parte teorica del programma, spiegava che il capitalismo distruggeva “necessariamente” la piccola impresa; i mezzi di produzione si concentravano quindi incessantemente nelle mani dei capitalisti e dei grandi proprietari terrieri. Conseguenza della vittoriosa concorrenza delle grandi aziende contro le piccole, le classi medie - “piccoli borghesi, contadini” - erano condannate a scomparire. Come ebbe modo di dichiarare Kautsky, “aiutare gli artigiani e i contadini in quanto produttori, conservando i loro sistemi aziendali arretrati, contrasta col corso dello sviluppo economico ed è irrealizzabile”.

A contestare il dogma ufficiale imposto dalla socialdemocrazia tedesca, dominante a livello ideologico in tutta Europa, fu il partito operaio francese (POF) tra i cui leader spiccavano Guesde, Lafargue (genero di Marx avendone sposato la figlia) e Jean Jaurès. Frutto delle loro osservazioni relative alla struttura agraria francese e meno interessati al dibattito ideologico europeo, dominato dai tedeschi, presero una posizione politica chiara presentandosi come difensori dei contadini piccoli proprietari (1894). Il vecchio Engels (che sarebbe morto l’anno successivo) accusò Jaurès di essere “un professore, un dottrinario”, cui “piaceva sentirsi parlare,” che dimostrava “ignoranza dei problemi” e che doveva ancora diventare un vero e proprio socialista.

Anche se i capi del partito lo negavano, da un punto di vista oggettivo (sostiene Lehmann) il loro programma agrario era in contrasto col marxismo. Esso rinunciava soprattutto alla richiesta della socializzazione della terra e prometteva così di conservare e così di garantire la proprietà privata contadina. La posizione di Jaurès, come aveva scritto in un articolo pubblicato nel 1892, era quanto mai chiara: “Mais le paysan propriétarie qui, avec sa famille, travaille son bien, réalise précisément, pour sa part, l’idéal socialiste.”

Non tutto filava liscio però nemmeno in casa tedesca, tanto che nella conferenza della circoscrizione elettorale Halle-Saale nel settembre 1894 il principale relatore mise in dubbio il programma di Erfurt (quello di Kautsky). Secondo lui, i contadini piccoli proprietari erano attaccati anima e corpo alla loro proprietà e desideravano che il loro fondo fosse tutelato. 

I segnali che all’interno del partito dominante in Europa ci fossero dubbi crescenti sull'impostazione  data da Kautski (e Bernstein) al congresso di Erfurt, furono tali che si dovette organizzare una Commissione agraria col compito di elaborare delle proposte complete, mediando fra le posizioni dei revisionisti, contrari alla socializzazione delle terre e quelle ufficiali del partito. Lo stesso Engels, in un articolo scritto poco prima di morire, aveva voluto intervenire, in quanto autoproclamatosi nume tutelare del marxismo, per raccomandare la linea di Erfurt. L’articolo però non venne accolto positivamente all’estero e partiti socialdemocratici come i francesi si rifiutarono di tradurlo e pubblicarlo.

All’interno della commissione agraria, spiccava la presenza di un esperto che avrebbe incrociato i ferri con Kautsky date le sue posizioni revisioniste: Eduard David. In un articolo pubblicato  nel luglio del 1895 contestava decisamente che la grande impresa agricola eliminasse i contadini, incapaci di resistere alla concorrenza. Per la prima volta la dottrina agraria ufficiale del partito socialdemocratico tedesco veniva pubblicamente contraddetta e senza dover fornire una giustificazione. L’argomento principale di David era la “realtà.”

