giovedì 30 settembre 2010
Napoli e l'eterno problema della spazzatura: trovata la soluzione
Perché non averci pensato prima? Basta mettere in fila i camions e mandare tutto lí dentro... cosí siamo a posto per 50 anni.....
LULA FOR POPE
Con un indice di approvazione che supera l'80% e un livello di insoddisfatti attorno al 4% (http://www.politis.fr/La-preuve-par-Lula,11677.html)é chiaro che Lula, giá santificato nel suo paese, puó ambire a incarichi molto piú importanti.
Per questo, ispirati dalla foto del Financial Times, ci sentiamo di candidarlo al posto di Papa: contro Ratzinger non ci sarebbe partita, vincerebbe per 5 a 0. Immaginate poi la benedizione Urbi et Orbi che finisce con un TOUDO BEM MEUS AMIGOS!...
martedì 28 settembre 2010
Quarantaquattresimo libro 2010: Rendez-vous d'amour dans un pays en guerre - Luis Sepulveda
Résumé du livre
Fidèle à la tradition latino-américaine, Luis Sepulveda écrit des nouvelles. Il en a choisi 27 pour ce recueil, autour du thème du rendez-vous manqué en amitié, avec soi-même, avec le temps qui passe ou en amour. Ces histoires racontent des situations marquées par ces brisures, ces glissements que les protagonistes n'ont pas su ou pu éviter.
Onestamente ne ho trovate 3 o 4 di belle; Le champion; Une voiture s'est arretée au milieu de la nuit; Histoire d'amour sans paroles e A propos de quelque chose que j'ai perdu dans un train... le altre non proprio...
martedì 21 settembre 2010
Venti milioni senz' acqua la grande sete di Pechino
Repubblica — 17 settembre 2010 pagina 49 sezione: POLITICA ESTERA
L' estate delle alluvioni ha devastato decine di regioni cinesi, ucciso tremila persone e messo in ginocchio l' agricoltura. Non è bastata però a placare la grande sete di Pechino. Mentre il Sud annegava, la capitale è rimasta a secco, come gran parte del Nord del Paese, e le scorte d' acqua sono esaurite. Non pioveva così poco da dieci anni e i tecnici dell' Autorità di bacino lanciano l' allarme: «Ormai dobbiamo scavare a oltre mille metri di profondità e le falde continuano ad abbassarsi. In dieci anni sono scese di tredici metri e Pechino sorge ormai su una piattaforma di sabbia. Il terreno, sopra i bacini idrici, sprofonda di un metro all' anno». Nell' area metropolitana mancano fra i 300 e i 400 milioni di metri cubi d' acqua. I tentativi di far scaricare le perturbazioni monsoniche, sparando in cielo sostanze chimiche, sono falliti. Per salvarsi, negli ultimi cinque anni, la capitale ha acquistato 400 milioni di metri cubi d' acqua dalle regioni vicine, Shanxi ed Hebei. Fino al 2014, per evitare di sospendere le forniture in decine di distretti, ne occorrono però altri 600 milioni all' anno. Il problema non è solo che nessuno li ha. Anche se si trovassero, lontano e a costi esorbitanti, potrebbero non bastare. Il piano urbano ha previsto di fornire a Pechino 5 miliardi di metri cubi d' acqua all' anno fino al 2020. La popolazione non avrebbe dovuto superare i 17 milioni di persone. In luglio ha sfondato invece i 19,7 milioni, cui si aggiungono i 7,2 milioni di migranti. Se si somma Tianjin, unita da una periferia lunga oltre cento chilometri, si delinea il profilo di una megalopoli di 40 milioni di individui, pronta a raddoppiare in vent' anni. Dal 2015, per non morire di sete, o fermare le industrie, Pechino avrà bisogno di 6,5 miliardi di metri cubi d' acqua all' anno e gli scienziati avvertono che la nuova capitale dell' Asia potrebbe scoppiare. «Deviare le acque dal Sud - dice Zhou Ji, decano del dipartimento ambiente della Renmin University - non basta. Bisogna fermare urbanizzazione ed esplosione demografica, spostare lavoro e investimenti. Rischiamo una catastrofe naturale, il crollo dell' economia e l' instabilità sociale». L' emergenza idrica, per Pechino, non è una novità. Gli immensi bacini artificiali che la circondano, a Miyun e Guanting, hanno mezzo secolo. Ed è stato Mao a lanciare l' idea di spostare nell' arido Nord le masse d' acqua del Sud. Sembrava una follia dettata dall' invidia per l' Urss di Stalin, che aveva il problema opposto. Il mega-progetto di trasferimento idrico, in tre livelli e sette canali, è diventato invece una necessità e i primi tratti dovrebbero aprire nel 2014. Le acque dello Yangtze e del fiume Giallo, dirottate nello Han e nel fiume Azzurro, potrebbero scongiurare la desertificazione della capitale. Dopo dieci anni di lavoro, un investimento di 26 miliardi di euro e lo spostamento forzato di 1 milione di persone, muteranno destinazione 45 miliardi di metri cubi d' acqua. La rapidità dei cambiamenti, per l' ennesima volta, potrebbe però vanificare costi e sacrifici. La grande sete di Pechino non è solo l' effetto di clima sconvolto ed esplosione demografica. Migliaia di industrie, che si moltiplicano ogni giorno, consumano, inquinano e fanno abbassare il terreno. Un terzo degli acquedotti, quest' anno, s' è rotta a causa della pressione. Il boom del fabbisogno alimentare costringe le aziende agricole, ferme a tecniche irrigue primitive, a produzioni insostenibili. Il 60% delle sorgenti e dei bacini di raccolta sono poi inquinati ad un punto tale che nemmeno i trattamenti possono rendere potabile l' acqua. «I livelli di contaminazione del «South - North Water Diversion Project» - dice il direttore dell' opera, Zhang Jiao - sono così alti che l' acqua, nonostante 426 depuratori, sarà inutilizzabile per la gente e le campagne». Le autorità di Pechino, dopo 50 anni, scoprono che l' acqua in arrivo dal Sud, e sottratta all' India, è in realtà un concentrato di veleni. L' obiettivo diventa così ancora più titanico: smantellare e trasferire migliaia di distretti industriali, lungo la costa e all' interno, invertire i flussi migratori e cambiare la struttura produttiva della capitale, destinata a ospitare solo aziende hi - tech, pulite e con poco personale. Lo spettro di una natura distrutta non spaventa però 400 milioni di cinesi, ormai in marcia dai villaggi verso Pechino e le altre metropoli. Sanno che i soldi nascono tra i grattacieli e per sentirne il sapore sono disposti a morire di sete. - DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GIAMPAOLO VISETTI PECHINO
L' estate delle alluvioni ha devastato decine di regioni cinesi, ucciso tremila persone e messo in ginocchio l' agricoltura. Non è bastata però a placare la grande sete di Pechino. Mentre il Sud annegava, la capitale è rimasta a secco, come gran parte del Nord del Paese, e le scorte d' acqua sono esaurite. Non pioveva così poco da dieci anni e i tecnici dell' Autorità di bacino lanciano l' allarme: «Ormai dobbiamo scavare a oltre mille metri di profondità e le falde continuano ad abbassarsi. In dieci anni sono scese di tredici metri e Pechino sorge ormai su una piattaforma di sabbia. Il terreno, sopra i bacini idrici, sprofonda di un metro all' anno». Nell' area metropolitana mancano fra i 300 e i 400 milioni di metri cubi d' acqua. I tentativi di far scaricare le perturbazioni monsoniche, sparando in cielo sostanze chimiche, sono falliti. Per salvarsi, negli ultimi cinque anni, la capitale ha acquistato 400 milioni di metri cubi d' acqua dalle regioni vicine, Shanxi ed Hebei. Fino al 2014, per evitare di sospendere le forniture in decine di distretti, ne occorrono però altri 600 milioni all' anno. Il problema non è solo che nessuno li ha. Anche se si trovassero, lontano e a costi esorbitanti, potrebbero non bastare. Il piano urbano ha previsto di fornire a Pechino 5 miliardi di metri cubi d' acqua all' anno fino al 2020. La popolazione non avrebbe dovuto superare i 17 milioni di persone. In luglio ha sfondato invece i 19,7 milioni, cui si aggiungono i 7,2 milioni di migranti. Se si somma Tianjin, unita da una periferia lunga oltre cento chilometri, si delinea il profilo di una megalopoli di 40 milioni di individui, pronta a raddoppiare in vent' anni. Dal 2015, per non morire di sete, o fermare le industrie, Pechino avrà bisogno di 6,5 miliardi di metri cubi d' acqua all' anno e gli scienziati avvertono che la nuova capitale dell' Asia potrebbe scoppiare. «Deviare le acque dal Sud - dice Zhou Ji, decano del dipartimento ambiente della Renmin University - non basta. Bisogna fermare urbanizzazione ed esplosione demografica, spostare lavoro e investimenti. Rischiamo una catastrofe naturale, il crollo dell' economia e l' instabilità sociale». L' emergenza idrica, per Pechino, non è una novità. Gli immensi bacini artificiali che la circondano, a Miyun e Guanting, hanno mezzo secolo. Ed è stato Mao a lanciare l' idea di spostare nell' arido Nord le masse d' acqua del Sud. Sembrava una follia dettata dall' invidia per l' Urss di Stalin, che aveva il problema opposto. Il mega-progetto di trasferimento idrico, in tre livelli e sette canali, è diventato invece una necessità e i primi tratti dovrebbero aprire nel 2014. Le acque dello Yangtze e del fiume Giallo, dirottate nello Han e nel fiume Azzurro, potrebbero scongiurare la desertificazione della capitale. Dopo dieci anni di lavoro, un investimento di 26 miliardi di euro e lo spostamento forzato di 