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giovedì 25 febbraio 2021

2021 L15: Simona Morani - Quasi arzilli

 

Giunti 2021

Un vero talento comico. Una scrittrice che farà molta strada. Un esordio esilarante, dolce e commovente. Un paesino di tre anime abbarbicato sull'Appennino. Una combriccola di ultraottantenni alla ricerca del senso della vita. Ciascuno a modo suo... e prima che sia troppo tardi. Nello storico bar la Rambla, nel cuore dell'Appennino Reggiano, la mano di briscola è più triste del solito. Nemmeno i caffè alla sambuca di Elvis riescono a tirare su il morale. Ermenegildo infatti non ha lasciato solo una sedia vuota, ma anche un grande buco nel cuore dei suoi amici e uno spettro con cui fare i conti. Dopo la vecchiaia c'è la morte. E dopo la morte? Ognuno cerca di reagire a modo suo: Gino, soprannominato Apecar per via dello sgangherato mezzo con cui circola, non vuole abbandonare la guida nonostante non ci veda più e sia un autentico pericolo pubblico. Ettore non riesce a dormire e tutte le mattine, puntuale come un orologio, si presenta nello studio del dottor Minelli. Basilio, ex comandante della ventiseiesima Brigata Garibaldi, si scaglia contro il ''nemico'', un ragazzo serbo che ha preso in gestione il negozio di frutta e verdura, appartenuto al caro Ermenegildo. Nel frattempo però, sulla scombinata combriccola incombe un'ulteriore minaccia: Corrado, il nuovo agente della polizia municipale, sembra avere un'unica missione: spedire tutto il gruppo alla Villa dei Cipressi, la nuova casa di riposo che sta per essere inaugurata... Una commedia dall'atmosfera inconfondibile dove si ride fino alle lacrime con qualche punta di malinconia. Un'Italia in via di estinzione, ma tanto cara, geniale e commovente da non volerla abbandonare mai.

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Mi pare che la quarta di copertina sia un po' esagerata. Il libro si lascia leggere, ma parlare di vero talento comico... insomma, io ci andrei pianino.

martedì 23 febbraio 2021

2021 L14: André Marois - Bienvenue à Meurtreville

 


Les Editions Héliotrope, 2016

Mandeville, Lanaudière. Il ne se passe pas grand-chose au village, et c'est très bien comme ça. Évidemment, un peu plus d'affluence ne nuirait pas. Quelques touristes ici et là, juste ce qu'il faut pour faire vivre les commerçants locaux? Mais comment les attirer ? La solution s'impose d'elle-même lorsqu'un voleur de cannabis est retrouvé mort, empalé sur son propre sécateur. Inévitablement, policiers et journalistes accourent. Mais une fois l'affaire classée, l'animation retombe. Ce qu'il faudrait, c'est que ce cadavre inopiné soit le premier d'une longue série. Voilà qui fascinerait les curieux, mystifierait les enquêteurs, ferait couler l'encre et, surtout, mettrait enfin Mandeville sur la carte ! Et c'est ainsi qu'un esprit dérangé et légèrement mégalomane décide d'inaugurer la saison de la chasse?


Una storia quebecoise molto divertente. Consigliato a tutti!

sabato 20 febbraio 2021

2021 L13: Jean Fallier - Avis de gros temps pour Mary Lester



Palémon, 2016

Le commandant Lester doit voler au secours d’un OPJ accusé d’avoir détourné une importante quantité de drogue au siège de la brigade parisienne des stups. Les charges contre ce lieutenant sont lourdes et sa culpabilité ne fait pas de doute pour la presse puisqu’il aurait été nuitamment filmé par des caméras de surveillance sortant du 36 porteur de deux gros paquets.Son seul allié, l’un de ses amis, commandant de la crim’, est intimement convaincu de son innocence.Mary n’est pas enthousiasmée par l’idée de s’impliquer dans une telle affaire mais finit par accepter lorsqu’elle apprend qu’une vieille connaissance, le commissaire Mercadier, va y fourrer son nez. Dès que cet officier arriviste et manipulateur apparaît dans le paysage avec son âme damnée, la commissaire Cécile Darle, elle comprend que les coups fourrés vont pleuvoir et que la partie sera délicate.Il n’en faut pas plus pour qu’elle prenne la piste…


Non conoscevo questo autore che sul personaggio di Mary Lester ha scritto una saga interminabile. Storia interessante e molto attuale, mi da voglia di leggerne degli altri. Tradotto decenni di anni fa in italiano, i suoi libri sono "in ristampa" e non disponibili. Quindi li cercherò in Francia.

giovedì 11 febbraio 2021

2021 L12: Niccolò Ammaniti - Io non ho paura

 



Einaudi, 2011

L'estate piú calda del secolo. Quattro case sperdute nel grano. I grandi sono tappati in casa. Sei bambini, sulle loro biciclette, si avventurano nella campagna rovente e abbandonata. In mezzo a quel mare di spighe c'è un segreto pauroso, un segreto che cambierà per sempre la vita di uno di loro.

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Il primo libro che leggo di Ammaniti. Mi è piaciuto assai e sarà sicuramente nella Top dell'anno

2021 L11: Valérie Perrin - Cambiare l'acqua ai fiori

 



E/O, 2019

Violette Toussaint è guardiana di un cimitero di una cittadina della Borgogna. Ricorda un po’ Renée, la protagonista dell’Eleganza del riccio, perché come lei nasconde dietro un’apparenza sciatta una grande personalità e una storia piena di misteri. Durante le visite ai loro cari, tante persone vengono a trovare nella sua casetta questa bella donna, solare, dal cuore grande, che ha sempre una parola gentile per tutti, è sempre pronta a offrire un caffè caldo o un cordiale. 

Un giorno un poliziotto arrivato da Marsiglia si presenta con una strana richiesta: sua madre, recentemente scomparsa, ha espresso la volontà di essere sepolta in quel lontano paesino nella tomba di uno sconosciuto signore del posto. Da quel momento le cose prendono una piega inattesa, emergono legami fino allora taciuti tra vivi e morti e certe anime che parevano nere si rivelano luminose.

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Grande! Penso sarà uno dei preferiti dell'anno. Sicuramente nella Top. Molto consigliato.

mercoledì 10 febbraio 2021

Draghi: un po' di memoria storica

 

 

Montepaschi-Antonveneta, spunta il documento che incastra Mario Draghi

 

Chissà che avrà pensato, dopo essersi sgolato per prevenire, inutilmente, l'apocalisse. Chissà che carriera avrà fatto (o forse non avrà fatto) il dottor "A. Minnella", zelante direttore della Filiale 221 della Banca d' Italia a Padova. Il quale, nel marzo del 2007, avvertì con una minuziosissima ispezione/perizia i suoi capi a Roma che Banca Antoveneta era un'istituto appestato, in preda a un coma irreversibile, che non valeva nulla. E quante volte si sarà chiesto, il solerte e onestissimo funzionario, per quale motivo fosse sparito, ingoiato in qualche scrivania di palazzo Koch quel suo prezioso e riservatissimo documento che avrebbe potuto evitare il «peccato originale»? Ovvero l'acquisto di Antoveneta ad opera del Monte dei Paschi di Siena per 9 miliardi - che poi si sarebbero rivelati 17: l'operazione che fu l' inizio della devastazione del Monte e dell' intero sistema bancario italiano? Oggi l' avvocato cassazionista Paolo Emilio Falaschi, legale di un centinaio di piccoli e medi azionisti fregati dal Monte, tira fuori dalla sacche della burocrazia quel documento, che, in duro gergo bancario, parla ripetutamente dei vizi di una banca inavvicinabile: «persistenza di rilevanti criticità nei profili tecnici e l' involuzione del posizionamento competitivo», «accentuata problematicità che richiede immediate iniziative dei responsabili aziendali», «squilibrio economico», «sostenibilità a rischio». Avverte, il Minnella, che «la natura e la portata degli interventi necessitano di attento monitoraggio». E tutti noi ci chiediamo perchè diavolo di quello stesso documento (n. 254248 del 9/3/2007, «oggetto: situazione azinedale»), nonostante fosse arrivato, protocollato, a Palazzo Koch, non si sia tenuto conto. Anzi. Un anno dopo, con autorizzazione del 17/3/2008, lo stesso allora governatore di Bankitalia, Mario Draghi, benedì la nefasta operazione Monte-Antonveneta. Tra l' altro, il documento padovano era talmente completo che riconosceva- neppure tanto indirettamente- il disastro di Antonveneta nonostante i «parametri economici» della banca veneta fossero buoni, perchè sostenuti proprio da un prestito-monstre di quasi 9 miliardi alla stessa Antonveneta da parte degli olandesi di Abn Amro. Prestito che la banca olandese volle, ovviamente, ripagato, con le conseguenze che conosciamo. E dunque, Bankitalia grazie all' ispezione di cui sopra era al corrente - anche se l'avrebbe in seguito negato- pure del debito gravosissimo con Abn Amro. Insomma, lo scritto del mitico dottor Minnella è la prova documentale che i vertici di Palazzo Koch sapevano dall' inizio dell' enorme rischio per la banca senese e per il sistema. Lo sapevano il governatore Draghi, il direttore generale Saccomanni e la responsabile della Vigilanza Anna Maria Tarantola; divenuti col tempo, rispettivamente, presidente della Bce, ministro dell'Economia e presidente della Rai. Poi certo, confermò il tutto un rapporto del Nucleo Speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza; e ci fu un'operazione di fusione colossale avviata senza la necessaria due diligence; e scattarono i processi in falso in bilancio e ostacolo alla vigilanza. Ma tutto fu taciuto anche perché sin dai tempi mussoliniani della banca centrale italiana, i nostri istituti di credito non potevano e non dovevano fallire. Ora il tema torna di stretta attualità, dato che la Commissione di Vigilanza sulle banche, nello scontro feroce ed inedito fra Consob e Palazzo Koch, indirettamente cita Draghi e gli anni di una vigilanza -diciamo- non troppo attenta e dai poteri di controllo inesercitati: tutta roba che tanti lutti addusse agli italici consumatori. Tra l'altro la stessa Commissione presieduta da Casini - martedì prossimo la nuova seduta - discuterà l'ipotesi di convocare gli ex vertici di Mps Alessandro Profumo e Giuseppe Mussari. Profumo, attuale amministratore delegato di Leonardo, assieme all' ex presidente Mps Fabrizio Viola, è già indagato dalla procura di Milano per ostacolo alla vigilanza. E per i i famigerati 5 miliardi derivati all' origine del dissesto del gruppo nei bilanci della banca tra il 2012 e il 2014 e nella semestrale al 30 giugno 2015 (senza i quali non ci sarebbe stato l'aumento di capitale di 8 miliardi) il gip Cristofano per i suddetti due amministratori ha disposto l'imputazione coattiva per false comunicazioni sociali e manipolazione del mercato (aggiottaggio), accogliendo l’opposizione all'archiviazione dell'avvocato Falaschi. Dice Falaschi: «Per la Procura le cause del dissesto di Mps non erano "esogene", ma "endogene" a Mps, cioè relative a mala gestione. E la mala gestione è individuata sia nell' acquisto di Antonveneta a prezzo spropositato che e alla pessima gestione dei crediti deteriorati che ora stanno svendendo per quattro palanche. Vedi il caso Sorgenia De Benedetti...». Ma qui si apre un altro capitolo. 

