Il tema in questione non ha mai fatto parte dei temi studiati all’università che ho frequentato a Padova (Scienze agrarie) e nemmeno all’INAPG di Parigi. Il tema agricolo veniva trattato da un’ottica tecnica, non sistemica e a-storica (Padova), mentre a Parigi pur innovando in termini di approccio (storico e sistemico), restava comunque lontano da una riflessione sugli attori dello sviluppo agricolo. L’impressione che ne ricevetti era che la “famiglia” fosse considerata implicitamente come la base lavorativa, decisionale e di consumo a cui si riferiva l’insieme delle attività svolte, e che la figura del capofamiglia non meritasse una riflessione più acuta.
Tanto sta che, quando osai intervenire in un seminario organizzato a Montpellier dai vari istituti agrari (Cirad, Cnearc, Università etc.) al quale interveniva anche uno dei miei professori di Parigi, Marc Dufumier, (il più amato dai giovani per il suo slancio a favore del terzo mondo, il suo impegno con i contadini del Laos, Nicaragua etc…), venni sbeffeggiato proprio da Dufumier con una risposta che, al dimostrare tutti i suoi pregiudizi (si può dire?) etnico-razziali, confermava una limitatezza intellettuale stupefacente per una persona così attenta alle realtà locali di terreno. Il mio intervento era frutto di discussioni che in quel periodo avevo, lavorando al Centro di Sviluppo dell’OCSE a Parigi, con una sociologa americana di origine caraibica, specializzata su quello che all’epoca si chiamava “Donne nello Sviluppo”. Ai continui riferimenti al gran lavoro dei contadini africani, io feci presente che, malgrado le mie limitatissime esperienze, mi risultava che anche le contadine, donne, facessero un lavoro altrettanto se non più impegnativo degli uomini in agricoltura e che forse sarebbe stato opportuno riflettere su questo tema che nessuno dei partecipanti menzionava. Correva l’anno 1989, io ero andato a Montpellier per incontrare uno die professori a cui avevo proposto di far parte del mio giurì di Dottorato che avrei sostenuto nei mesi seguenti. Marc Dufumier mi conosceva bene dato che da maggio del 1985 avevo iniziato a frequentare i suoi corsi all’INAP-G. Forse non aveva digerito il fatto che fossi andato a lavorare nella tana del nemico (OCSE), ma il fatto fu che invece di rispondere alla mia domanda, si rivolse al pubblico dicendo: “Sapete, Paolo parla di questi temi (le donne, sottinteso) perché è italiano, e gli italiani .. voi capite…”. Inutile dire che da quel giorno Marc Dufumier uscì per sempre dalla lista di persone care, professori a cui dire grazie per la mia formazione.
Mi resi conto quindi che il tema “genere” era scivoloso, che gli esperti, in gran maggioranza maschi, semplicemente non ci avevano mai pensato e quindi, di destra come di sinistra, non avevano idea di cosa dire.
Iniziai a lavorare con la FAO in Cile e, per pura casualità, il primo corso di formazione a cui partecipai fu proprio sul tema delle “Women in Development”. La FAO provava a far qualcosa su questo tema, per cui aveva nominato capo servizio una americana, di cui sfortunatamente non ricordo il nome, che probabilmente aveva una storia personale molto attiva nel femminismo in generale e nello specifico sul tema agrario. Si trattava sicuramente di una persona molto in gamba, il problema era lo scarso conoscimento che aveva del pubblico (i miei colleghi FAO) a cui si stava dirigendo. L’ufficio regionale del Cile, nonostante fosse una entità extra-territoriale, si trovava nel Cile di Pinochet (che iniziava la sua ritirata in quel periodo); era e restava una entità conservatrice, filo-governativa per cui molti dei colleghi dell’ufficio erano dei latinoamericani maschi e di destra. Bravi tecnici magari, ma sicuramente quell’apparizione deve esser sembrata loro come quella di una marziana sbarcata per caso in ufficio. La distanza era siderale tra quanto lei esponeva e quanto loro fossero aperti ad ascoltare. Non durò molto nemmeno lei perché credo che nemmeno un anno dopo se ne sia andata.