1 milione di persone, muteranno destinazione 45 miliardi di metri cubi d' acqua. La rapidità dei cambiamenti, per l' ennesima volta, potrebbe però vanificare costi e sacrifici. La grande sete di Pechino non è solo l' effetto di clima sconvolto ed esplosione demografica. Migliaia di industrie, che si moltiplicano ogni giorno, consumano, inquinano e fanno abbassare il terreno. Un terzo degli acquedotti, quest' anno, s' è rotta a causa della pressione. Il boom del fabbisogno alimentare costringe le aziende agricole, ferme a tecniche irrigue primitive, a produzioni insostenibili. Il 60% delle sorgenti e dei bacini di raccolta sono poi inquinati ad un punto tale che nemmeno i trattamenti possono rendere potabile l' acqua. «I livelli di contaminazione del «South - North Water Diversion Project» - dice il direttore dell' opera, Zhang Jiao - sono così alti che l' acqua, nonostante 426 depuratori, sarà inutilizzabile per la gente e le campagne». Le autorità di Pechino, dopo 50 anni, scoprono che l' acqua in arrivo dal Sud, e sottratta all' India, è in realtà un concentrato di veleni. L' obiettivo diventa così ancora più titanico: smantellare e trasferire migliaia di distretti industriali, lungo la costa e all' interno, invertire i flussi migratori e cambiare la struttura produttiva della capitale, destinata a ospitare solo aziende hi - tech, pulite e con poco personale. Lo spettro di una natura distrutta non spaventa però 400 milioni di cinesi, ormai in marcia dai villaggi verso Pechino e le altre metropoli. Sanno che i soldi nascono tra i grattacieli e per sentirne il sapore sono disposti a morire di sete. - DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GIAMPAOLO VISETTI PECHINO
La class action in rosa contro Goldman Sachs fa tremare Wall Street
ANCHE QUESTO VAL LA PENA LEGGERLO
Repubblica — 20 settembre 2010 pagina 10 sezione: AFFARI FINANZA
Ancora una volta l' immagine di Wall Street viene infangata da accuse a sfondo sessuale: festeggiamenti a spese aziendali in locali di spogliarello, escort vestite da Babbo Natale per le bicchierate di fine anno, avances sgradite da parte di molti dirigenti. Si dirà che è la cultura maschilista e plutocratica dell' alta finanza ad alimentare comportamenti del genere. E non è certo una novità, come ricordano tanti libri sulle malefatte di Wall Street, tanti film di successo e tante cause giudiziarie: come quella che sei anni fa costrinse la Morgan Stanley a pagare 54 milioni di dollari per chiudere una vertenza a luci rosse. Ma a rendere diversa la richiesta di class action per discriminazione sessuale presentata la settimana scorsa al tribunale federale di New York è proprio la banca finita nel mirino. Non si tratta di una piccola società di investimenti il cui boss si è montato la testa per qualche milione guadagnato in modo troppo facile e che si sente in diritto di spenderli come vuole, anche assoldando un esercito di escort. No, l' azione giudiziaria è nientemeno che contro la Goldman Sachs, la più ricca, la più astuta e la più arrogante banca di Wall Street: che proprio per queste ragioni è anche la più invisa dall' opinione pubblica. Non solo la Goldman ha appena pagato 550 milioni di dollari alla Sec per lo scandalo di una emissione di titoli spazzatura concordata con lo hedge fund di John Paulson, ma adesso due grandi studi legali, l' Outten & Golden di New York e il Lieff Cabraser Heimann & Bernstein di San Francisco l' hanno citata in giudizio per aver penalizzato, attraverso una cultura aziendale deviata, le donne che vi lavorano. "Le trattano come impiegate usaegetta di seconda classe", ha spiegato Kelly Dermody, che fa parte del team legale. Il gruppo, che ha 32mila dipendenti in tutto il mondo guidati da Lloyd Blankfein, ha registrato nel 2009 redditi per 45 miliardi di dollari e un utile netto di 13 miliardi. Lo staff è pagato profumatamente: sempre l' anno scorso la Goldman ha speso 16 miliardi di dollari in salari, benefit e bonus, cioè una media di oltre 400mila dollari per ogni impiegato, dalla telefonista appena assunta al partner vicino alla pensione. Ma le donne sostiene la causa sono state discriminate in termini di emolumenti, di promozioni e di occasioni di crescita professionale. Di fatto la banca ha solo il 29 per cento di donne tra i suoi vicepresident, il 17 per cento tra i managing directors e addirittura il 14 tra i partners. Di qui la richiesta di un maxirisarcimento anche a titolo punitivo. La Goldman Sachs nega ogni addebito. "Facciamo di tutto per assumere e valorizzare le professioniste di valore", sostiene il portavoce Lucas van Praag. Ma le tre exexecutives su cui si basa la class action Christina ChenOster, Lisa Parisi e Shanna Orlich raccontano una storia diversa, il cui riassunto si può leggere in un sito creato ad hoc www.goldmangendercase.com. La ChenOster, ad esempio, riferisce di una festa per la promozione di un collega maschio che si tenne a spese della Goldman da Scores, celebre locale di striptease di New York, mettendo in ovvio imbarazzo le colleghe che vi dovevano partecipare. a.zampaglione@repubblica.it - DI ARTURO ZAMPAGLIONE
Repubblica — 20 settembre 2010 pagina 10 sezione: AFFARI FINANZA
Ancora una volta l' immagine di Wall Street viene infangata da accuse a sfondo sessuale: festeggiamenti a spese aziendali in locali di spogliarello, escort vestite da Babbo Natale per le bicchierate di fine anno, avances sgradite da parte di molti dirigenti. Si dirà che è la cultura maschilista e plutocratica dell' alta finanza ad alimentare comportamenti del genere. E non è certo una novità, come ricordano tanti libri sulle malefatte di Wall Street, tanti film di successo e tante cause giudiziarie: come quella che sei anni fa costrinse la Morgan Stanley a pagare 54 milioni di dollari per chiudere una vertenza a luci rosse. Ma a rendere diversa la richiesta di class action per discriminazione sessuale presentata la settimana scorsa al tribunale federale di New York è proprio la banca finita nel mirino. Non si tratta di una piccola società di investimenti il cui boss si è montato la testa per qualche milione guadagnato in modo troppo facile e che si sente in diritto di spenderli come vuole, anche assoldando un esercito di escort. No, l' azione giudiziaria è nientemeno che contro la Goldman Sachs, la più ricca, la più astuta e la più arrogante banca di Wall Street: che proprio per queste ragioni è anche la più invisa dall' opinione pubblica. Non solo la Goldman ha appena pagato 550 milioni di dollari alla Sec per lo scandalo di una emissione di titoli spazzatura concordata con lo hedge fund di John Paulson, ma adesso due grandi studi legali, l' Outten & Golden di New York e il Lieff Cabraser Heimann & Bernstein di San Francisco l' hanno citata in giudizio per aver penalizzato, attraverso una cultura aziendale deviata, le donne che vi lavorano. "Le trattano come impiegate usaegetta di seconda classe", ha spiegato Kelly Dermody, che fa parte del team legale. Il gruppo, che ha 32mila dipendenti in tutto il mondo guidati da Lloyd Blankfein, ha registrato nel 2009 redditi per 45 miliardi di dollari e un utile netto di 13 miliardi. Lo staff è pagato profumatamente: sempre l' anno scorso la Goldman ha speso 16 miliardi di dollari in salari, benefit e bonus, cioè una media di oltre 400mila dollari per ogni impiegato, dalla telefonista appena assunta al partner vicino alla pensione. Ma le donne sostiene la causa sono state discriminate in termini di emolumenti, di promozioni e di occasioni di crescita professionale. Di fatto la banca ha solo il 29 per cento di donne tra i suoi vicepresident, il 17 per cento tra i managing directors e addirittura il 14 tra i partners. Di qui la richiesta di un maxirisarcimento anche a titolo punitivo. La Goldman Sachs nega ogni addebito. "Facciamo di tutto per assumere e valorizzare le professioniste di valore", sostiene il portavoce Lucas van Praag. Ma le tre exexecutives su cui si basa la class action Christina ChenOster, Lisa Parisi e Shanna Orlich raccontano una storia diversa, il cui riassunto si può leggere in un sito creato ad hoc www.goldmangendercase.com. La ChenOster, ad esempio, riferisce di una festa per la promozione di un collega maschio che si tenne a spese della Goldman da Scores, celebre locale di striptease di New York, mettendo in ovvio imbarazzo le colleghe che vi dovevano partecipare. a.zampaglione@repubblica.it - DI ARTURO ZAMPAGLIONE
La Lega tiene famiglia e piazza parenti e amici proprio come la vecchia Dc
Repubblica — 20 settembre 2010 pagina 10 sezione: AFFARI FINANZA
VAL LA PENA LEGGERLO