Matteo Legnani 19 novembre 2017 – Liberoquotidiano.it

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Mario Draghi ha distrutto Mps, e scatenato la Crisi. Una lettera lo incastra

La lettera porta la data del 17 marzo 2008, e ha la firma dell’allora governatore della Banca di Italia, Mario Draghi. Oggetto: “banca Monte dei Paschi di Siena- Acquisizione della partecipazione di controllo nella Banca Popolare Antoniana Veneta”. E’ l’origine di tutti i guai dell’istituto senese che ancora una volta è appeso per salvare se stesso, e le migliaia e migliaia di depositanti e risparmiatori. L’esistenza di quella lettera era nota, e la sua versione integrale (3 pagine) è stata acquisita anche in due processi che riguardavano l’istituto senese, a Siena e Roma, e in entrambi i casi, i pubblici ministeri hanno escluso ogni responsabilità penale della banca centrale italiana, e dello stesso attuale presidente della Bce, Draghi. Un avvocato che agisce come socio di Mps, Paolo Emilio Falaschi, ha però impugnato quella decisione e ancora sta provando ad ottenere da un tribunale un provvedimento che certifichi l’invalidità di quella autorizzazione di Draghi, e il conseguente annullamento dell’acquisto di Antonveneta che è all’origine anche degli attuali guai.

Mai ci riuscisse, e Mps si vedesse restituire i 17 miliardi di euro che complessivamente era costata quella operazione, certo tutti i problemi senesi verrebbero risolti come d’incanto e l’intervento dello Stato non sarebbe più necessario. La strada è sicuramente in salita, però non così strampalata perché quella lettera di Draghi si unisce a un documento della vigilanza della banca centrale successivo a una ispezione ad Antonveneta di poco precedente (il 9 marzo 2007), in cui venivano espressi dubbi sulla solidità patrimoniale della banca che avrebbe da lì a poco comprato Mps e si segnalava fra i motivi un prestito di 7,9 miliardi di euro in essere con gli olandesi di Abn Amro. E’ proprio quella la cifra alla base delle azioni giudiziarie intentate, perché avrebbe portato il costo complessivo dell’acquisto di Antonveneta per Mps a 17 miliardi di euro. Invece l’allora governatore della Banca di Italia scrisse- pur conoscendo quei 7,9 miliardi di debito con gli olandesi- “l’acquisizione del complesso aziendale riferito ad Antonveneta comporterà un costo di 9 miliardi di euro, l’esborso effettivo sarà maggiorato del controvalore della vendita di Interbanca, che comporterà un aumento della liquidità di Antonveneta di pari importo”. Ma anche il passaggio successivo di Draghi desta qualche sorpresa rispetto alla tradizionale prudenza della Banca di Italia. Perché spiega come Mps avrebbe trovato quei 9 miliardi necessari all’operazione: “un aumento di capitale per 6 miliardi (di cui 1 miliardo con esclusione del diritto di opzione), l’emissione di strumenti ibridi e subordinati per complessivi 2 miliardi e il ricorso a un finanziamento ponte per 1,95 miliardi da rimborsare anche mediante cessione di assets non strategici”.

Non solo Draghi descrive quel tipo di reperimento dei fondi, ma ne sposa la ratio, subordinando espressamente l’acquisto di Antonveneta “alla preventiva realizzazione delle misure di rafforzamento patrimoniale programmate, con specifico riguardo agli interventi di aumento di capitale e di emissione di strumenti ibridi e subordinati, in osservanza delle vigenti disposizioni normative in materia di patrimonio di vigilanza”. Attenzione, siamo nel 2008. Quindi proprio nel momento dell’esplosione della crisi finanziaria in tutto il mondo legata proprio all’emissione di quegli “strumenti ibridi e subordinati” che vengono raccomandati da chi aveva istituzionalmente la tutela della “sana e prudente gestione” delle banche italiane. Ed è proprio quel passaggio che fa insorgere Elio Lannutti, presidente dell’Adusbef che si chiede ora “ Perché Bankitalia e Draghi favorirono quella rischiosa operazione, nonostante conoscessero dalle ispezioni, che MPS non avesse i conti in ordine dopo l’acquisto di Banca 121 (ex Banca del Salento) ad un prezzo proibitivo, lo scandalo di May Way e For You?” Secondo Lannutti “Draghi non era uno sprovveduto: oltre che Governatore di Bankitalia, era presidente del Financial Stability Forum, un organismo internazionale nato nel 1999 su iniziativa dei Ministri finanziari e dei Governatori delle Banche centrali del G7, per promuovere la stabilità finanziaria internazionale e ridurre i rischi del sistema finanziario”. Il numero uno di Adusbef si fa una domanda maliziosa: “Draghi autorizzò quella rischiosissima operazione con Antonveneta per non pregiudicare gli appoggi politici del PD e di ambienti di Forza Italia (allora al governo) tutti legati a Mps nel groviglio armonioso del ‘sistema Siena, visto che avrebbero potuto ostacolare le proprie ambizioni alla presidenza della Bce?”

20/12/2016 Economicomensile.it

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La nevrosi “popolare” che Draghi ci lascia in eredità

La nevrosi “popolare” che Draghi ci lascia in eredità

 

Nella complessa eredità che il governatore Mario Draghi si lascia alle spalle – oggi è arrivata la sua nomina ufficiale alla presidenza della Bce – c’è la spinosa questione della riforma banche popolari. Una questione irrisolta e sempre più incancrenita che tocca un centinaio di banche di tipo cooperativo (dove si vota “democraticamente” per testa, una testa un voto, e non per quote di capitale possedute) con un milione e 200mila soci, 11 milioni di clienti e una quota del mercato bancario nazionale pari a circa un quarto del totale.

Di riforma delle Popolari, specialmente di quelle che negli ultimi quindici anni da piccole banche locali sono cresciute fino diventate grandi gruppi nazionali, si discute da un decennio. Tutto è stato bloccato dalla potentissima resistenza lobbistica della categoria ma anche dall’inerzia/incapacità del legislatore (il Parlamento) e del regolatore (la Banca d’Italia) di avviare un serio dibattito sulle finalità strategiche di questo tipo di banche, prima ancora che sulle regole di governo. Su questo si è creato un grande equivoco che confonde una riforma di rinnovamento, concepita per ritrovare la “mission” storica di banche popolari al servizio al territorio e ai clienti-soci, con una riforma di trasformazione, pensata per accompagnare in modo più o meno graduale l’evoluzione verso il modello della banca-società per azioni.

 Draghi è stato per sei anni governatore della Banca d’Italia. Non è pignoleria ricordare che gli scandali che bancari che avevano investito l’istituzione prima del suo arrivo, a fine 2005, vedevano come protagoniste una banca popolare, la Popolare di Lodi, e una ex popolare che era stata trasformata in società per azioni pochi anni prima, la Antonveneta. Questo per dire della centralità che la questione aveva, o avrebbe dovuto avere, nel mandato del neo banchiere centrale chiamato a succedere ad Antonio Fazio.