Fu il mio primo impatto interno con quel muro di gomma fatto di generica accondiscendenza e di velato sarcasmo rispetto a un tema che era considerato come una delle mode periodiche alle quali le Nazioni unite dovevano tributare un onore, per ci poter ritornare tranquillamente al solito lavoro per cui erano stati selezionati.
Mi resi conto quindi che, le mie pur limitate conoscenze sul tema, rischiavano di mettere anche me completamente fuorigioco, per cui scelsi tatticamente di tenere un profilo basso. L’impegno principale di quel periodo era la “domesticazione” dei principi sistemici di Mazoyer dentro una metodologia che potesse essere spendibile nel mondo FAO. Non avendo nessun interlocutore sul tema di genere, decisi di aspettare tempi migliori.
Quando a Roma mi trovai a lavorare sul tema sistemico agrario, la questione tornò a galla. Da un lato ricordo discussioni dense e turbolente con una collega americana, Patricia H.B. (oggi professoressa a Wageningen) del servizio incaricato del tema, perché considerava le nostre riflessioni iniziali ancora troppo timide. Il punto critico era che non sapevamo bene come introdurre questa dimensione nell’analisi sistemica, al di là di cercare di capire quali fossero le responsabilità specifiche di uomini e donne contadine nei vari processi produttivi e decisionali. Volevamo fossero i/le colleghi/e del servizio tecnico specializzato sul tema genere a darci delle dritte concrete, ma in realtà loro sembravano sempre restare ai piani alti delle discussioni, principi importanti ma un po’ fumosi per cui non si scendeva mai nella realtà del campo.
Riuscimmo anche a far approvare un progetto, in Brasile, sul tema di genere nella riforma agraria e le nostre speranze erano al massimo all’epoca, dato che i consigli concreti che questo progetto doveva elaborare potevano essere molto importanti anche per il lavoro parallelo che stavamo facendo verso il futuro PRONAF. I risultati furono insoddisfacenti e da quella strada non siamo andati avanti granché.
Ma quello era anche il periodo della transizione verso l’approccio territoriale, per cui decisi di riprendere il tema da quell’angolo.
La prima versione della nostra proposta metodologica (PNTD, 2005 http://hubrural.org/IMG/pdf/fao_pe2_050402d1_en.pdf), nata come uno sforzo interno ai due servizi tecnici che componevano la Divisione dello Sviluppo Rurale, accennava in varie parti alla necessità di approfondire questa tematica, di fatto lanciando un messaggio bottiglia ai colleghi e colleghe dell’unità tecnica responsabile.
In attesa di notizie, e come parte del lavoro che stavamo realizzando in paesi in post-conflitto come Mozambico e Angola, riuscimmo a introdurre la dimensione di genere nella metodologia utilizzata per il riconoscimento dei diritti territoriali delle comunità locali (http://www.fao.org/3/a-ak546e.pdf). Il principio era abbastanza semplice: realizzare degli eventi con la partecipazione di tutta la comunità, per capire con loro i limiti del loro territorio e i principali usi, avrebbe significato ancora una volta accettare una dominazione maschile nella presa di parola. L’unico modo, semplice, ci parse quello di proporre che il diagnostico comunitario si facesse con gruppi separati, uomini da una parte, donne dall’altra e anche un terzo gruppo con i giovani, in modo che anche loro imparassero a far uso delle loro conoscenze. Questi gruppi segmentati offrivano una ricostruzione più fedele e completa, che necessitava poi un lavoro finale con l’insieme della comunità, sulla base di carte territoriali predisposte da ogni gruppo. Riuscimmo a far passare questo principio, che oggigiorno è iscritto nella Legge sulla Terra del Mozambico e viene usato normalmente dalle organizzazioni, di governo o non governative, che si occupano di delimitazioni dei territori comunali anche in Angola. Fu possibile anche far mettere nella legge la necessaria (e adeguata) presenza femminile nei processi di dialogo e negoziazione con eventuali richiedenti esterni, tipo investitori, in modo da evitare accordi sottobanco favorevoli ai maschi e a detrimento dei diritti delle donne.