Posti di lavoro per i nostri figli», va declamando in questi giorni Umberto Bossi nei suoi comizi sincopati. Ma posti anche per fratelli, sorelle, mogli, nipoti, cugini, cognati, amanti e, pur se non consanguinei o affini, per padani di fede della prima e dell' ultima ora. Dalla Lombardia al Piemonte, dal Veneto al Friuli, dilaga il modello padano clientela & parentela, che ormai quasi ogni giorno svela un nuovo capitolo, condito di piccoli e grandi abusi sulle risorse pubbliche.Tanto da far esclamare al sindaco di Torino Sergio Chiamparino: «Com' è il detto leghista? Roma ladrona ? La Lega è peggio degli altri !». Quanto a clientela, i casi di familismo amorale emersi in questi giorni in tutto il nord spesso superano ogni più ardito precedente della prima repubblica. Alcuni fanno persino sfigurare la sfolgorante carriera politica del "Trota", che Bossi ha imposto in nome del noto detto padano "i figli so' piezz' e core". A Torino, dove il presidente Roberto Cota vuole trasferire il ministero del Lavoro, la Regione trabocca ormai di figli, mariti e mogli e congiunti vari dei nuovi potenti. A Brescia, in Provincia, abbiamo assistito al più incredibile concorso pubblico nella storia della prima e della seconda Repubblica: 700 concorrenti, 8 vincitori, di cui 5 signore e signorine di fede leghista: la moglie del vicesindaco di Brescia, la nipote dell' assessore all' Istruzione, due assistenti di un altro assessore, la capogruppo leghista nel consiglio comunale di Concesio. Da nord ovest a nord est è tutto un fiorire della clientelare pianta leghista. Solo per fare qualche caso, a Verona la moglie del sindaco Flavio Tosi è stata nominata dirigente e capo della segreteria dell' assessore alla Sanità; a Trieste la moglie di Maurizio Balocchi è stata assunta dal presidente del Consiglio regionale Eduard Ballaman, quello che usava l' autoblu per le gite con la fidanzata, che a sua volta è stata impiegata dall' ex sottosegretario all' Interno. Ma è a Milano che è partita nella sanità regionale la più scientifica operazione clientelare che si ricordi. A fine anno scade il mandato dei 45 direttori sanitari di Asl e aziende ospedaliere. Il Carroccio, forte della crescita elettorale, ne pretende 20 per insidiare il potere formigoniano di Comunione e Liberazione nella ricca sanità lombarda. Luciano Bresciani, medico personale di Bossi e assessore alla Sanità, punta su posizioni chiave, come quella all' ospedale di Brescia, il più grande d' Europa con i suoi 1.400 posti letto. Dati i precedenti, è facile prevedere che per scalare le 20 prestigiose poltrone il principale titolo professionale sarà considerato il grado di parentela con i potenti leghisti locali e nazionali. Il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli, inventore del federalismo alla padana, continua a ripetere che la Lega persegue il modello della Democrazia cristiana bavarese. Ma si è spinto un po' troppo a nord, visto che in termini di clientela e parentela il modello è indubitabilmente un altro: quello della Democrazia cristiana dorotea. a.statera@repubblica.it - DI ALBERTO STATERA
VAL LA PENA LEGGERLO
Posti di lavoro per i nostri figli», va declamando in questi giorni Umberto Bossi nei suoi comizi sincopati. Ma posti anche per fratelli, sorelle, mogli, nipoti, cugini, cognati, amanti e, pur se non consanguinei o affini, per padani di fede della prima e dell' ultima ora. Dalla Lombardia al Piemonte, dal Veneto al Friuli, dilaga il modello padano clientela & parentela, che ormai quasi ogni giorno svela un nuovo capitolo, condito di piccoli e grandi abusi sulle risorse pubbliche.Tanto da far esclamare al sindaco di Torino Sergio Chiamparino: «Com' è il detto leghista? Roma ladrona ? La Lega è peggio degli altri !». Quanto a clientela, i casi di familismo amorale emersi in questi giorni in tutto il nord spesso superano ogni più ardito precedente della prima repubblica. Alcuni fanno persino sfigurare la sfolgorante carriera politica del "Trota", che Bossi ha imposto in nome del noto detto padano "i figli so' piezz' e core". A Torino, dove il presidente Roberto Cota vuole trasferire il ministero del Lavoro, la Regione trabocca ormai di figli, mariti e mogli e congiunti vari dei nuovi potenti. A Brescia, in Provincia, abbiamo assistito al più incredibile concorso pubblico nella storia della prima e della seconda Repubblica: 700 concorrenti, 8 vincitori, di cui 5 signore e signorine di fede leghista: la moglie del vicesindaco di Brescia, la nipote dell' assessore all' Istruzione, due assistenti di un altro assessore, la capogruppo leghista nel consiglio comunale di Concesio. Da nord ovest a nord est è tutto un fiorire della clientelare pianta leghista. Solo per fare qualche caso, a Verona la moglie del sindaco Flavio Tosi è stata nominata dirigente e capo della segreteria dell' assessore alla Sanità; a Trieste la moglie di Maurizio Balocchi è stata assunta dal presidente del Consiglio regionale Eduard Ballaman, quello che usava l' autoblu per le gite con la fidanzata, che a sua volta è stata impiegata dall' ex sottosegretario all' Interno. Ma è a Milano che è partita nella sanità regionale la più scientifica operazione clientelare che si ricordi. A fine anno scade il mandato dei 45 direttori sanitari di Asl e aziende ospedaliere. Il Carroccio, forte della crescita elettorale, ne pretende 20 per insidiare il potere formigoniano di Comunione e Liberazione nella ricca sanità lombarda. Luciano Bresciani, medico personale di Bossi e assessore alla Sanità, punta su posizioni chiave, come quella all' ospedale di Brescia, il più grande d' Europa con i suoi 1.400 posti letto. Dati i precedenti, è facile prevedere che per scalare le 20 prestigiose poltrone il principale titolo professionale sarà considerato il grado di parentela con i potenti leghisti locali e nazionali. Il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli, inventore del federalismo alla padana, continua a ripetere che la Lega persegue il modello della Democrazia cristiana bavarese. Ma si è spinto un po' troppo a nord, visto che in termini di clientela e parentela il modello è indubitabilmente un altro: quello della Democrazia cristiana dorotea. a.statera@repubblica.it - DI ALBERTO STATERA
lunedì 20 settembre 2010
Ricetta Xuor: Fausses Poires à la Belle Hélène
pour 4 personnes
3 poires pelarle e togliere i semini; tagliate a pezzetti di 2 cm x 1 cm (poires matures et biologiche)
un resto di brioche (fatta in casa) tagliarla a pezzetti
un uovo (in una scodella), latte e un ciobar (vedi foto). Mescolare il tutto a freddo.
Mescolare i pezzetti della brioche nel miscuglio latte - uova e ciobar
Mettere nel piatto che va al forno; prima le pere (sotto) e poi coprire col miscuglio (miscela Leone).
Forno pre riscaldato a 180 (termostato 6) 30 minuti
Nel frattempo far tostare le Mandorle in una pentola antiadesiva.
Quando si tira fuori il piatto dal forno mettere le mandorle sopra. (vedi foto)
Mangiare tiepido o freddo (a piacere)
Timor's land law: The 'monster' in the room?
riceviamo e volentieri pubblichiamo
http://www.crisisgroup.org/en/regions/asia/south-east-asia/timor-leste/Timors%20land%20law%20The%20monster%20in%20the%20room.aspx
Cillian Nolan, The Interpreter | 16 Sep 2010
Eight years after independence, there is still no way to legally buy, sell, or prove undisputed ownership of land in Timor-Leste. When Timor-Leste's Vice Prime Minister Mario Carrascalão quit last week, his resignation letter noted that land ownership had been 'transformed into a monster' by hidden vested interests.
The need for a 'land law' has been talked about for so long that expectations are high after the Government approved a law on titling in March, now awaiting parliamentary approval. Few have read the complex law, which would establish the first ownership rights in a country that has inherited overlapping titles from Portuguese and Indonesian administrations. There's little data on how much of the country's land is subject to overlapping claims — many of the country's land records were destroyed in the violence surrounding the 1999 referendum.
A greater difficulty than reconciling these claims may be accommodating formal titling with the reality that the vast majority of the country's land remains under customary ownership, meaning communities turn to traditional leaders for guidance on usage and ownership.
In many areas, these long-standing customary rights are stronger than any formal title. In Dili, members of the former vice-prime minister's own influential family recently took a local leader to court for distributing land not far from the airport to residents in need of housing. He says it's 'empty land', but the Carrascalãos claim ownership based on an old Portuguese title.
In the country's second city, Baucau, state-owned land around an Indonesian-built gymnasium is contested by at least two communities: one believes it has rights to sell the land, while elders from another want to distribute it for free.
Evictions and resettlement will remain a challenge for the Timorese state. Efforts to enforce a 2003 law on state ownership of property have often failed. Compensation has been ad hoc and set bad precedents. After thousands of families whose homes were destroyed in the 2006 crisis were paid $4500, it is now difficult to resettle anyone for less. A constitutional right to housing exists, but there is no policy or funds to address this obligation. Not one displaced person re-settled after the most recent crisis was provided with government housing.