A conclusione del mandato, però, il lascito di Draghi assomiglia a una nevrosi collettiva per inerzia da riforme. Parafrasando Freud, si può dire che l’incapacità di trovare uno sbocco alle pulsioni di sviluppo ha generato alcune fissazioni, di cui il regolatore sembra soffrire quanto i regolati. Per la rilevanza istituzionale e mediatica che ha assunto in questi giorni, la più infantile di queste fissazioni è quella delle deleghe di voto: siccome la gran parte dei soci non va in assemblea, e questo comporta un insano consolidamento delle posizioni di potere esistenti, si pensa che la cura stia nell’aumentare i voti che ciascun socio può esercitare a nome di altri soci. 

Lorenzo Dilena Linkiesta, 24/06/2011

 

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Dossier: La svendita dell'Italia decisa nel 1992 sul panfilo Britannia

http://informatitalia.blogspot.it
giovedì 6 giugno 2013

 

Il sacco d’Italia. Articolo dedicato a Mario Draghi (Mr. Britannia)

 

Era il 1992, un anno decisivo per la recente storia italiana.

All’improvviso un’intera classe politica dirigente crollava sotto i colpi delle indagini giudiziarie. Da oltre quarant’anni era stata al potere. Gli italiani avevano sospettato a lungo che il sistema politico si basasse sulla corruzione e sul clientelismo. Ma nulla aveva potuto scalfirlo.

Né le denunce, né le proteste popolari né i casi di connivenza con la mafia, che di tanto in tanto salivano alla cronaca, immaginiamoci un semplice mariuolo alla Mario Chiesa.

 

Ma ecco che, improvvisamente, il sistema crollava.

Mentre l’attenzione degli italiani era puntata sullo scandalo delle tangenti, il governo italiano stava prendendo decisioni importantissime per il futuro del paese.

 

Con l’uragano di “Tangentopoli” gli italiani credettero che potesse iniziare un periodo migliore per l’Italia

 

Ma in segreto, il governo stava attuando politiche che avrebbero peggiorato il futuro del paese.

Numerose aziende saranno svendute, persino la Banca d’Italia sarà messa in vendita.

La svendita venne chiamata “privatizzazione”.

 

E ancora.Nel maggio del 1992, Giovanni Falcone venne ucciso dalla mafia. Egli stava indagando sui flussi di denaro sporco, e la pista stava portando a risultati che potevano collegare la mafia ad importanti circuiti finanziari internazionali.

 

Su Falcone erano state diffuse calunnie che cercavano di capovolgere la realtà di un magistrato integro. Probabilmente, le tecniche d’indagine di Falcone non piacevano a certi personaggi con cui il governo italiano ebbe a che fare quell’anno.

 

L’omicidio di un simbolo dello Stato così importante come Falcone, significava qualcosa di nuovo. Erano state toccate le corde dell’élite di potere internazionale.

 

Ciò è stato intuito anche da Charles Rose, Procuratore distrettuale di New York, che notò la particolarità degli attentati (anche Borsellino 19 luglio): “Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura… Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi… è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove”.

 

Quell’anno l’élite anglo-americana voleva rendere l’Italia un paese completamente soggiogato e dominato dal potere finanziario.

 

2 giugno del 1992, panfilo Britannia, in navigazione. A bordo c’erano alcuni appartenenti all’élite di potere anglo-americana, e i grandi banchieri a cui si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers).

 

In quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca d’Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A quella riunione parteciparono anche diversi italiani, tra i quali Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell’Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell’Iri Riccardo Gall.

 

Gli intrighi decisi sulla Britannia avrebbero permesso agli anglo-americani di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane.

 

La stampa martellava su “Mani pulite”, facendo intendere che da quell’evento sarebbero derivati grandi cambiamenti. Un grande cambiamento in effetti ci fu.

 

I banchieri angloamericani erano venuti a “fare la spesa”, ossia a comprarsi i gioielli dell’industria pubblica italiana a buon mercato. In lire svalutate lorsignori comprarono i gioielli dell’industria italiana, IRI in testa.

 

Insomma, una strategia concertata.

Cominciò il Fondo Monetario Internazionale (altro organismo che mette sul lastrico interi paesi) che, come aveva fatto da altre parti, voleva privatizzare selvaggiamente e svalutare la nostra moneta, per agevolare il dominio economico-finanziario dell’élite. La Standard & Poor’s declassò il debito italiano.

 

L’incarico di far crollare l’economia italiana venne dato a George Soros, un cittadino americano che tramite informazioni ricevute dai Rothschild, con la complicità di alcune autorità italiane, riuscì a far crollare la nostra moneta e le azioni di molte aziende italiane. A causa di questi attacchi, la lira perse il 30% del suo valore, e anche negli anni successivi subì svalutazioni. Le reti della Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani sull’Eni, che venne svenduta. Il gruppo Rothschild ebbe un ruolo preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della Banca d’Italia. C’erano stretti legami fra il Quantum Fund di George Soros e i Rothschild. Ma anche numerosi altri membri dell’élite finanziaria anglo-americana, come Alfred Hartmann e Georges C. Karlweis, furono coinvolti nei processi di privatizzazione delle aziende e della Banca d’Italia.

 

Qualche anno dopo la magistratura italiana procederà contro Soros, ma senza alcun successo.

Su Soros indagarono le Procure della Repubblica di Roma e di Napoli, che fecero luce anche sulle attività della Banca d’Italia nel periodo del crollo della lira. Soros venne accusato di aggiotaggio e insider trading, avendo utilizzato informazioni riservate che gli permettevano di speculare con sicurezza e di anticipare movimenti su titoli, cambi e valori delle monete.

 

Nel giugno 1992 si era intanto insediato il governo di Giuliano Amato. Si trattava di un personaggio in armonia con gli speculatori che ambivano ad appropriarsi dell’Italia. Infatti, Amato, per iniziare le privatizzazioni, si affrettò a consultare il centro del potere finanziario internazionale: appunto le tre grandi banche di Wall Street, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers.(strano che il braccio destro di Craxi,uscìsse indenne dalla bufera mani pulite.Il non poteva non sapere per lui non valeva)

 

Appena salito al potere, Amato trasformò gli Enti statali in Società per Azioni, valendosi del decreto Legge 386/1991, in modo tale che l’élite finanziaria li potesse controllare, e in seguito rilevare.

Il 31 luglio 1992 viene abolita la scala mobile.Il 9 settembre il governo chiede al Parlamento di approvare una legge delega che gli consenta di cancellare spese, aumentare tasse, bloccare i salari pubblici ogni volta che la Banca d’Italia dichiari l’emergenza economica.

Il 13-17 settembre,si è in piena crisi : svalutazione della lira e successiva uscita dallo SME, il sistema monetario europeo. Per arginarla il governo Amato è costretto a varare una legge finanziaria da 100.000 miliardi (aumento dell’età pensionabile, aumento dell’anzianità contributiva, blocco dei pensionamenti, minimum tax, patrimoniale sulle imprese, prelievo sui conti correnti bancari, introduzione dei ticket sanitari, tassa sul medico di famiglia, imposta comunale sugli immobili (Ici), blocco di stipendi e assunzioni nel pubblico impiego, privatizzazioni ecc..)

 

A fine anno l’ineffabile Scalfaro annuncia “un nuovo rinascimento”. Roba da non credere!!!

Come già accennato, a seguito dell’attacco speculativo contro la lira e della sua successiva svalutazione, le privatizzazioni sarebbero state fatti a prezzi stracciati, a beneficio della grande finanza internazionale e a discapito degli interessi dello stato italiano e dell’economia nazionale e dell’occupazione. L’agenzia stampa EIR (Executive Intelligence Review) ha denunciato pubblicamente questa sordida operazione alla fine del 1992 provocando una serie di interpellanze parlamentari e di discussioni politiche che hanno avuto il merito di mettere in discussione l’intero procedimento di privatizzazione.

 

Il 28 giugno 1993, il Movimento Solidarietà svolse una conferenza a Milano, in cui rese nota a tutti la riunione sul Britannia e quello che ne era derivato

 

I complici italiani furono il ministro del Tesoro Piero Barucci, l’allora Direttore di Bankitalia Lamberto Dini e l’allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Altre responsabilità vanno all’allora capo del governo Giuliano Amato e al Direttore Generale del Tesoro Mario Draghi. Alcune autorità italiane (come Dini) fecero il doppio gioco: denunciavano i pericoli ma in segreto appoggiavano gli speculatori.

 

Amato aveva costretto i sindacati ad accettare un accordo salariale non conveniente ai lavoratori, per la “necessità di rimanere nel Sistema Monetario Europeo”, pur sapendo che l’Italia ne sarebbe uscita a causa delle imminenti speculazioni.

 

Gli attacchi all’economia italiana andarono avanti per tutti gli anni Novanta, fino a quando il sistema economico- finanziario italiano non cadde sotto il completo controllo dell’élite finanziaria.

Nel 1996, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, riferiva che l’Italia non poteva far nulla contro le correnti speculative sui mercati dei cambi, perché “se le banche di emissione tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle operazioni finanziarie) non ce la fanno per la dimensione delle masse in movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco”.