Malgrado i reiterati stimoli ai capi del servizio responsabile per il tema genere, la tematica non avanzava molto. In maniera generale potrei dire che in FAO le resistenze da parte delle varie unità tecniche, unite a uno scarso lavoro di lobbying da parte dei responsabili (capi servizio e direttori) del gruppo “gender”, non facevano (e non hanno fatto ancora) avanzare questa dimensione nei lavori sia normativi che di terreno. Si facevano delle pubblicazioni, periodicamente si ricordava che il tema era importante, ma era chiarissimo l’intento retorico e la mancanza di volontà da parte di chi reggeva le fila. D’altronde, il principio che regge i piani alti delle nazioni unite è sempre stato quello che noi veneti chiamiamo “can non magna can”; quindi se il livello più alto della FAO non si muoveva, era ovvio che sperare che lo facesse la direttrice della divisione genere, col rischio di mettere a rischio la sua carriera, era una pia illusione. Decenni dopo siamo sempre lì: la direttrice è riuscita a sopravvivere a tutte le epurazioni promosse dai direttori generali e il tema genere è rimasto sempre all’antipasto.
Nella pratica, tutta l’attenzione prestata al tema genere si limitava a un generico appello a far si che le donne partecipassero alle riunioni pubbliche. In quel modo si contavano quante di loro partecipavano, per poter poi fare delle statistiche assolutamente inutili atte a dimostrare la “sensibilità” dei colleghi (e quindi dell’organizzazione) che aveva formulato quel progetto o programma. Ai piani alti si restava sempre fermi a dichiarazioni di principio, che non intaccavano minimamente la prassi quotidiana degli operatori di terreno per cui il tema gender era sempre l’ultima ruota del carro.
Nel 2012, grazie a un lavoro congiunto con Ilaria, una amica del servizio gender, conosciuta fin dai primi giorni in FAO, riuscimmo a pubblicare un primo sforzo metodologico che puntava a mettere assieme il nostro approccio territoriale con il Socio Economic and Gender Analysis (SEAGA), il metodo di lavoro storico portato in FAO dal servizio gender. Ne uscì un documento che chiamammo IGETI (Improving Gender Equality in Territorial Issues - http://www.fao.org/docrep/016/me282e/me282e.pdf). I principi rimanevano quelli del dialogo, negoziazione e concertazione, ma spingevamo maggiormente sulla dimensione di genere.
Come per gli anni prima, quando provammo a mettere dei richiami dentro il PNTD, IGETI nasceva col chiaro intento di spingere i responsabili (capi servizio e direttrice) dell’unità responsabile del tema a darsi una mossa in modo che questi principi venissero integrati al momento di cominciare a disegnare progetti, programmi o politiche di sviluppo. Per noi era chiaro il fatto che, dati i rapporti di forza esistenti nei paesi membri, l’unica speranza per far avanzare una democratizzazione dell’accesso, uso e gestione della terra e altre risorse naturali, passava per la ricostruzione di un patto sociale di nuovo tipo, a partire dal lavoro svolto in piccole località. Meglio ancora, una possibilità concreta si apriva nei paesi in conflitto o post-conflitto, dato che quando si cominciava a riflettere sul futuro di quei territori, le nostre parole erano di fatto le stesse che altre agenzie ONU portavano avanti, per cui lo spazio per inserire una riflessione più amplia che toccasse anche il tema genere esisteva.
La centralità del lavoro (genere e territorialità) in quelle che vengono definite le Crisi Prolungate, nasceva anche dalla constatazione dei pochi passi avanti che si compivano nelle altre divisioni tecniche. Il fatto poi che il senior management FAO sia tradizionalmente dominato da un ambiente maschile, poco interessato e poco aperto ad ascoltare punti di vista diversi e magari divergenti, non aiutava di certo.