In rural areas, the issues are different. To boost agricultural productivity, pre-UN administrations resettled people near the border town of Maliana. This first brought settlers from neighbouring villages and later Balinese transmigrants, who fled in 1999. Since independence, tension over this land has led to violence between two villages (some say it was deadly, others say just an exchange of blows). After repeated mediation failed, the dispute was sent to court, joining the hundreds of 'pending' land disputes that are either caught in the overall judicial logjam or simply awaiting a clearer legislative basis to make a ruling.
As the ICG argued in its recent report, such complexities are not an excuse for more delay, but they should be a warning that something more than just a new titling regime is needed to address Timor-Leste's land problems.
Legally enforceable property rights will protect property transactions, promote economic development, and help consolidate rule of law. Implementing this will require a comprehensive government response, including a better legislative process that leaves behind a clear understanding with the public about the law's content and impact, especially who stands to win and lose from its passage.
Consistent policies for compensating those adversely affected and how to house those evicted are also needed. Mediation needs support, as the courts will be hard pressed to cope with the influx of cases. The social fabric of villages, which has held Timor-Leste together throughout its eight years of weak government, needs to be respected as much as any act of parliament.
Cillian Nolan is the International Crisis Group's Dili-based analyst.
http://www.crisisgroup.org/en/regions/asia/south-east-asia/timor-leste/Timors%20land%20law%20The%20monster%20in%20the%20room.aspx
Cillian Nolan, The Interpreter | 16 Sep 2010
Eight years after independence, there is still no way to legally buy, sell, or prove undisputed ownership of land in Timor-Leste. When Timor-Leste's Vice Prime Minister Mario Carrascalão quit last week, his resignation letter noted that land ownership had been 'transformed into a monster' by hidden vested interests.
The need for a 'land law' has been talked about for so long that expectations are high after the Government approved a law on titling in March, now awaiting parliamentary approval. Few have read the complex law, which would establish the first ownership rights in a country that has inherited overlapping titles from Portuguese and Indonesian administrations. There's little data on how much of the country's land is subject to overlapping claims — many of the country's land records were destroyed in the violence surrounding the 1999 referendum.
A greater difficulty than reconciling these claims may be accommodating formal titling with the reality that the vast majority of the country's land remains under customary ownership, meaning communities turn to traditional leaders for guidance on usage and ownership.
In many areas, these long-standing customary rights are stronger than any formal title. In Dili, members of the former vice-prime minister's own influential family recently took a local leader to court for distributing land not far from the airport to residents in need of housing. He says it's 'empty land', but the Carrascalãos claim ownership based on an old Portuguese title.
In the country's second city, Baucau, state-owned land around an Indonesian-built gymnasium is contested by at least two communities: one believes it has rights to sell the land, while elders from another want to distribute it for free.
Evictions and resettlement will remain a challenge for the Timorese state. Efforts to enforce a 2003 law on state ownership of property have often failed. Compensation has been ad hoc and set bad precedents. After thousands of families whose homes were destroyed in the 2006 crisis were paid $4500, it is now difficult to resettle anyone for less. A constitutional right to housing exists, but there is no policy or funds to address this obligation. Not one displaced person re-settled after the most recent crisis was provided with government housing.
In rural areas, the issues are different. To boost agricultural productivity, pre-UN administrations resettled people near the border town of Maliana. This first brought settlers from neighbouring villages and later Balinese transmigrants, who fled in 1999. Since independence, tension over this land has led to violence between two villages (some say it was deadly, others say just an exchange of blows). After repeated mediation failed, the dispute was sent to court, joining the hundreds of 'pending' land disputes that are either caught in the overall judicial logjam or simply awaiting a clearer legislative basis to make a ruling.
As the ICG argued in its recent report, such complexities are not an excuse for more delay, but they should be a warning that something more than just a new titling regime is needed to address Timor-Leste's land problems.
Legally enforceable property rights will protect property transactions, promote economic development, and help consolidate rule of law. Implementing this will require a comprehensive government response, including a better legislative process that leaves behind a clear understanding with the public about the law's content and impact, especially who stands to win and lose from its passage.
Consistent policies for compensating those adversely affected and how to house those evicted are also needed. Mediation needs support, as the courts will be hard pressed to cope with the influx of cases. The social fabric of villages, which has held Timor-Leste together throughout its eight years of weak government, needs to be respected as much as any act of parliament.
Cillian Nolan is the International Crisis Group's Dili-based analyst.
domenica 19 settembre 2010
Ricetta Xuor: Persillade de Funghi
2 porcini e 300 gr di finferli
pulire bene i finferli (con o senza acqua... ognuno fa come vuole) e togliere la terra ai porcini e puirli con la carta
tagliarli a pezzetti di un paio di centimetri
in una pentola mettere un po' d'olio (oppure anche metà col burro), fuoco vivo e mettere i funghi assieme a una persillade (prezzemolo tagliato fino con aglio)
non coprire.. la durata dipende dai funghi...
si possono usare anche i champignons de paris....
sabato 18 settembre 2010
Quarantatreesimo libro 2010: Zuku - Caryl Férey
Gallimard, Folio Policier
Enfant, Ali Neuman a fui pour échapper aux milices de l'Inkatha en guerre contre l'ANC. Même sa mère, seule rescapée de la famille, ne sait pas ce qu'il a enduré... Devenu chef de la police criminelle de Cape Town, vitrine de l'Afrique du Sud, Neuman doit composer avec la violence et le sida. Les choses dérapent lorsqu'on retrouve le cadavre d'une fille blanche massacrée après avoir absorbé une nouvelle drogue aux pouvoirs effrayants. Les townships - misère totale en bordure de plages idylliques - perdent leurs repères sous la pression de nouveaux arrivants. Neuman, dont la mère a été agressée, envoie en aveugle son bras droit sur une piste plus que dangereuse... Si l'apartheid a disparu, de vieux ennemis agissent toujours dans l'ombre...
gran bel libro: nella top five dell' anno
Per quanto riguarda il Project Coast citato nel libro, ecco cosa si trova su wiki:
Project Coast was a top-secret chemical and biological weapons (CBW) program instituted by the South African government during the apartheid era. Project Coast was the successor to a limited post-war CBW program which mainly produced the lethal agents CX powder and mustard gas; as well as non-lethal tear gas for riot control purposes.[1] Project Coast was headed by Wouter Basson, a cardiologist who was the personal physician of the then South African Prime Minister PW Botha.
Contents [hide]
1 History
2 Unusual features
3 References
4 External links
[edit] History
In the late 1970s, South Africa became increasingly involved in Angola in operations against Soviet-backed SWAPO, Cuban and Angolan troops. A perceived threat that its enemies had access to battlefield chemical and biological weapons led South Africa to begin ramping up its own program, initially as a defensive measure and in order to carry out research on vaccines. As the years went on, however, research was carried out into offensive uses of the newly-found capability. Finally, in 1981, then-president PW Botha ordered the South African Defence Force (SADF) to develop the technology to a point where it could be used effectively against South Africa's enemies. In response, the head of the SADF's South African Medical Service (SAMS) division, responsible for defensive CBW capabilities, hired Dr Wouter Basson, a cardiologist, to visit a number of countries and report back on their respective CBW capabilities. He returned with the recommendation that South Africa's program be scaled up, and in 1983, Project Coast was formed, with Dr Basson at its head.
In order to hide the program, and to make the procurement of CBW-related substances, Project Coast involved the formation of four front companies, Delta G Scientific Company, Roodeplaat Research Laboratories (RRL), Protechnik and Infladel.[2]
Progressively, Project Coast created a large variety of lethal offensive CBW toxins and biotoxins, in addition to the defensive measures. Initially, these were intended for use by the military in combat as a last resort. To this end, a leaf was taken out of the Soviet book, with a number of devices, designed to look like ordinary everyday objects, being created with the capabilities to poison those targeted for assassination. Examples included umbrellas and walking sticks which fired pellets containing poison, syringes disguised as screwdrivers, and poisoned beer cans and envelopes. In the early 1990s, with the end of apartheid, South Africa's various weapons of mass destruction programs were stopped. However, despite efforts to destroy equipment, stocks, and information from these programs, still remain. This has led to fears that they may find their way into the hands of terrorist networks. In May 2002, Daan Goosen - the former head of South Africa's biological weapons program - contacted the US FBI and offered to exchange existing bacterial stocks from the program in return for 5 million dollars together with immigration permits for him plus 19 other associates and their family members. The offer was eventually refused, with the FBI claiming that the strains were obsolete and therefore no longer a threat.
[edit] Unusual features
The South African chemical weapons program investigated all the standard CW agents such as irritant riot control agents, lethal nerve agents and anticholinergic deliriants, which have been researched by virtually all countries that have carried out CW research. However the South African program differed in its aims from the CBW programmes of many countries in that a major focus of the program was to develop non-lethal agents to help suppress internal dissent.[3] This led to the investigation of a number of unusual non-lethal agents, including illicit recreational drugs such as MDMA, methaqualone and cocaine, as well as several medicinal drugs such as diazepam, ketamine, suxamethonium and tubocurarine, as potential incapacitating agents. According to the testimony given by Wouter Basson to the Truth and Reconciliation Commission,[4] a number of analogues of these compounds were prepared and studied, and both methaqualone and MDMA (along with the deliriant BZ) were manufactured in large quantities and successfully weaponised into a fine dust or aerosol form that could be released over a crowd as a potential riot control agent. Wouter Basson was later found to have also been selling large quantities of MDMA and methaqualone as tablets on the black market, but the amount manufactured was far larger than what was sold and the court accepted that at least some genuine weaponisation and testing of these agents had been done.