Denuncia dell’élite internazionale, e getto della spugna, ritenendo inevitabili quegli eventi. Era in gioco il futuro economico-finanziario del paese, ma nessuna autorità italiana pensava di poter fare qualcosa contro gli attacchi destabilizzanti dell’élite anglo-americana.

 

Anche negli anni successivi, avvennero altre privatizzazioni, senza regole precise e a prezzi di favore. Pensate che l’Italia conquistò il record mondiale delle privatizzazioni: sui 460 miliardi di dollari del giro d’affari planetario di questo business negli anni ’90, circa 100 miliardi di dollari erano imputabili a noi.

 

La vendita Telecom fu l’operazione più grossa mai conclusa in Europa

Nel settore del gas e dell’elettricità apparvero numerose aziende private, oggi circa 300.

Dal 24 febbraio del 1998, anche le Poste Italiane diventarono una S.p.a. In seguito alla privatizzazione delle Poste, i costi postali sono aumentati a dismisura e i lavoratori postali vengono assunti con contratti precari. Oltre 400 uffici postali sono stati chiusi, e quelli rimasti aperti appaiono come luoghi di vendita più che di servizio.

 

Le nostre autorità giustificavano la svendita delle privatizzazioni dicendo che si doveva “risanare il bilancio pubblico”, ma non specificavano che si trattava di pagare altro denaro alle banche, in cambio di banconote che valevano come la carta straccia. A guadagnare sarebbero state soltanto le banche e i pochi imprenditori già ricchi (Benetton, Tronchetti Provera, Pirelli, Colaninno, Gnutti e pochi altri).

 

Si diceva che le privatizzazioni avrebbero migliorato la gestione delle aziende, ma in realtà, in tutti i casi, si sono verificati disastri di vario genere, e il rimedio è stato pagato dai cittadini italiani.

 

Le nostre aziende sono state svendute ad imprenditori che quasi sempre agivano per conto dell’élite finanziaria, da cui ricevevano le somme per l’acquisto. La privatizzazione della Telecom avvenne nell’ottobre del 1997. Fu venduta a 11,82 miliardi di euro, ma alla fine si incassarono soltanto 7,5 miliardi.

 

La società fu rilevata da un gruppo di imprenditori e banche., e al Ministero del Tesoro rimase una quota del 3,5%. Il piano per il controllo di Telecom aveva la regia nascosta della Merril Lynch, del Gruppo Bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrette e della Chase Manhattan Bank.

Dopo dieci anni dalla privatizzazione della Telecom, il bilancio era disastroso sotto tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone sono state licenziate, i titoli azionari hanno fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i costi per gli utenti sono aumentati e la società è in perdita.

La privatizzazione, oltre che un saccheggio, veniva ad essere anche un modo per truffare i piccoli azionisti.

 

La Telecom, come molte altre società, ha posto la sua sede in paesi esteri, per non pagare le tasse allo Stato italiano.

 

Oltre a perdere le aziende, gli italiani sono stati privati anche degli introiti fiscali di quelle aziende. La Bell, società che controllava la Telecom Italia, aveva sede in Lussemburgo, e aveva all’interno società con sede alle isole Cayman, che, com’è noto, sono un paradiso fiscale.

Mettere un’azienda importante come quella telefonica in mani private significa anche non tutelare la privacy dei cittadini, che infatti è stata più volte calpestata, com’è emerso negli ultimi anni.

Anche per le altre privatizzazioni, Autostrade, Poste Italiane, Trenitalia ecc., si sono verificate le medesime devastazioni: licenziamenti, truffe a danno dei risparmiatori, degrado del servizio, spreco di denaro pubblico, cattiva amministrazione e problemi di vario genere.

La famiglia Benetton è diventata azionista di maggioranza delle Autostrade. Il contratto di privatizzazione delle Autostrade dava vantaggi soltanto agli acquirenti, facendo rimanere l’onere della manutenzione sulle spalle dei contribuenti.

 

Nonostante i disastri delle privatizzazioni, le nostre autorità governative sono disposte ad utilizzare denaro pubblico per riparare ai danni causati dai privati.

 

Dietro tutto questo c’era l’élite economico finanziaria (Morgan, Schiff, Harriman, Kahn, Warburg, Rockfeller, Rothschild ecc.) che ha agito preparando un progetto di devastazione dell’economia italiana, e lo ha attuato valendosi di politici, di finanzieri e di imprenditori.

Nascondersi è facile in un sistema in cui le banche o le società possono assumere il controllo di altre società o banche. Esemplare il caso Parmalat e Cirio.

 

Queste aziende hanno truffato i risparmiatori vendendo obbligazioni societarie con un alto margine di rischio. La Parmalat emise bonds per un valore di 7 miliardi di euro, e allo stesso tempo attuò operazioni finanziarie speculative, e si indebitò. Per non far scendere il valore delle azioni (e per venderne altre) truccava i bilanci.

 

Le banche nazionali e internazionali sostenevano la situazione perché per loro vantaggiosa, e l’agenzia di rating, Standard & Poor’s, si è decisa a declassare la Parmalat soltanto quando la truffa era ormai nota a tutti.

 

Alla fine, questi complici della truffa non han pagato praticamente nulla,con tanti saluti alla giustizia italiana

 

Grazie alle privatizzazioni, un gruppo ristretto di ricchi italiani ha acquisito somme enormi, e ha permesso all’élite economico-finanziaria anglo-americana di esercitare un pesante controllo, sui cittadini, sulla politica e sul paese intero.

 

Agli italiani venne dato il contentino di “Mani Pulite”, che si risolse con numerose assoluzioni e qualche condanna a pochi anni di carcere. Un polverone che è servito solo a consentire il saccheggio e a rimuovere un sistema politico che lo ostacolava o comunque non in linea con i desiderata angloamericani.

 

Il nostro paese è oggi controllato realmente da un gruppo di persone, che impongono, attraverso istituti propagandati come “autorevoli” (Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), di privatizzare quello che ancora rimane e di attuare politiche non convenienti alla popolazione italiana. I nostri governi operano nell’interesse di questa élite, e non in quello del paese.

 

Questo, a grandi linee, è quanto veramente successo in quel 1992 che ha cambiato in peggio tutta la storia italiana. Il resto sono solo chiacchiere di stampa e politica, entrambe asservite, buone solo per la credulità del parco buoi, quello che in fondo paga sempre per tutti.

 

Uno dei pochi articoli di giornale di quell’anno che parla del convegno sul Britannia, lo presenta ovviamente quasi come un convegno istruttivo o stage per giovani managers!!!.

 

3 giugno 1992 -http://archiviostorico.corriere.it/1992/giugno/03/Inglesi_cat-tedra_privatizzazioni_fate_come_co_0_92060319034.shtml

 

A distanza di tempo, stessa cosa per il Club Bilderberg.

Libertà dalla stampa!!!!

 

Ci vuole in cieco per non vedere come tutti gli avvenimenti di quell’anno non siano in qualche modo collegati.Troppe coincidenze,e tutte nella stessa direzione.

 

Resta il fatto, che Draghi tenne un discorso a quella riunione, in cui disse esplicitamente che il principale ostacolo ad una “riforma” del sistema finanziario in Italia era rappresentato dal sistema politico.

 

Guarda caso, dopo la crociera sul Britannia partì l’attacco speculativo contro la lira e l’uragano di Mani Pulite che proprio quel sistema politico abbatté.

 

Certo è che lo svegliarsi improvviso della magistratura, che per anni aveva ignorato e insabbiato, sembra sia avvenuta proprio in un momento opportuno per fare “PiazzaPulita” di una classe politica con velleità italiote, e per ottenere le “ManiLibere” di fare entrare i governi dei “tecnici”, gli amici della Goldman e soci.

 

E qua, consentiteci anche di tirar in ballo il tanto vituperato Craxi.

Di sicuro un Craxi, per quanto corrotto, non avrebbe mai siglato un patto così scellerato, quello di svendere tutto il comparto nazionale produttivo del paese,lui che tenne testa agli americani nella vicenda dell’Achille Lauro, negando loro l’accesso al nostro territorio per attaccare i sequestratori della nave, e portando avanti le trattative con i terroristi nonostante il veto del presidente Reagan,sempre lui che negò agli Usa la base di Sigonella.

 

E, infatti, proprio qualche anno prima Craxi era stato duramente criticato dagli ambienti angloamericani,quegli stessi che non si privano mai d’interferire nella nostra politica interna per salvaguardare i loro interessi.

 

Chi tocca i fili Usa muore!

Ed è bene anche ricordare al solito popolo cornuto,mazziato e festante, che quando Craxi in Parlamento (mica ad annozero) invitò in pratica ad alzarsi chi non avesse preso tangenti,nessun prode mezzacartuccia italiota si alzò.

 

Questo tanto per fare un po’ di storia che le ipocrite tricoteuses attuali dimenticano.

Con l’aiuto della stampa iniziò una campagna martellante per incutere il timore nel popolo italiano di “non entrare in Europa”, manco non fossimo stati tra i Sei paesi fondatori…

 

Una campagna a cui presero parte attva “The Economist” e “Financial Times,fogli al servizio dei saccheggiatori.Ora come allora.

 

Te la raccomando la stampa inglese e i soliti fessi,o molto interessati,laudatores nostrani!