Se dobbiamo tirare l somma di questi decenni, direi che il massimo che siamo riusciti a raggiungere è stato di non far sparire il tema; anzi a giorni uscirà una versione attualizzata della guida IGETI (vedi foto) dove per la prima volta la questione delle dinamiche di potere viene messa chiaramente in evidenza. Non siamo ancora arrivati ad esplorare la intersezionalità della discriminazione di gender, ma abbiamo intenzione di andare su quella strada.
La questione di genere nella sua vertente di “potere” è probabilmente la ragione per cui non si fanno passi avanti ai piani alti. Anche riuscissimo a convincere più colleghi dell’importanza strutturale di questa dimensione per qualsiasi idea di “sviluppo”, rimarrebbe sempre l’ostruzione che a livello di chi dipartimento e ufficio del direttore generale si continua a manifestare sul tema. Regna una gran ignoranza sull’importanza strategica del tema. La transizione tra una vecchia idea dello sviluppo basata sulla tecnica e la tecnologia e una nuova che si basi e sia centrata sulle persone e quindi sulle questioni dei diritti e dell’uguaglianza, è lungi dall’essere terminata. Direi che non siamo nemmeno a metà del guado. Questo perché questa nuova visione dello sviluppo di fatto significa mettere al centro il tema delle asimmetrie di potere e quindi far si che gli interventi “tecnici” portati avanti da agenzie come la FAO non si limitino a “fare” qualcosa, ma che vadano a toccare il nodo centrale e cioè chi il potere lo detiene, dal livello comunitario su fino malgoverno e anche oltre. Tocchiamo quindi con mano i limiti di un sogno di uguaglianza che le nazioni unite non possono, nella pratica, portare avanti dato che chi regge queste agenzie è votato ed eletto da quel sistema di potere che si basa sulla discriminazione dei più deboli.
Annacquare i temi difficili è da sempre la strategia in voga nelle varie agenzie delle nazioni unite per evitare che si vada al cuore die problemi. La questione di genere tocca troppi nervi caldi per sperare che qualcosa si muova sul serio.
Cosciente dei limiti (i muri di gomma) che le nostre agenzie ONU hanno su questo tema (che restano comunque sempre con un grado di libertà maggiore rispetto alle agenzie di cooperazione bilaterale, veri e propri strumenti di politica estera e commerciale per cui non potranno mai, per costruzione, diventare degli agenti di cambio reale) ho provato a lanciare un appello ad alcuni amici e amiche, dentro e fuori l’organizzazione, per poter pensare e lavorarci assieme verso un miglioramento sostanziale dell’approccio. Finora però non ho ricevuto risposte.
Paolo, purtroppo andare a toccare la questione del potere, la disuguaglianza degli attori nella possibilità di orientare le scelte di una comunità, di un gruppo, o di accedere a informazioni e operare scelte, é si la chiave perché le comunità si autodeterminino coscientemente e per il bene comune, ma é ovviamente il percorso più lungo per vedere i risultati. Inoltre dare la parola ai meno forti (Freire li avrebbe chiamati "oppressi") può anche creare un terreno nuovo, difficile da gestire: penso a come l'idea che le donne potessero ereditare la terra (come i loro fratelli maschi) spaventasse uomini e donne in un corso che tenni, proprio su IGETI, perché questo comporterebbe cambiamenti della società...in linea di principio, dicevano, é giusto, ma sarebbe un caos. Credo che anche a molti che lavorano sul campo sembra più facile lavorare con meno attori, quelli che non ti rivoluzioneranno quello che hai sempre saputo... Ecco:toccare le questioni di genere può forse creare un certo livello di caos. Ma forse é da quello che può nascere un nuovo ordine. Possibilmente più equo. Io credo che quest'immobilismo forse é nato anche da questa incapacità di prevedere le conseguenze delle trasformazioni degli equilibri di potere... Chi ha più potere é più libero, ma il sistema teme la libertà. Ritorno a Freire: se davvero vogliamo un cambiamento, allora dobbiamo educare alla libertà e non temerla e continuare a lavorare in questo senso.
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