Sempre su BP e Deepwater
da seguire questa pratica "innovativa" di BP, applicata su larga scala (vedere reportage di oggi 18 settembre su FR24: comprano interi dipartimenti di ricerca nelle università per impedire ai ricercatori di pubblicare qualsiasi cosa per almeno tre anni e con contratti di esclusiva che impediscono qualsiasi altra pubblicazione.
BP achète le silence de chercheurs.
par Julien Brossars le 24 juillet 2010
http://www.sauvonslarecherche.fr/spip.php?auteur5220
L’explosion - le 20 avril dernier dans le Golfe du Mexique - de la plate-forme pétrolière "Deepwater Horizon" exploitée par la compagnie anglaise BP (British Petroleum) est à l’origine de la pire marée noire que les Etats-Unis d’Amérique ont connus dans leur histoire.
Afin de mieux contrôler l’impact médiatique (et financier) que cette catastrophe pourrait avoir sur l’image de BP, la multinationale a proposé des contrats (Source ) aux chercheurs académiques limitant leur liberté de publier, diffuser et communiquer sur les effets de cette catastrophe. En effet, ces contrats stipulent qu’il leur est impossible de publier ou de présenter - sans l’accord de BP - des résultats de recherche avant 3 ans, ou avant que le plan de restauration ne soit approuvé.
"Malheureusement" pour BP et heureusement pour les citoyens, un média public britannique (en l’occurrence la BBC ) vient de dénoncer publiquement cette tentative de manipulation.
Coté scientifiques, Cary Nelson, le président de l’association américaine des professeurs d’Université vient de dénoncer - dans un article intitulé "BP and Academic Freedom" - cette tentative de corruption.
Cet exemple montre - une fois de plus - l’importance d’avoir une recherche publique la plus libre, indépendante et transparente qu’il soit, ainsi que des médias publics les plus indépendants de pouvoirs particuliers (politiques, économiques, religieux...).
LECTURE RECOMMANDEE: BP et le scandale Deepwater
BP cultive son sens de la provocation
par Guillaume Duhamel, Lundi 13 septembre 2010
http://www.zegreenweb.com/sinformer/nature-voyage/bp-cultive-son-sens-de-la-provocation,16091
Il n’est pas certain que les conclusions d’un rapport analogue commandé par les dirigeants des Exxon, Shell et autres Chevron auraient été différentes, mais l’enquête interne de BP minimise la responsabilité de la multinationale britannique dans l’explosion de Deep Water Horizon. Et ce n’est pas le plus grave…
Propriétaire de la plate-forme, le groupe Transocean n’est semble-t-il pas une icône du capitalisme moralisé, en plus d’avoir lui aussi, c’est une certitude, sa part de responsabilité dans le plus grand désastre écologique auquel aient été confrontés les États-Unis. La société Halliburton était quant à elle en charge de cimenter le puits Macondo, ce que les responsables de BP n’ont pas manqué de rappeler à chaque fois ou presque qu’ils ont eu à rendre des comptes aux autorités américaines.
On se souvient ainsi d’une audition mi-mai au Sénat au cours de laquelle chacune des trois entreprises s’employa à se décharger sur les deux autres, ce qui a donné lieu à un spectacle qualifié de « ridicule » par Barack Obama lui-même. Gageons que le chef de l’exécutif américain – très remonté contre BP et dont l’inimitié envers son futur ex-directeur général, le serial-gaffeur Tony Hayward (lequel a depuis cédé la place à Bob Dudley dans la gestion quotidienne de la marée noire dans le Golfe du Mexique), est de notoriété quasi-publique – ne goûte pas davantage la teneur du rapport interne de cent quatre-vingt douze pages publié mercredi.
« Une série d’erreurs impliquant plusieurs parties »
Quoique le contraire eut été étonnant celui-ci porte en effet l’accent sur le « partage des responsabilités » dans le génocide environnemental qu’a provoqué l’explosion de Deep Water Horizon, dont il faut également rappeler qu’elle a fait onze victimes et qui serait d’après les responsables de la sécurité de BP la tragique résultante « d’une série d’erreurs impliquant plusieurs parties ». Et ses auteurs de souligner les « décisions prises par plusieurs entreprises et équipes de travail » dans les heures et les minutes qui ont précédé la catastrophe.
Pas de mea culpa donc, et comme on pouvait s’y attendre la multinationale britannique ne s’est pas appesantie sur les violations des règles de sécurité pourtant maintes fois évoquées par le Congrès – ce que les plus pessimistes interprèteront comme un assentiment au maintien de certaines pratiques douteuses. Tout juste a-t-elle admis avoir validé « de manière incorrecte » les tests de pression sur le puits Macondo.
Reste maintenant à connaître l’impact de ce document sans valeur juridique sur les travaux de la Commission d’enquête indépendante nommée par Barack Obama. La stratégie de BP, elle, est on ne peut plus claire : pas question pour le groupe de payer seule les amendes et les indemnités, d’autant que des investissements considérables ont déjà été consenti pour non seulement réparer les dégâts (on se rapproche chaque jour du seuil symbolique de dix milliards de dollars, soit sept milliards huit cents millions d’euros) mais aussi se forger un début de conscience écologique via la création d’un fonds pour l’environnement. La multinationale britannique continue par ailleurs de marcher sur des œufs dans la mesure où elle peut encore se voir retirer les licences pour forer dans les eaux profondes du Golfe du Mexique, ce qui représenterait un manque à gagner considérable… et de nature à remettre en cause le financement de certaines opérations « vertes ».
Transocean explicitement visé
En reprochant à Transocean d’avoir échoué à « reconnaître et à réagir à la remontée d’hydrocarbures » pendant quarante minutes, BP espère que son bailleur ne sera pas le grand oublié de sanctions que l’opinion publique américaine souhaiterait exemplaires.
Elle aussi prévisible la riposte ne s’est pas faite attendre. « Le rapport tente de dissimuler les éléments cruciaux qui ont conduit à l’accident de Macondo : la conception irrémédiablement défectueuse du puits », a estimé Transocean, qui outre les graves accusations dont il fait l’objet doit verser d’énormes dividendes à ses actionnaires et est actuellement au bord du précipice.
Très compréhensible du strict point de vue économique, le système de défense des deux entreprises laisse néanmoins, étant donné les répercussions de la marée noire sur les populations et l’écosystème qui devraient appeler au minimum syndical de décence, un goût âcre dans la bouche. Bien que Transocean et Halliburton ne sauraient s’en sortir indemnes les conclusions de l’étude interne de BP seront en outre probablement suivies d’admonestations publiques, dont ses dirigeants sont certes devenus coutumiers.
Le renoncement récent du groupe à forer au Groenland est enfin largement contrebalancé par une sordide affaire en Libye, déjà évoquée dans nos colonnes fin juillet.
Le doute libyen
Des parlementaires américains ont réclamé l’ouverture d’une enquête approfondie à la suite de fortes présomptions sur le rôle joué par BP dans la libération du terroriste Abdelbaset al-Megrahi, commanditaire de l’attentat de Lockerbie… en l’échange de l’obtention de contrats pétroliers juteux. Le nouveau ministre britannique des Affaires étrangères a beau avoir écrit cet été à son homologue Hillary Clinton pour lui assurer que le géant pétrolier n’a pas contribué à cette sortie de prison très controversée (bien qu’officiellement pour raison de santé), le doute subsiste.
Il va sans dire que des suites judiciaires auraient une incidence sur des relations américano-britanniques dont certains experts disent qu’elles se sont déjà tendues ces dernières semaines. Quant aux forages au large des côtes libyennes, qui doivent débuter d’ici la fin de l’année, ils suscitent une autre polémique.
Car outre les risques écologiques de telles entreprises, ceux-ci se feraient deux cents mètres plus profondément que dans les eaux du Golfe du Mexique et au mépris d’une partie du patrimoine archéologique du pays. La cité portuaire d’Apollonia, située à cinq mètres en-dessous du niveau de la mer, serait particulièrement menacée, tout comme deux sites de la région de Tripoli pourtant classés au Patrimoine mondial.
BP assure avoir tiré des enseignements de la marée noire – ce serait il est vrai la moindre des choses et dans l’intérêt de tous – mais a bien sûr beaucoup de mal à convaincre.
Responsable de la Commission environnement au Sénat italien, Antonio d’Alli a rappelé que la Méditerranée est déjà l’une des mers les plus polluées du monde. À ses yeux et à ceux de beaucoup d’autres l’impact d’un déversement massif d’hydrocarbures serait irréversible.
La multinationale britannique a suscité un traumatisme mondial et son approche de l’exploitation des ressources pétrolières en eaux profondes ne suscite plus qu’une confiance très modérée. Elle continue toutefois de tout mettre en œuvre pour se faire haïr des défenseurs de l’environnement. Ceux qui la laissent faire uniquement pour des raisons financières ont la mémoire très courte. À croire qu’ils n’ont pas encore assimilé que les bénéfices deviennent gouffre en cas d’accident majeur.