E questa è ormai storia, tant’è vero che sull’episodio del “panfilo Britannia” vi furono anche alcune interrogazioni parlamentari rimaste naturalmente senza risposta.

Fu l’inizio dell’era dei governi tecnici, dopo 40 anni di regime DC, con il “tecnico” Ciampi, il tecnico Amato, il tecnico Prodi.

 

Il governo doveva, a tutti i costi essere “tecnico”, pur di non fare arrivare al potere neanche un’idea, che fosse tale e che lo fosse per il bene del paese.

 

In questo “bene ” invece rientrò l’allontanamento di Enrico Cuccia,Mediobanca,che si oppose alla svendita diSme caldeggiata da Prodi.Si è poi visto come é finito questo colosso alimentare.

Lo stesso Prodi, che dal 1990 al 1993 fu consulente della Unilever e della Goldman Sachs, quando nel maggio del 1993 ritornò a capo dell’IRI riuscì a svendere la Cirio Bertolli alla Unilever al quarto del suo prezzo. Indovinate chi furono gli advisors!

 

Uomini della Goldman, che vi hanno lavorato sono, oltre a Costamagna e Prodi, Monti (catapultato alla carica di Commissario), Letta, Tononi e naturalmente Draghi. Sicuramente ce ne sono altri; molti nostri uomini politici se non hanno lavorato per la Goldman, lavoravano per l’FMI, come Padoa Schioppa, presidente della BEI, Banca europea per gli Investimenti

 

La classe dei tecnici, fedeli servitori delle banche e dei circoli finanziari angloamericani, il cui motto era “privatizzare per saccheggiare”. Quella della condizione di tecnicità per accedere al potere fu un imperativo talmente tassativo, da riuscire nell’intento di dividere il PCI, con una fetta che divenne sempre più “tecnica”, sempre più British, sempre più amica delle banche, sempre più PD.

 

Il premio di tutta questa svendita, prevista per filo e per segno, fu la nostra “entrata in Europa”, ovvero la cessione della nostra già minata sovranità monetaria dalla Banca d’Italia alla Banca centrale europea, per una moneta, l’euro che, con il tasso iniz iale di cambio imposto e troppo elevato, è all’origine di tante attuali sciagure.

 

Queste sono informazioni che dovrebbero essere divulgate e spiegate in lungo e in largo dalla stampa, ma che invece ha sempre occultato.

 

Le anime belle e buone parleranno di complottismo, che vediam congiure dappertutto…"

 

Fonte dell'articolo:

http://www.blog.art17.it/2011/07/07/il-sacco-ditalia-articolo-dedicato-a-mario-draghi-mr-britannia/

 

            

 

martedì 9 febbraio 2021

Los bienes comunes y los derechos de las mujeres

Los bienes comunes y los derechos de las mujeres

 

Introducción: los términos del litigio

 

Para introducir el tema y entender sobre qué queremos escribir, es útil recordar lo que escribió De Cristoferi: "cuando hablamos de la propiedad colectiva debemos considerar en primer lugar el hecho de que es un fenómeno que escapa fácilmente a las clasificaciones rígidas, por lo que cada disciplina académica ha enfatizado aspectos diferentes. En general, los bienes comunes, los usos cívicos o los derechos/propiedad/recursos colectivos indican ciertas modalidades de propiedad̀ y/o disfrute de determinados recursos (pero también de bienes inmateriales, en algunos casos) tanto para fines individuales como comunitarios por parte de una asociación de personas con dimensiones y caracteres variables de inclusividad y exclusividad. [...] El cambio de terminología en boga en varios sectores científicos, de propiedad colectiva/usos cívicos a bienes comunes, es indicativo de la alternancia de diferentes sensibilidades en el estudio de este tema y su percepción en el ámbito académico: en definitiva, podemos destacar cómo se ha pasado de un enfoque sustancialmente jurídico, con pluralidad de matrices y visiones (alemana, francesa, belga, inglesa), a otro de corte más económico y socioeconómico, de claro origen anglosajón".

(D. Cristoferi, Da usi civici a beni comuni: gli studi sulla proprietà collettiva nella medievistica e nella modernistica italiana e le principali tendenze internazionali, Studi Storici, vol. 57, no. 3, 2016, pp. 577-604.)  

 

El debate actual (o mejor dicho, la disputa), se centra en las dos opciones opuestas sobre si los "bienes comunes" deben ser privatizados (como pretenden el Banco Mundial y sus asociados) o deben ser protegidos como un "pool" de recursos conservados, gestionados y mejorados por un grupo de personas que generalmente llamamos "grupo” o “comunidad" (sedentaria y/o nómada).

 

El primero en teorizar la necesidad de retirar el control de estos recursos a la comunidad que hacía un uso comunitario/colectivo de ellos, fue G. Hardin con su famoso artículo sobre la "Tragedia de los comunes" (Hardin, G. 1968. The tragedy of the commons. Science, 261: 1243-1248). Habiéndose convertido en la base intelectual sobre la que se construyeron los castillos de la ideología neoliberal, hubo que esperar a los estudios de E. Ostrom para contraponer una visión, articulada y bien justificada, que explicara cómo la mejor gestión posible de estos recursos era precisamente la realizada, en sus diversas formas, por las comunidades que dependían de estos recursos.

(Ostrom, E. 1986. Issues of definition and theory: some conclusions and hyphotheses In Panel on Common Property Resource Management, Board of Science and Technology for International Development, Office of International Affairs, National Research Council, eds. Proceedings of the Conference on Common Property Resource Management, 21-26 April 1986. Washington, DC, National Academy Press).

 

La visión defendida por los neoliberales y los neoinstitucionalistas considera exclusivamente la dimensión económica del bien inmueble. Desde su punto de vista, se trata de "valorar" un bien (económico) y ello requiere su transformación en un bien privado, formal (con título) e individual. El fallo básico de estos análisis es olvidar, como nos recuerdan Lambert y Sindzingre, que en África la gente no posee la tierra como individuos, sino que la reclamación individual de un pedazo de tierra depende de formar parte de redes más amplias. Otro error sería considerar estas redes como estáticas. Si los recursos escasean, los agentes reajustan sus alianzas en otros niveles de grupo (por ejemplo, pasando del linaje a la jefatura o administración), jugando así con las reglas de la comunidad y las posibilidades variables de impugnación, según un proceso que no conduce linealmente del comunitarismo al individualismo. Los derechos se refieren a múltiples estratos (por ejemplo, en el caso de los cultivos de arbustos, los individuos con derechos sobre los árboles pueden ser diferentes de los que tienen derechos sobre la tierra) y a objetos igualmente múltiples (Lambert, S., Sindzingre, A.. Droits de propriété et modes d’accès à la terre en Afrique, FAO Land Reform, Land Settlement and Cooperatives, 1995). 

 

Lo que se entiende por la noción de tierra como mercancía, o la de "grupo", no siempre encuentra su equivalente en África: los agentes pertenecen simultáneamente a múltiples agrupaciones, voluntarias o no (familia nuclear, linajes, unidades de producción, unidades de consumo, rango en un ciclo vital, categorías de edad y de género, redes clientelares, etc.), que definen derechos con diferentes extensiones (por ejemplo, derechos a determinados cultivos, a determinadas tierras, como las parcelas inundadas para las mujeres en algunas sociedades).

 

El otro argumento que se esgrime a favor de la transformación de los bienes comunes en bienes privados e individuales se refiere a la seguridad de los titulares de derechos. En la visión que resumimos como "occidental" (Banco Mundial, economistas neoliberales...) la seguridad para los propietarios viene dada por el registro y por tanto por el título de propiedad. En el caso de los bienes comunes, en particular pero no exclusivamente en África, como nos recuerda Lavigne-Delville (Lavigne-Delville, Ph., Sécurité, insécurités, et sécurisation foncières : Un cadre conceptuel, FAO Land Reform, Land Settlement and Cooperatives, 2006/2) nos olvidamos de tener en cuenta todas las diferentes cuestiones de la tierra: cuestiones productivas, pero también cuestiones de identidad, de paz social y de ciudadanía. De hecho, la seguridad de la tenencia de la tierra es también un factor de paz social: la falta de claridad sobre los derechos, las normas impugnadas, provocan o fomentan los conflictos, los conflictos de buena fe, las manipulaciones o las luchas de poder.

 

Los partidarios de la privatización y el registro utilizan esta definición: "el derecho, que siente el propietario de una parcela, de gestionar y utilizar su parcela, de disponer de sus beneficios y de realizar transacciones, incluidas las transferencias temporales o permanentes, sin obstáculos ni interferencias de personas físicas o jurídicas" (Bruce, J.W. et Migot-Adholla, S.E. éds. 1994. Searching for land tenure security in Africa. Kendall/Hunt publishing company 282 p.). De hecho, Lavigne-Delville nos recuerda de nuevo (Lavigne-Delville, Ph., Sécurisation foncière, formalisation des droits, institutions de régulation foncière et investissements - Pour un cadre conceptuel élargi, FAO Land Tenure Journal, 2010/1) que de esta manera se define la propiedad privada, no la seguridad de la tierra. De hecho, los derechos de explotación obtenidos como propiedad indirecta pueden ser perfectamente seguros si se tiene un contrato claro (escrito o verbal) y la certeza de que este contrato será respetado; uno puede estar seguro de sus derechos, incluso con restricciones en el derecho de venta.