Le critiche di David scatenarono una reazione ideologica molto forte contro il programma proposto dalla commissione. Il più virulento fu ancora una volta Kautsky che arrivò a dichiarare che “un programma agrario socialdemocratico per il modo di produzione capitalistico è un’assurdità.Kautsky rifiutava quindi non solo l’attuale proposta di programma agrario, ma qualsiasi programma agrario in generale per il periodo del capitalismo

Si arriva così al congresso di Breslavia, sul finire del 1895, che avrebbe segnato per sempre il dibattito agrario. Quattro giorni di dibattito e alla fine la posizione di Kautsky, sostenuta anche da altri estremisti di sinistra, capitanati da Clara Zetkin, ne uscì vincitrice. La risoluzione finale tagliava la testa al toro e condannava qualsiasi programma agrario per il periodo capitalistico come una eresia  nei confronti del sacro principio. La frase rimasta alla storia di Kautsky fu la seguente: “Battersi per l’agricoltura non significa nient’altro oggi, sotto il dominio della proprietà privata, che battersi per gli interessi dei proprietari fondiari.”

A Breslavia Kautsky intendeva soprattutto eliminare il riformismo e inoltre colpire spietatamente anche il revisionismo. Ma, come ha scritto Lehmann, “l’uomo che per tutta la sua vita fu convinto di diffondere il marxismo e di cacciarlo in testa alla socialdemocrazia, non riusciva lui stesso a capire la politica agraria marxista.” Con tutta evidenza, Kautsky prese coscienza delle nefaste conseguenze del suo estremismo solo quando nel partito si creò l’impressione che la questione agraria fosse d’ora in avanti “sistemata.”

Il congresso si concludeva quindi con una impossibilità, presente e futura, di portare avanti qualsiasi politica agraria riformistica favorevole ai contadini. Resisi conto che la politica agraria riformistica era in contrasto con la politica ufficiale del partito, era prevalsa  la visione dogmatica di Kautsky, secondo cui un programma agrario era una “assurdità.” Il vittorioso dogmatismo del suo ideologo principale condannò il partito ad abbandonare la popolazione agricola al suo destino e ad attendere il suo immiserimento. 

Si trattava del problema classico fra teoria e prassi agraria: se la propaganda agraria era grosso modo d’accordo con le dottrine ufficiali del partito, allora i suoi risultati concreti erano deludenti; se però si adattava ai desideri dei contadini, come nel caso dei riformisti, allora entrava in contraddizione con l’ideologia.

Ai dibattiti preparatori del congresso di Breslavia partecipò, un po’ casualmente, anche il giovane Lenin il quale si interessò sempre più alla questione agraria ma da un angolo, anche storico, diverso. Mentre per i partiti socialdemocratici europei si trattava di conciliare la propaganda per una minoranza agraria ai dogmi superiori di partiti di fatto operaisti, e questo in un contesto di un’economia capitalista, in Russia la situazione era molto diversa: il sistema feudale dominava ancora malgrado l’abolizione della servitù della gleba e la popolazione contadina costituiva una larga maggioranza.

Lenin era un tattico molto attento alle realtà locali, per cui la sua posizione fu da subito chiara: appoggiare lo spirito “rivoluzionario” dei contadini contro tutti i rimasugli del feudalesimo, in modo da saldare gli interessi del proletariato operaio con quello della classe contadina (maggioritaria). Ma poi bisognava combattere lo spirito “reazionario” del contadino che lotta per il mantenimento della sua posizione piccolo-borghese. Quindi, sosteneva Lenin, il socialdemocratico russo impegnarsi perché il partito operaio scriva sulle sue bandiere il sostegno ai contadini. Lenin non aveva alcuna intenzione di garantire loro la loro esistenza economica, bensì utilizzarli come alleati temporanei e sotto il controllo del proletariato urbano. La politica agraria bolscevica fu quindi, fin da subito, un mero strumento di conquista del potere. 

Kautsky dette alla luce il suo famoso testo sulla Questione agraria nel 1899. Di fatto gli servì per ribadire le tesi espresse al congresso di Breslavia, cercando in qualche modo di correggere il tiro del suo assolutismo dogmatico. Continuò a rifiutare la politica  di tutela dei contadini ma questa volta si diede la pena di elaborare delle proposte alternative di politica agraria. Ma oramai il dado era tratto, le conclusioni ufficiali adottate e, sulla scia di quelle decisioni, anche i maggiori partiti socialdemocratici europei seguirono quelle orme (con qualche riluttanza e resistenza da parte dei soliti francesi).