Crédit photo : Wikimedia Commons - Edtrazer
par Guillaume Duhamel, Lundi 13 septembre 2010
http://www.zegreenweb.com/sinformer/nature-voyage/bp-cultive-son-sens-de-la-provocation,16091
Il n’est pas certain que les conclusions d’un rapport analogue commandé par les dirigeants des Exxon, Shell et autres Chevron auraient été différentes, mais l’enquête interne de BP minimise la responsabilité de la multinationale britannique dans l’explosion de Deep Water Horizon. Et ce n’est pas le plus grave…
Propriétaire de la plate-forme, le groupe Transocean n’est semble-t-il pas une icône du capitalisme moralisé, en plus d’avoir lui aussi, c’est une certitude, sa part de responsabilité dans le plus grand désastre écologique auquel aient été confrontés les États-Unis. La société Halliburton était quant à elle en charge de cimenter le puits Macondo, ce que les responsables de BP n’ont pas manqué de rappeler à chaque fois ou presque qu’ils ont eu à rendre des comptes aux autorités américaines.
On se souvient ainsi d’une audition mi-mai au Sénat au cours de laquelle chacune des trois entreprises s’employa à se décharger sur les deux autres, ce qui a donné lieu à un spectacle qualifié de « ridicule » par Barack Obama lui-même. Gageons que le chef de l’exécutif américain – très remonté contre BP et dont l’inimitié envers son futur ex-directeur général, le serial-gaffeur Tony Hayward (lequel a depuis cédé la place à Bob Dudley dans la gestion quotidienne de la marée noire dans le Golfe du Mexique), est de notoriété quasi-publique – ne goûte pas davantage la teneur du rapport interne de cent quatre-vingt douze pages publié mercredi.
« Une série d’erreurs impliquant plusieurs parties »
Quoique le contraire eut été étonnant celui-ci porte en effet l’accent sur le « partage des responsabilités » dans le génocide environnemental qu’a provoqué l’explosion de Deep Water Horizon, dont il faut également rappeler qu’elle a fait onze victimes et qui serait d’après les responsables de la sécurité de BP la tragique résultante « d’une série d’erreurs impliquant plusieurs parties ». Et ses auteurs de souligner les « décisions prises par plusieurs entreprises et équipes de travail » dans les heures et les minutes qui ont précédé la catastrophe.
Pas de mea culpa donc, et comme on pouvait s’y attendre la multinationale britannique ne s’est pas appesantie sur les violations des règles de sécurité pourtant maintes fois évoquées par le Congrès – ce que les plus pessimistes interprèteront comme un assentiment au maintien de certaines pratiques douteuses. Tout juste a-t-elle admis avoir validé « de manière incorrecte » les tests de pression sur le puits Macondo.
Reste maintenant à connaître l’impact de ce document sans valeur juridique sur les travaux de la Commission d’enquête indépendante nommée par Barack Obama. La stratégie de BP, elle, est on ne peut plus claire : pas question pour le groupe de payer seule les amendes et les indemnités, d’autant que des investissements considérables ont déjà été consenti pour non seulement réparer les dégâts (on se rapproche chaque jour du seuil symbolique de dix milliards de dollars, soit sept milliards huit cents millions d’euros) mais aussi se forger un début de conscience écologique via la création d’un fonds pour l’environnement. La multinationale britannique continue par ailleurs de marcher sur des œufs dans la mesure où elle peut encore se voir retirer les licences pour forer dans les eaux profondes du Golfe du Mexique, ce qui représenterait un manque à gagner considérable… et de nature à remettre en cause le financement de certaines opérations « vertes ».
Transocean explicitement visé
En reprochant à Transocean d’avoir échoué à « reconnaître et à réagir à la remontée d’hydrocarbures » pendant quarante minutes, BP espère que son bailleur ne sera pas le grand oublié de sanctions que l’opinion publique américaine souhaiterait exemplaires.
Elle aussi prévisible la riposte ne s’est pas faite attendre. « Le rapport tente de dissimuler les éléments cruciaux qui ont conduit à l’accident de Macondo : la conception irrémédiablement défectueuse du puits », a estimé Transocean, qui outre les graves accusations dont il fait l’objet doit verser d’énormes dividendes à ses actionnaires et est actuellement au bord du précipice.
Très compréhensible du strict point de vue économique, le système de défense des deux entreprises laisse néanmoins, étant donné les répercussions de la marée noire sur les populations et l’écosystème qui devraient appeler au minimum syndical de décence, un goût âcre dans la bouche. Bien que Transocean et Halliburton ne sauraient s’en sortir indemnes les conclusions de l’étude interne de BP seront en outre probablement suivies d’admonestations publiques, dont ses dirigeants sont certes devenus coutumiers.
Le renoncement récent du groupe à forer au Groenland est enfin largement contrebalancé par une sordide affaire en Libye, déjà évoquée dans nos colonnes fin juillet.
Le doute libyen
Des parlementaires américains ont réclamé l’ouverture d’une enquête approfondie à la suite de fortes présomptions sur le rôle joué par BP dans la libération du terroriste Abdelbaset al-Megrahi, commanditaire de l’attentat de Lockerbie… en l’échange de l’obtention de contrats pétroliers juteux. Le nouveau ministre britannique des Affaires étrangères a beau avoir écrit cet été à son homologue Hillary Clinton pour lui assurer que le géant pétrolier n’a pas contribué à cette sortie de prison très controversée (bien qu’officiellement pour raison de santé), le doute subsiste.
Il va sans dire que des suites judiciaires auraient une incidence sur des relations américano-britanniques dont certains experts disent qu’elles se sont déjà tendues ces dernières semaines. Quant aux forages au large des côtes libyennes, qui doivent débuter d’ici la fin de l’année, ils suscitent une autre polémique.
Car outre les risques écologiques de telles entreprises, ceux-ci se feraient deux cents mètres plus profondément que dans les eaux du Golfe du Mexique et au mépris d’une partie du patrimoine archéologique du pays. La cité portuaire d’Apollonia, située à cinq mètres en-dessous du niveau de la mer, serait particulièrement menacée, tout comme deux sites de la région de Tripoli pourtant classés au Patrimoine mondial.
BP assure avoir tiré des enseignements de la marée noire – ce serait il est vrai la moindre des choses et dans l’intérêt de tous – mais a bien sûr beaucoup de mal à convaincre.
Responsable de la Commission environnement au Sénat italien, Antonio d’Alli a rappelé que la Méditerranée est déjà l’une des mers les plus polluées du monde. À ses yeux et à ceux de beaucoup d’autres l’impact d’un déversement massif d’hydrocarbures serait irréversible.
La multinationale britannique a suscité un traumatisme mondial et son approche de l’exploitation des ressources pétrolières en eaux profondes ne suscite plus qu’une confiance très modérée. Elle continue toutefois de tout mettre en œuvre pour se faire haïr des défenseurs de l’environnement. Ceux qui la laissent faire uniquement pour des raisons financières ont la mémoire très courte. À croire qu’ils n’ont pas encore assimilé que les bénéfices deviennent gouffre en cas d’accident majeur.
Crédit photo : Wikimedia Commons - Edtrazer
domenica 12 settembre 2010
Ricetta Xuor: Soufflé au fromage
ricetta classica, Xuor mescola gruyère e parmiggiano (i bianchi d' uovo devono essere montati parecchio, con un pizzico di sale)
30 gr di burro (e altri 20 gr per imburrare il piatto)
50 gr farina
50 cl latte
3 uova
150 gr parmiggiano e 80 di groviera
noce moscata, sale e pepe
fare una besciamella con burro, farina e latte
salare, pepare e noce moscata; aggiungere uno a uno i tre tuorli, aggiungere mescolando il parmiggiano e groviera. Poi mettere pian piano il bianco dell' uovo, un cucchiaio alla volta.
Mettere in forno pre riscaldato a 180 per mezz'ora, 35 minuti... NON APRIRE MAI....
fra poco lo tiriamo fuori.. e MANGIARE SUBITO...
FORMART (Formelluzzo Art): le sculture che fanno del 2010 l’ anno d’oro di Mauro Martoriati
Picasso, Kalder e un po’ di Miro: il risultato è un grande Martoriati
Prossimamente un’intervista con l’artista che ci parlerà del passaggio dalla fase delle Espansioni alle Ali (foto prossimamente disponibili) ed infine alle 4 sculture che vedete qui presentate.
Vi invito a visitare il sito del Mestro www.mauromartoriati.com
venerdì 10 settembre 2010
Un libro non digerito: Tristano muore di Antonio Tabucchi
Feltrinelli, Universale Economica
Un'estate torrida in una vecchia casa in Toscana. Qui Tristano vive la sua lunga agonia: una cancrena gli divora la gamba, i dolori sono lancinanti e la malattia si estende a tutto il corpo. Lo assiste la vecchia Frau, la stessa che da bambino gli raccontava fiabe e poesie in tedesco, affinché imparasse la lingua. In uno stato allucinatorio, Tristano vecchio e incattivito, racconta di sé ad uno scrittore perché sia testimone della sua agonia e dei ricordi di una vita. Fantasmi di donne amate si sovrappongono nel delirio e poi la guerra, combattuta in Grecia, la scelta della libertà e della Resistenza. Alla fine della vita tutto appare uguale a se stesso, un incubo che tutto sovrasta e tutto circonda.