 

Lo que rige la gestión de estos recursos se ha ido denominando "red de intereses" (Meinzen-Dick R. Mwangi E., 2008. Cutting the web of interests. Land use policy, 26(1), 36-43), o un “conjunto de derechos” (J. W. Bruce, African tenure models at the turn of the century: individual property models and common property models - FAO Land Reform, Land Settlement and Cooperatives, 2000-1), apoyados por instituciones de diverso tipo, esencialmente informales pero con legitimidad social, encargadas de su respeto. Por ello, los sistemas consuetudinarios son seguros, flexibles y más adecuados para responder a las condiciones cambiantes impuestas por factores como el cambio climático.

 

Los bienes comunes y los derechos de las mujeres

 

Una vez aclarados los términos de la disputa actual, desde mi punto de vista es necesario ampliar esta discusión, por lo que propongo una observación desde un ángulo diferente, aprovechando también las experiencias de trabajo que hemos realizado en algunos países africanos.

 

La carrera por los recursos escasos ha tenido en las últimas décadas cada vez más protagonistas a la tierra y al agua. La mayoría de estos recursos, sobre todo en África, siguen bajo regímenes consuetudinarios, es decir, son "bienes comunes", una tradición tan antigua como la historia, muy desarrollada incluso en nuestros países europeos (para el caso italiano recomiendo la lectura: Forni, N. Herders and common property in evolution: an example from Central Italy, FAO Land Reform, Land Settlement and Cooperatives, 2000-1) e incluso aquí, en el pueblo donde escribo, Anguillara Sabazia, hasta hace pocos años. En definitiva, se trata de reglas múltiples, flexibles y adaptables que las comunidades han desarrollado a lo largo de los siglos para acceder, gestionar, explotar y resolver cualquier conflicto de uso.  

 

Con el tiempo (es decir, con la invención del Estado-Nación), se pudo pasar la idea (totalmente occidental y fruto del pensamiento neoliberal) de que los recursos así gestionados eran "res nullius" (sin derechos) y, por tanto, de hecho, propiedad de los nacientes Estados. Una expropiación totalmente ilegal que la comunidad internacional no sólo ha aceptado, sino que ha promovido siempre que ha sido posible y necesario para sus intereses.

 

A medida que estos recursos han empezado a escasear (por una combinación de razones, entre ellas la demografía, la sequía y el cambio climático, pero también el hambre de tierras por parte de usurpadores ajenos a estas realidades), la cuestión de su estatus, de simple diatriba local ha pasado a ser una guerra de varios niveles.

 

Box

Las mujeres africanas son responsables del 70% de la producción de alimentos. Además, representan casi la mitad de la mano de obra agrícola y se encargan del 80-90% de la transformación, el almacenamiento y el transporte de los alimentos, así como del desbroce y la escarda.

 

Pero las mujeres no suelen tener derechos sobre la tierra, señala Joan Kagwanja, responsable de seguridad alimentaria y desarrollo sostenible de la Comisión Económica de las Naciones Unidas para África (CEPA), con sede en Addis Abeba (Etiopía). Estos derechos suelen estar en manos de los hombres o de grupos de parentesco controlados por hombres, y las mujeres generalmente sólo tienen acceso a ellos a través de un pariente masculino. Las mujeres también se ven obligadas a menudo a entregar el dinero de la venta de productos agrícolas al pariente masculino y no pueden decidir cómo utilizarlo.

 

Este acceso limitado a la tierra es también muy precario. Un estudio realizado en Zambia revela que más de un tercio de las viudas se ven privadas del acceso a la tierra familiar tras la muerte de sus maridos. "Esta dependencia de los hombres es lo que hace vulnerables a muchas mujeres africanas", dijo Kagwanja a Afrique Renouveau ((https://www.un.org/africarenewal/fr/magazine/april-2008/droits-fonciers-le-combat-des-femmes)

FIN BOX

 

Como se ha dicho antes, por un lado teníamos y tenemos al Banco Mundial y a los diversos partidarios del liberalismo económico, cuya posición es dominante en los círculos de poder, por lo que hay que poner esos recursos en el mercado, lo que implica su catalogación y registro, para que se emitan títulos de propiedad como nos gusta a los occidentales. Por otro lado, encontramos un conjunto compuesto de fuerzas sociales, movimientos campesinos, académicos, algunos funcionarios gubernamentales de rango medio y, a veces, agencias internacionales de desarrollo, la ONU o agencias bilaterales que defienden el principio de que existen derechos muy antiguos (ancestrales y, en cualquier caso, anteriores a la invención del Estado-nación) sobre estos recursos.

También nosotros, con nuestro programa "Tierra", más largo, llevado a cabo en Mozambique desde la firma de los acuerdos de paz de 1992 hasta hace pocos años, hemos intervenido concretamente en la realidad política y de terreno donde esta lucha se ha manifestado con gran violencia.

Las mujeres mozambiqueñas que viven en el campo sufren los mismos problemas que las mujeres de cualquier otro país africano. El acceso a la tierra está sujeto a la aprobación del "regulo" (autoridad tradicional, casi exclusivamente masculina) y a una serie de costumbres y tradiciones destinadas a limitar al máximo sus derechos sobre la tierra. Como relata Chale Chambe en su tesis, "en caso de divorcio por adulterio, esterilidad, mala conducta y/o acusación de brujería, la mujer pierde el derecho de acceso y uso de la tierra y es devuelta a sus padres que le proporcionan un espacio para poder producir" (Chale Chambe, M.A., O accesso, posse e controle da terra das mulheres rurais nas comunidades do distrito de Inharrime, Tesis Doctoral, Universidad de Brasilia, 2016). 

La hipótesis de que existe alguna diferencia entre las sociedades matrilineales y las patrilineales es refutada por un estudio patrocinado por el Forum Mulher, una organización no gubernamental mozambiqueña dedicada a estos temas: "Las discusiones de grupo en las sociedades matrilineales revelaron que las mujeres no participan en la toma de decisiones relativas a la tierra y otras decisiones bastante importantes para la familia. [...] En el conjunto de las regiones patrilineales, una mujer no tiene derecho a la tierra en la casa de sus padres porque es una mujer, un día se casará y dejará la tierra, la misma mujer cuando se casa no tiene derecho a registrar la tierra a su nombre porque el derecho consuetudinario exige que la tierra se registre a nombre del hombre que es jefe de familia. Cuando un hombre muere, esta mujer suele ser expulsada por los familiares de su marido porque la tierra no le pertenece. Esta mujer vuelve a iniciar el nuevo ciclo y acude al líder tradicional, donde le dan un terreno en préstamo. La inseguridad de la mujer sobre el acceso y la propiedad de la tierra es continua, es un ciclo de inseguridad" (traducción personal) (Forum Mulher, 2018, Direitos Das Mulheres À Terra No Contexto Da Pluralidade De Direitos: O Caso De Moçambique). 

Una última consideración sobre los mecanismos de resolución de conflictos de la comunidad: la misma publicación nos recuerda cómo "En general, el órgano de resolución de conflictos de la comunidad no sólo está compuesto mayoritariamente por hombres, sino que las pocas mujeres que están en estos órganos no tienen voz y están presentes para legitimar las decisiones tomadas por los hombres" (traducción personal).

Otros autores han llegado a conclusiones similares, como Kisambu et al. en el caso de las comunidades de pastores de Tanzania: "Las creencias consuetudinarias suponen un reto constante para los derechos sobre la tierra de las mujeres pastoras de Lahoda. Por lo general, en la sociedad pastoril no se permite que las viudas hereden, y si se divorcian, las mujeres corren el riesgo de ser devueltas a sus padres sin siquiera las cosechas que han cultivado. A las niñas no se les permite heredar porque se espera que se casen y tengan derecho a obtener tierras para su uso de sus maridos" (traducción personal). La subordinación de las mujeres se confirma una vez más en los mecanismos de toma de decisiones a nivel comunitario, como ya se observó en Mozambique: "La escasa presencia de las mujeres, en particular, significa que las decisiones importantes sobre la gestión de los recursos se toman a menudo sin su participación, lo que perpetúa el dominio masculino de la toma de decisiones" (traducción personal). En pocas palabras: "Toda la cuestión de la igualdad de género y la paridad en la toma de decisiones está centrada principalmente en los hombres: las mujeres suelen ser las receptoras de las decisiones de los hombres y, en la mayoría de los casos, sólo participan en términos numéricos" (traducción personal) (Kisambu, N., Daley, E., Flintan, F., Pallas S., Pastoral Women’s Land Rights and Village Land Use Planning in Tanzania: Experiences from the Sustainable Rangeland Management Project – Documento presentato alla Conferenza della International Association for the Study of the Commons, Utrecht, Olanda, 10-14  Luglio 2017).

Si nos fijamos en el caso de Níger, a menudo considerado un ejemplo positivo, la FAO nos recuerda cómo "las normas consuetudinarias [...] siempre las han excluido de la herencia de la tierra" (traducción personal) y, paradójicamente, las mujeres consiguen tener un derecho mínimo de acceso a la tierra, sobre todo en el sur del país, gracias a la legislación musulmana (http://www.fao.org/gender-landrights-database/country-profiles/listcountries/customarylaw/inheritancesuccessiondefactopracticeschangedinoriginaltranslation/fr/?country_iso3=NER).