L’epitaffio più chiaro del testo di Kautsky lo scrisse uno dei principali specialisti di agricoltura di quel periodo, Max Sering: “Il risultato pratico dello scritto di Kautsky è in fondo il riconoscimento dell’assoluta inconciliabilità fra gli interessi della proprietà fondiaria contadina e il programma socialdemocratico. Aver chiaramente espresso e motivato tale realtà anche da parte socialista-autoritaria è indubbiamente un merito dello scritto di Kautsky”.

Le controversie sulla teoria agraria, che rientravano nel quadro generale della contesa sul revisionismo, non potevano superare l’irrilevanza di fatto della politica agraria nella socialdemocrazia. La teoria agraria era una delle parti più deboli dell’ideologia del partito. Quando la socialdemocrazia tedesca, e con essa la socialdemocrazia internazionale, cominciò a far propaganda sistematicamente nelle campagne, essa presupponeva tacitamente che la questione agraria fosse essenzialmente o divenisse sempre più una questione operaia. Fu così che la socialdemocrazia internazionale, invece di risolvere la questione, li rimandò senza averli chiariti. La lotta tra riformisti (gli “opportunisti”), corrente politica che voleva realizzare il socialismo attraverso riforme sul terreno dello Stato esistente, i revisionisti, corrente teorica che criticava o modificava sostanzialmente le dottrine marxiste ufficiali del partito, e i dogmatici rimasero inconcluse, con una sostanziale dominazione di questi ultimi. Lenin non commise l’errore di Kautsky di elevare a dogma le proprie intuizioni, e portò avanti una alleanza tattica che diventò una delle principali dottrine che fecero l’essenza del bolscevismo. La questione della piccola proprietà contadina non venne mai risolta e quel che ne rimase fu l’uso tattico, strumentale, promosso dai leninisti.

Nei decenni a seguire, questa mancanza di chiarezza si sarebbe ritrovata nelle incomprensibili posizioni del partito comunista italiano, che votò contro la legge della riforma agraria nel 1950, per diventarne successivamente uno dei più strenui difensori. 

In America Latina noi ci scontrammo con questa indefinizione quando iniziammo a proporre la questione dell’agricoltura familiare come complemento necessario al tema della lotta per la terra. Una delle ragioni principali, a mio modo di vedere, era costituita dal fatto che il contadino “senza terra” costituiva la ragion d’essere di movimenti che, nel loro nome, rivendicavano la loro costituente, e cioè i senza terra. I movimenti ricevevano soldi dallo stato per occuparsi di “senza terra” e non per altro. Nel momento in cui diventavano dei “con terra” e quindi entravano nel mondo dei piccoli produttori, lì doveva finire il lavoro dei movimenti dei senza terra  (e quindi dei fondi allocati loro dallo Stato) per iniziare un lavoro diverso da parte di altre organizzazioni, come la CONTAG, con cui esisteva una competizione da anni per risorse e visibilità politica. 

I movimenti contadini dei senza terra, di cui il più famoso, il MST, fu all’origine della creazione della Via Campesina, non riuscirono mai a chiarirsi ideologicamente su questo tema per cui entrarono ad appoggiare il tema dell’agricoltura familiare in Brasile e poi a livello mondiale di fatto à reculons, mettendo l’accento più sulla agroecologia, la sicurezza alimentare. Lo stesso può dirsi dei grandi economisti di origine marxista che, piuttosto contrari all’inizio, considerando il tema dell’agricoltura familiare come senza una vera “espressione politica”, han finito per appoggiarlo parecchi anni dopo.


Resta il fatto che il bilancio politico attorno a questo tema, legando la riforma agraria allo sviluppo dell’agricoltura familiare, rimase sospeso, senza una chiara elaborazione teorica e pratica che permetta di lavorare alla costruzione di alleanze politiche per gli anni a venire. Nei prossimi giorni andrò a discutere di questi temi con uno dei responsabili nazionali della politica agraria in uno di questi paesi latinoamericani, per cui sicuramente tornerò sull’argomento. 

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