Non sono riuscito ad arrivare alla fine, pur avendoci provato due volte. La storia mi sembra molto contorta e, come dicevo sopra, indigeribile. Proverò qualcos altro di Tabucchi, ma questo proprio non lo consiglio a nessuno.
martedì 7 settembre 2010
Del por qué la idea de reforma agraria está perdiendo vigencia en América Latina
Paolo Groppo (i)
Introducción
Erase una vez, digamos, hasta la revolución mexicana, cuando nadie en América Latina se preocupaba por las condiciones de vida en el campo, sus ilegalidades y su miseria. Es con la llegada de Pancho Villa y Emiliano Zapata, que estos “miserables” entran en la historia por la gran puerta. Sus reivindicaciones ganan legitimidad y la clase política empieza poco a poco a darse cuenta que existe un problema de hambre y uno de apropiación diferenciada de los recursos naturales (algunos tienen mucho y otros no tienen nada).
Varias investigaciones demostraron las relaciones profundas existentes entre el hambre en las zonas rurales y la mala distribución de la tierra, dándole así argumentos fuertes a la necesidad de implementar reformas agrarias si se quería luchar contra el hambre (ii).
Con el pasar de los años, en particular al final de la segunda guerra mundial, la cuestión agraria cobró intensidad en todas partes del mundo. Estados Unidos, fuerte de su posición de ganador de la guerra, ordenó una reforma agraria profunda en Japón, en contra de aquellos grupos sociales que habían llevado el país a la guerra. De la misma manera otras reformas agrarias fueron impuestas en Taiwán, Corea del Sur y Filipinas. En los países del recién creado bloque socialista también se hicieron varias reformas agrarias, así como debemos de recordar los casos de la China comunista y de Italia.
No fueron todos procesos exitosos, al contrario muchos de ellos fracasaron rotundamente.
En la región latinoamericana los primeros intentos de modificar las estructuras agrarias se dieron en Bolivia y Guatemala en los años 50.
Bolivia vivió una profunda conmoción social por efecto de las generalizadas ocupaciones de haciendas en regiones de los valles y del altiplano a principios de la década de 1950. Cuando, en abril de 1952 tomó el poder por las armas, el Movimiento Nacionalista Revolucionario (MNR) no tenía claro su programa respecto a la cuestión de la tierra, aunque había formulado varios diseños provisorios que no llegaban a la propuesta explícita de una reforma agraria. Ésta se realizó como consecuencia de la rebelión indígena y de las tomas de tierras. Un año después de que entró en funciones el gobierno revolucionario, se promulgó en Ucureña el decreto que dio legalidad a la liberalización de la fuerza de trabajo rural-indígena y al reparto de tierras.
La Ley de Reforma Agraria de Bolivia se inspiró en un proceso similar iniciado 35 años antes en México (iii). Como parte de la estrategia de la marcha hacia el Oriente, la mayor cantidad de tierras se distribuyó en los departamentos y macroregiones que actualmente forman parte de las tierras bajas de Bolivia. “Los pueblos indígenas de Tierras Bajas fueron los grandes ausentes en este proceso. No se reconocían sus formas de vida, entre los que se cuentan sus sistemas tradicionales de ocupación del espacio, de aprovechamiento de los recursos naturales y prácticas culturales. Por falta de control en el proceso y deficiencias técnicas se promovió la sobreposición de derechos con el resultado de doble y hasta triple titulación en un mismo predio” (iv).
En el caso guatemalteco, el tema agrario apareció durante la presidencia de Jacobo Arbenz entre 1951 y 1954, siendo uno de los temas centrales de su programa. El objetivo era modificar una estructura agraria dominada por grandes terratenientes, en particular por las compañías extranjeras, como la estadounidense United Fruit Company (UFCO). La UFCO sola “poseía alrededor del 11% de las tierras guatemaltecas, que representaban el 63% de cultivaciones. El resto de la propiedad estaba prácticamente en un 2.2% de la población que tenían el 70% del espacio terrenal” (v).
Su gobierno logró un fuerte apoyo popular, aun cuando la Iglesia Católica se opuso a dicha reforma (Arbenz estaba ligado al partido Guatemalteco del Trabajador, un partido comunista que contaba con apoyo campesino). El decreto de reforma agraria indicaba como prioridad el “desarrollar la economía capitalista campesina y la economía capitalista de la agricultura en general” (vi). Las dificultades surgieron al momento de valorar la tierra a ser expropiada, debido a que el gobierno propuso usar los mismos valores catastrales declarados por la empresa, que eran muy bajos, y pagándole en bonos de la reforma agraria. Esto provocó una inmediata reacción del gobierno estadounidense que montó una operación para derrocar el gobierno, cosa que logró hacer en 1954.
Las tensiones sociales eran fuertes en muchos países y cuando Fidel Castro derrocó la dictadura de Batista en Cuba, una de las primeras leyes que firmó fue la ley de reforma agraria en mayo de 1959. Esta ley propuso, entre sus principales objetivos formales, la diversificación de la industria y la supresión de la dependencia del monocultivo azucarero. El gobierno revolucionario, con la implantación de esta ley, pretendía dar resguardo y estímulo a la industria, e impulsar la iniciativa privada mediante los necesarios incentivos, la protección arancelaria, la política fiscal y la acertada manipulación del crédito público, el privado y todas las otras formas de fomento industrial.
Se aspiraba también a que, con una redistribución de la propiedad agraria, se facilitara el surgimiento y extensión de nuevos cultivos que, además de proveer materias primas para la industria nacional, pudieran satisfacer las necesidades del consumo alimenticio, y se elevara la capacidad de consumo de la población, mediante el aumento progresivo del nivel de vida de los habitantes de las zonas rurales, lo que contribuiría, al extender el mercado interior, a la creación de industrias que resultan poco rentables en un mercado reducido.
Los términos en que se planteaba la reforma del régimen de tenencia de la tierra, tal como los concebía la ley, condujeron al deterioro de las relaciones diplomáticas y comerciales con los Estados Unidos. Los dos aspectos conflictivos del texto legal fueron el límite máximo de extensión de tierra (36 caballerías, o 402.6 hectáreas) que podría poseer una persona natural o jurídica (Artículo 1), y, una vez más, la forma de pago por las expropiaciones (Artículo 31).
El Artículo 31 de la Ley de Reforma Agraria estableció que las indemnizaciones por concepto de expropiación se cubrirían mediante bonos de la deuda pública pagaderos a 20 años, con un interés anual no mayor del 4,5 %. Esta disposición era inconstitucional, pues violaba el Artículo 24 de la Ley Fundamental, que había puesto en vigor el Consejo de Ministros (órgano con facultades legislativas tanto como ejecutivas) del gobierno revolucionario, que exigía el pago previo y en efectivo de la indemnización fijada judicialmente en caso de expropiaciones realizadas por causas justificadas y utilidad pública o interés social.
Lo que pudo resolverse en la mesa de negociaciones, dado el carácter inconstitucional del sistema de pago establecido por la ley agraria, se convirtió en un enfrentamiento ultranacionalista con los Estados Unidos, bajo los gritos de "¡La Reforma Agraria Va!", trayendo como corolario una escalada de mutuas represalias y de enemistad entre ambas naciones.
Con el pretexto de evitar los males del minifundio, el gobierno mantuvo el dominio de la mayoría de las tierras, y organizó su explotación mediante la formación de macroempresas agropecuarias. La nacionalización de los grandes latifundios sólo transformó la forma de apropiación de los mismos. Si en 1959, el 46 % del área nacional de fincas estaba en poder del 1,5 % de los propietarios, en 1998 el 87,4 % de las tierras agrícolas estaban bajo el dominio del gobierno socialista (vii).
A partir de los eventos cubanos la política pasa a mezclarse definitivamente con la cuestión agraria. El miedo inspirado por la revolución (y el fracaso de Playa Girón), obligaron a Estados Unidos a imponer a sus aliados en la región unas pseudo- reformas agrarias, a través del programa “Alianzas para el Progreso” que fue lanzado en Punta del Este en 1961 (viii).
Los procesos reformistas que de allí en adelante se dieron fueron en su mayoría relativamente blandos, debido a que el propósito principal no era la liquidación de los sistemas agrarios existentes, sino estimular modificaciones para reducir la presión social y evitar que esta se juntara con movimientos políticos de corte revolucionarios.
El listado es bastante largo, y un recorrido ideal podría empezar con la minimalista reforma de Alessandri en Chile en 1962, seguida por la Ley de Reforma Agraria de Frei Montalvo, que culminó en la profundización del proceso expropiatorio y reformador por parte del gobierno del Presidente Salvador Allende entre 1970 y 1973. En Perú se realizó una de las reformas agrarias más radicales de América del Sur. El Gobierno del general Juan Velasco Alvarado culminó un ciclo que puso fin al largo periodo en el que las haciendas tradicionales organizaban la sociedad y la economía provincianas en gran parte del país. La radicalidad de la reforma es mejor apreciada si se considera que 71 por ciento de las tierras de cultivo bajo riego, que habían sido de propiedad privada, fueron expropiadas y adjudicadas; lo propio ocurrió con 92 por ciento de las tierras de cultivo de secano (dependientes de las lluvias) y 57 por ciento de los pastos naturales. El porcentaje de beneficiarios, sin embargo, no fue tan espectacular: alrededor de una cuarta parte de familias rurales (370 mil) (ix).