 

Ante estas realidades, nuestra estrategia fue la siguiente: en primer lugar, hacer que el gobierno reconozca el derecho legítimo de cada habitante del país a la tierra de su país. Esto se consolidó con la nueva política agraria en cuya elaboración nos invitó el gobierno a participar, aprobada en 1995. En segundo lugar, que quien hubiera utilizado o gestionado de buena fe durante un período suficientemente largo y sin interrupción una determinada porción de tierra, sin que ésta fuera impugnada por nadie más, tenía derecho a que se le reconociera legalmente ese derecho, para lo cual había que preparar, votar y poner en práctica una nueva ley. Una vez más, el gobierno confió a la FAO la tarea de facilitar el proceso proporcionando el personal necesario. La ley, ampliamente discutida y debatida en el país y posteriormente en el Parlamento, fue aprobada en 1997 (Tanner, Ch. Law-making in an African context: the 1997 Mozambican Land Law, FAO Legal Papers, 2002). 

 

Dado que existe una gran diferencia entre la teoría y la práctica, también era necesario aclarar cómo deben identificarse sobre el terreno estos derechos claramente especificados en la ley, con métodos participativos y evitando futuros conflictos con los vecinos (individuos o comunidades) por posibles reclamaciones de límites. Fueron necesarios más años de trabajo para desarrollar una propuesta metodológica consensuada, probada y ensayada en varias regiones del país con funcionarios del gobierno, comunidades campesinas, ONGs, universidades y, en nuestro caso, la dirección de la FAO. El producto final fue un Anexo Técnico a la ley de 1997, redactado y aprobado en 2000.  (Tanner, C., S. Baleira, S. Norfolk, B. Cau and J. Assulai (2006) Making Rights a Reality: Participation in Practice and Lessons Learned in Mozambique, FAO).

 

Todo esto, sin embargo, debía traducirse a su vez en prácticas cotidianas por parte de los funcionarios del gobierno, para evitar (o al menos reducir) las tradicionales posibilidades de corrupción, así como en el conocimiento de este conjunto de medidas por parte de las comunidades étnicamente diversas del país, cuyo denominador común era su escaso conocimiento de la lengua oficial hablada (el portugués). Por estas razones, en paralelo con el trabajo anterior, se llevó a cabo una intensa labor de formación/educación con las categorías mencionadas anteriormente, a través de cursos formales en el Centro de Formación Jurídica y Judicial (CFJJ), así como a través de prácticas más sencillas como el uso de teatro en lenguas locales, en colaboración con ONG locales y las instituciones gubernamentales. 

 

Este esfuerzo educativo debía servir también para otro propósito: fortalecer un clima de confianza mutua entre mandantes (instituciones gubernamentales monopartidistas) y gobernados (los ciudadanos), de modo que el principio de reconocimiento de los derechos ancestrales se convirtiera en una práctica común y habitual. Un esfuerzo necesario, ya que los inversores extranjeros se acercaron a exigir grandes extensiones de tierra para sus negocios, mediante las prácticas habituales inducidas por el actual sistema capitalista, es decir, la corrupción, el uso de la fuerza y la falta de respeto a los derechos.

 

Había que respetar unos límites para evitar entrar en confrontación directa con el gobierno, lo que no siempre era posible, por lo que a veces nuestro personal se encontraba en situación de ser considerado como persona non grata (sobre todo cuando llevábamos a cabo este mismo planteamiento en Angola), lo que suponía una ralentización del trabajo. Pero en general, y a pesar de la negativa del Banco Mundial a trabajar con su influencia política para fortalecer nuestro trabajo, podemos decir que ha habido una evolución a lo largo de los años que ha llevado a las comunidades no sólo a conocer y entender cómo funciona la legislación existente, sino también a fortalecer sus propias capacidades de resistencia frente a los abusos del Estado y de las empresas extranjeras. El aumento natural de la conflictividad, que tanto preocupaba a mis superiores jerárquicos, evidentemente más interesados en sus sillones y carreras que en mejorar las condiciones de vida de las poblaciones locales, era un resultado que esperábamos, porque demostraba que el equilibrio de poder estaba cambiando.

 

Las evidentes dificultades por parte de la comunidad de "donantes" para seguir apoyando a este grupo de "revolucionarios" que representaba nuestro equipo, demasiado independiente y fuera de la caja de la inútil cooperación tradicional, hicieron que poco a poco se fuera agotando la fuente de apoyo a nuestro trabajo.

 

Pero antes de eso, tuvimos tiempo de abrir la cuestión central, la que me llevó a escribir este pequeño artículo: ¡los derechos de las mujeres dentro de las comunidades!

 

La práctica del terreno en varios países africanos, asiáticos y latinoamericanos nos ha llevado a ver la evidencia de una fuerte asimetría de poder incluso dentro de las costumbres y tradiciones comunitarias. Esto no es nada nuevo, porque también fue una realidad en nuestra historia europea, en la que las mujeres siempre fueron las últimas ruedas del carro en cuanto a derechos, pero siempre las primeras en cuanto a deberes.

 

El problema era, por tanto, cómo tratar esta cuestión, con autoridades tradicionales casi exclusivamente masculinas, que defendían su poder en nombre de la antigüedad de las prácticas (costumbres y tradiciones), exactamente el mismo argumento que utilizamos para ayudar a estas comunidades frente a la prevaricación procedente de las instituciones estatales y/o internacionales.

 

Un país donante de Escandinavia, que se considera muy progresista en materia de igualdad de género, nos propuso una estrategia. Nos pidieron que preparáramos un nuevo proyecto en el que tendríamos que llevar a cabo una cierta titulación individual de porciones de tierras comunitarias a nombre exclusivo de las mujeres de esas comunidades. La idea era forzar a las autoridades tradicionales y enfrentarlas con la evidencia de que las mujeres podían tener parcelas de tierra, identificadas y registradas, para que ya no fuera posible expulsarlas en caso de muerte de familiares (lo que era muy común en aquellos años a causa del HIV). Aparte de la consideración obvia de por qué promover títulos individuales sólo para las mujeres de la comunidad, excluyendo a los varones (incluso a los jóvenes, para los que el acceso a la tierra no era especialmente fácil), nos enfrentamos a un problema complejo que era la necesaria autorización de las autoridades tradicionales para separar las piezas de tierra comunitaria y registrarlas a nombre de los individuos. Este mecanismo estaba previsto en la nueva ley, precisamente para garantizar que el control comunal de la tierra no se percibiera como una camisa de fuerza demasiado fuerte para aquellas personas que quisieran marcharse y monetizar sus derechos vendiendo "su" porción de tierra.

 

Un mecanismo democrático en su esencia, pero que no tenía ninguna esperanza de funcionar en el caso y de la manera que el donante tenía en mente. Además, quizás sin quererlo, promover la fragmentación de las tierras comunitarias en parcelas individuales era exactamente lo que el Banco Mundial quería que se hiciera. Esas parcelas se pondrían en el mercado (ya sea para su venta o como garantías bancarias), y poco a poco el mismo destino correría el resto de las tierras comunales. Como consecuencia, todo el trabajo político y jurídico realizado para salvaguardar los derechos comunales como "bien común" corría el riesgo de desmoronarse.

 

En consonancia con nuestro trabajo de muchos años, nos opusimos a los deseos del donante e hicimos una contrapropuesta: trabajar a partir de la construcción de un clima de confianza con las autoridades tradicionales, a las que habíamos ayudado a que se les reconocieran sus derechos territoriales, para convencerlas de que había que aplicar el mismo método democrático dentro de las comunidades, y ello en nombre de la ley suprema, la Constitución mozambiqueña, que establecía la igualdad de derechos entre hombres y mujeres.

 

Fue una tarea difícil y, sobre todo, larga. Nuestra hipótesis era que, sin el consentimiento de las autoridades tradicionales, el simple cuestionamiento de las costumbres y tradiciones promovido por entidades externas habría causado más problemas de los que habría resuelto. El método del diálogo y la negociación era nuestra principal vía, una vía que, sin embargo, estaba plagada de obstáculos y, sobre todo, no podía garantizar un resultado positivo a priori.

 

Una vez que convencimos al donante y aprobamos el proyecto, empezamos a estrechar los lazos de colaboración no sólo con las instituciones estatales, a nivel central y local, sino también con las organizaciones que defienden los derechos de las mujeres en particular. De este modo, las actividades de campo destinadas a sensibilizar sobre la política y la legislación de la tierra se modificaron ligeramente para incluir un componente específico dedicado a la cuestión de los derechos de las mujeres en las comunidades. El modo teatral fue claramente el más exitoso, porque era más fácil de entender y provocaba intensos debates entre los participantes, un objetivo clave de nuestro trabajo.

 

Al mismo tiempo, en particular con los cursos de formación del CFJJ, acentuamos la reflexión sobre este aspecto, para que los futuros jueces tuvieran no solo conocimiento de los textos legislativos, sino también de las dinámicas que tienen lugar en el país (Tanner, Ch., Bicchieri, M., When the Law is not enough, Estudio Legislativo de la FAO 110, 2014). 

 

La duración del proyecto no fue eterna, pero en los cinco años de trabajo se pudo llevar a cabo un programa intensivo de sensibilización y formación y conseguir que en algunos casos iniciales se alcanzaran por fin los primeros resultados: las mujeres de otras comunidades, casadas con varones nativos de la comunidad, murieron de HIV, en lugar de ver sus tierras -las que habían estado trabajando durante años- confiscadas por la familia como miembros originarios de la comunidad, estas mujeres alóctonas vieron reconocidos sus derechos por las autoridades tradicionales, y pudieron seguir gestionándolas por su cuenta (Bicchieri, M., Legal Pluralism, Women’s Land Rights and Gender Equality in Mozambique, FAO, 2017). 

 

Conclusiones

 

Una gota en el océano, se podría decir. Y sería cierto. Además, este trabajo no asegura que en el momento de la herencia esas mismas parcelas puedan ser transmitidas por esas mujeres alóctonas a sus descendientes masculinos y femeninos. Tampoco resuelve el problema del acceso a la tierra para las jóvenes que quieren dedicarse a la agricultura fuera del matrimonio. 

 

Así que somos muy conscientes de todas estas limitaciones. Pero la inquietud inicial sigue presente. La gran mayoría de los sistemas consuetudinarios no protegen los derechos de las mujeres, no promueven su subjetividad política y siempre tienden a marginarlas en roles dominados por los hombres. Por eso se plantea ahora un problema que todas las organizaciones (y movimientos) que pretenden defender los derechos de la comunidad en nombre del bien común deberían abordar: cómo garantizar que el grupo que se defiende, prevaricado por fuerzas mayores que querrían privatizar sus tierras en nombre de la economía de mercado, no se convierta a su vez en un grupo prevaricador contra sus propios miembros, simplemente por la diferencia de género.

 

La vía del enfoque sistémico basado en los principios de confianza y creación de credibilidad, diálogo y negociación, nos parece un camino útil. En muchos casos, los miembros de la comunidad consideran que el Estado y sus instituciones son el primer peligro para sus derechos sobre la tierra. Un Estado que abre sus puertas, o más bien las abre de par en par al capital extranjero interesado en las mejores tierras para fines que nada tienen que ver con los intereses de las comunidades locales. A menudo se ha hablado de intervenciones para promover la seguridad alimentaria nacional, como ocurrió en el famoso caso de ProSavana, con empresarios brasileños, apoyados por la Fundación Lula y el gobierno mozambiqueño interesados en realidad sólo en expropiar las mejores tierras del corredor de Nacala para producir maíz y soja transgénicos para enviarlos a Japón y China. La fuerte campaña internacional que se ha desarrollado ha conseguido frenar, al menos hasta ahora, este enésimo y monstruoso intento de acaparar recursos pertenecientes a las comunidades locales (https://www.africarivista.it/mozambico-le-mani-sulla-terra/179112/).

 

Pero cuando bajamos del nivel macro al nivel más local, la resistencia de las autoridades tradicionales y de la población masculina es igual de fuerte contra cualquier propuesta encaminada a avanzar en la igualdad de derechos tanto en lo que se refiere a los recursos naturales como a las relaciones familiares y a los papeles respectivos de hombres y mujeres en el ámbito familiar. Basta recordar el caso de Níger, donde los intentos de elaborar un Código de la Familia siempre han encallado en la cuestión del estatuto jurídico de la mujer(http://www.fao.org/gender-landrights-database/country-profiles/listcountries/nationallegalframework/womenspropertyanduserightsinpersonallaws/fr/?country_iso3=NER). Para entender cuáles son las verdaderas relaciones de poder, hay que recordar también que según el Código Civil de este país "los bienes de la mujer son gestionados y administrados por su marido" (traducción personal) (http://www.fao.org/gender-landrights-database/country-profiles/listcountries/nationallegalframework/womenspropertyanduserightsinpersonallaws/fr/?country_iso3=NER). 

 

Algunos autores tratan de ver el vaso medio lleno a toda costa, señalando cómo las mujeres, en Níger, pueden acceder a la tierra mediante la modalidad de "préstamo" (se les entrega una parcela del dominio familiar para que la cultiven y puedan disponer de la producción). Esta modalidad, informal, se describe como no precaria. Sin embargo, cuando se analiza la situación con más detalle, uno se da cuenta de que esta modalidad puede ponerse en cuestión por varios motivos: muerte del cabeza de familia, matrimonio o divorcio (recordamos cómo en el caso citado de Mozambique el marido puede divorciarse por toda una serie de razones increíbles: mal comportamiento, acusaciones de brujería, infertilidad de la mujer). Por lo tanto, los mismos autores se ven obligados a admitir que esta modalidad "no precaria" no es propicia para la inversión, como la perforación de un pozo, que significaría poner una marca de apropiación en la mujer. Las predicciones de estos mismos expertos dicen que esta modalidad se utilizará cada vez menos dada la creciente presión sobre la tierra (https://reca-niger.org/IMG/pdf/2016-01_Droit_foncier_des_femmes.pdf). 

 

La FAO también ha analizado estas cuestiones en otros países. Por ejemplo, en el caso de Senegal: "La realidad de campo muestra que las tierras tradicionales se gestionan actualmente en su mayor parte con arreglo al derecho consuetudinario, que rara vez reconoce los derechos de las mujeres sobre la tierra. Las mujeres representan el 26% de los administradores de parcelas en la agricultura, pero sólo poseen el 13% de la tierra en la agricultura de secano y la situación es peor en la agricultura de regadío" (traducción personal) (http://www.fao.org/3/ap532f/ap532f.pdf). Lo mismo ocurre en el caso de Burkina, donde, según el estudio de la FAO, "la exclusión de las mujeres del control y la gestión de la tierra es una de las principales características de los derechos consuetudinarios" (traducción personal) (Françoise Ki-Zerbo. 2004. Las mujeres rurales y el acceso a la información y a las instituciones para la protección de los derechos humanos. Etude de cas au Burkina Faso) (afirmación confirmada por otra especialista en el tema, Françoise B. Yoda: "La tierra tiene un carácter sagrado, que excluye a las mujeres de su gestión" (traducción personal) (http://www.fao.org/3/ak159f/ak159f32.pdf).

 

La conclusión que se impone es, pues, bastante clara: a pesar de los esfuerzos por hacer creer que las mujeres tienen un acceso seguro a la tierra en los regímenes consuetudinarios, la realidad nos dice lo contrario.

 

Ser capaz de cambiar las políticas y la legislación es, sin duda, un paso inicial importante (así al menos parece ponerlo de manifiesto el trabajo citado anteriormente en las comunidades de pastores de Tanzania, y así lo comprobamos en el caso de Mozambique). Pero esto no es suficiente. El camino que ensayamos estaba orientado a crear un clima de confianza en las autoridades tradicionales con las que veníamos trabajando desde hace años, para que se abrieran a escuchar y a aceptar aquellos cambios que pudieran propiciar, aún en la pérdida de una parte de su poder, un mayor equilibrio dentro de las comunidades de las que son responsables. 

 

Transformar a las autoridades tradicionales en agentes de cambio requiere claramente un esfuerzo sostenido por parte de instituciones creíbles, tanto gubernamentales como no gubernamentales, y es aquí donde los movimientos campesinos, así como las asociaciones de base de mujeres y hombres comprometidos con estos temas, pueden desempeñar un papel muy importante. Las sensibilizaciones prolongadas, los talleres de concertación, los manuales de género adaptados a las lenguas y culturas locales se convierten así en herramientas necesarias para provocar y acompañar estos cambios necesarios, como también lo confirman tanto Françoise B. Yoda y otro especialista, Cristiano Lozano (Formalizar derechos, conciliar con la legitimidad. Land security and women's participation in Burkina Faso, en Women, lands and markets - Rethinking rural development in sub-Saharan Africa, editado por R. Pellizzoli y G. Rossetti, IAO, 2013).

 

La cercanía de estas organizaciones a las realidades sobre el terreno, su credibilidad construida a lo largo de años de trabajo en favor de los/las agricultores/as, pastores/as y pescadores/as constituye una palanca de cambio de rumbo que las autoridades estatales no tienen ni tendrán durante mucho tiempo, al ser identificadas, por las prácticas corruptas y los abusos cometidos por ellas, como parte del problema y no de la solución.

 

Las experiencias de campo nos llevan a pensar que no es posible separar la cuestión de los derechos sobre las tierras comunes de la cuestión del cambio profundo en las relaciones hombre-mujer incluso dentro de la esfera reproductiva y la vida familiar. Mientras las mujeres puedan ser expulsadas mediante el mecanismo del divorcio por motivos de brujería, mal comportamiento o infertilidad, de poco servirá la sensibilización limitada a las cuestiones de la tierra. No cabe duda de que se trata de una larga lucha, pero cuanto antes nuestros compañeros de los movimientos campesinos empiecen a poner estas cuestiones en el centro de sus batallas, antes podremos empezar a esperar un mañana mejor.

 

Texto original en italiano.  Traducción personal al español, con la ayuda de DeepL.