Los resultados de estas reformas son mixtos, que se analicen los aspectos económicos, sociales y/o políticos. Se recomienda la lectura del artículo de C. Kay (x) para hacerse una idea bastante objetiva y completa. En general se considera que, tras el golpe militar de 1973 en Chile, se puede considerar cerrada la primera gran etapa de la reforma agraria en la región.
La “década perdida (xi)” de los 80s es generalmente considerada como el periodo cuando la cuestión agraria perdió de importancia en la región latinoamericana y en el mundo en general, a pesar de los esfuerzos realizados con la Conferencia mundial sobre reforma agraria y desarrollo rural (CMRADR) celebrada en 1979 en Roma por parte de FAO. Sin embargo, señales que el tema seguía vigente llegaron de varios países: Nicaragua y El Salvador (1979 y 1980) para lo que se refiere a Centroamérica, y Brasil más al sur. En este último, en 1983, diversas entidades (Contag, CPT, Cimi) lanzaron una campaña nacional para la reforma agraria, hasta que el tema fue incorporado en el programa de campaña de Tancredo Neves, en 1984 y, el año siguiente, el nuevo Presidente de la República José Sarney anunció el Primer Plano Nacional de Reforma Agraria, combatido duramente por parte de los grandes propietarios reunidos en la Unión Democrática Ruralista (UDR).
Es en este contexto que viene emergiendo el que será uno de los grupos más organizados entorno al tema agrario: el Movimiento de los Trabajadores Rurales Sin Tierra, más conocido como MST. Como lo cuenta Ricci (xii), “Los límites del sistema de representación político-social del medio rural brasileño (representado por organizaciones como las Ligas Campesinas y la CONTAG) empezó a ser duramente cuestionado desde el final de los años 70 por varios movimientos sociales dentro de varias categorías de trabajo, que se sentían poco o nada asistidas por parte de la estructura sindical vigente. El caso que más nos interesa es el relativo a la lucha por la tierra (que la CONTAG defendía solamente en los limites del Estatuto da Terra de 1964, excluyendo la lucha de los ribeirinhos, seringueiros, sin-tierra y bóias-frias).
Los movimientos sociales rurales de los años 80 son, por lo tanto, un campo de resistencia política, tanto contra el orden social que los excluye así como en contra de las organizaciones formales de representación social que no los aceptan. La resistencia, de esta forma, se caracteriza por un fuerte resentimiento, que busca amparo en la lectura de la Biblia […]. El misticismo retorna como energía moral de los segmentos sociales que se sienten abandonados. De allí su nítido carácter autónomo, frente a los partidos políticos y a las estructuras formales de representación. De allí también un discurso inundado de simbología, la naturaleza teleológica (casi profética) de las consignas. De allí la preferencia por estructuras de organización horizontales, el asamblearismo en la toma de decisiones, la fuerte desconfianza con relación a las instituciones públicas”.
La caída del Muro de Berlín (1989) y la subsiguiente desaparición de la Unión Soviética, provocó unos cambios importante entorno al tema.
El reconocimiento de la existencia de un problema ligado a la concentración de la tierra por parte del Banco Mundial, estimula a varios países a tener que interesarse al tema, sean países del ex-bloque socialista o de otras latitudes. El nuevo enfoque propuesto se articula a partir del papel central que se le da al mercado (xiii). La tierra es vista como un bien económico (un asset, o sea algo que se puede valorar en términos monetarios) como cualquier otro y la modificación de las estructuras agrarias ya no son políticas de gobiernos sino normales operaciones de mercado que hay que estimular para una mejor eficiencia económica (o sea, no más para luchar contra la pobreza y el hambre).
Simbólicamente el ejemplo central es, en 1992, la modificación del artículo 27 de la Constitución mexicana de 1917 (xiv) que abre las puertas a las ventas de las tierras ejidales y rompe uno de los tabú principales de la reforma agraria mexicana (xv).
El modelo que viene propuesto va asumiendo connotaciones bastante claras a pesar de los cambios continuos de nombre: reforma agraria negociada, ‘community-based’, ‘community managed’, ‘market-friendly’ y ‘market-assisted’, ‘market-led’, ‘market-based’, ‘willing-seller-willing buyer’, ‘non-confiscatory’ y finalmente ‘descentralized land-reform’ (xvi): un papel central del mercado y muy secundario por parte del Estado. Como bien dicen Sauer y Pereira, “este modelo no es una modalidad de reforma agraria redistributiva, porque se basa en el principio de la compra y venta voluntaria de tierra entre agentes privados, a la cual se suma un porcentaje variable de subsidio para inversiones socio-productivas (xvii).
Las implementaciones concretas de este modelo sin embargo han dado pié a resultados no particularmente satisfactorios, se trate del caso de Colombia (xviii), de Brasil o de Guatemala y Honduras en Centroamérica (xix).
Por su parte los movimientos campesinos vienen elaborando su propia propuesta de reforma agraria: por lo esencial se vincula la cuestión de la distribución de la tierra al tema de la soberanía alimentaria, una visión del campo no solo como lugar de producción económica sino como tejido social, cultural y paisajístico, con énfasis claro en el papel del ser humano como actor principal de estos procesos, sea de tipo individual sea, de preferencia, de tipo cooperativo (xx). El país donde más se han acercado las posiciones entre movimientos sociales y gobierno entorno al tema agrario, a partir de final de los años noventa, ha sido Brasil.
No vamos a entrar en un análisis detallado de las políticas agrarias de Brasil, sin embargo es oportuno recordar algunos hechos concretos. Con la (progresiva) vuelta a la democracia, una general reconsideración de las políticas anteriores, y el aparecer de nuevos temas en la agenda mundial (la cuestión ambiental en particular), la década de los 90 señala un cambio radical en la actuación de los gobiernos del país: refinanciamiento de la deuda agraria, tasas de interés preferencial para el crédito agrícola, con exenciones de impuestos para ciertos rubros, fin del congelamiento de los precios agrícolas, desvaluación de la tasa de cambio en 1999, restricción de importaciones de alimentos de países fuera del MERCOSUR y, principalmente el apoyo financiero creciente en particular al sector de la agricultura familiar y el aumento relevante de los asentados de la reforma agraria. Si nos limitamos al periodo 1994-2002 son casi 600 mil las familias asentadas, con un promedio anual de casi 75 mil familias (xxi).
El Gobierno brasileño decidió solicitar el apoyo de organismos internacionales para sentar las bases de la discusión del tema agrario, frente a las presiones opuestas que los movimientos campesinos hacían por un lado y las fuerzas conservadoras mantenían por el otro. Es por eso que con el apoyo del PNUD y de la FAO se emprendió un análisis detallado de la situación económica y social de los asentamientos de la reforma agraria para proporcionar elementos de respuesta a las cuestiones relativas a la viabilidad y el costo de esas políticas.
El trabajo demostró sin duda alguna que las políticas anteriores (con todas sus limitaciones) lograron asegurar un nivel de ingreso económico interesante, lo que aumentaba la credibilidad económica de estas decisiones eminentemente políticas (xxii). Es a partir de ese momento que va aumentando el espacio de actuación de quienes, en el país y en la región, defendían ese tipo de política. Es oportuno recordar que la cuestión agraria se juega en un campo minado, violento, y cada espacio ganado por los movimientos campesinos es a costa de un poder centenario mantenido por oligarquías muy arraigadas en los poderes del estado. Es por eso que a la aumentada importancia del tema agrario en el gobierno de Fernando Enrique Cardoso, es relativo al aumento de la violencia contra los líderes campesinos, como confirma la Comisión Pastoral de la Tierra (CPT) (xxiii): “en los últimos diez años, 8.082 conflictos violentos por la tierra han arrojado un saldo de 379 asesinatos (de líderes campesinos, sacerdotes, monjas, abogados)” (xxiv). El momento culmine fue en abril de 1996 cuando en el municipio de Eldorado do Carajás, en el Estado del Pará, la policía militar estatal mató a 17 campesinos sin tierra.
Las repercusiones mundiales fueron muy fuertes, obligando al gobierno a acelerar en sus políticas agrarias. Fue así creado un nuevo ministerio extraordinario para la política de tierra y el recién elaborado programa nacional de apoyo a la agricultura familiar (PRONAF), empezó a recibir recursos y fuerzas políticas (hasta pasar a ser el corazón del futuro Ministerio del desarrollo agrario que, pocos años después, substituyó el ministerio extraordinario).
En estos años aumenta el número de asentados, aunque no al nivel solicitado por los movimientos sociales; la política agraria empieza a ser más coherente y con más recursos, y es aquí cuando empieza a articularse la discusión entre reforma agraria y agricultura familiar.
La victoria electoral de Lula y del Partido de los Trabajadores (PT), con un fuerte apoyo por parte de los movimientos sociales, pareció señalar una victoria en general de todos los que abogaban por una reforma agraria masiva, y no solo en Brasil.
Sin embargo pocos meses fueron suficientes para que los movimientos sociales se dieran cuenta que las condiciones eran mucho más complicadas y que entre las promesas electorales y la realidad cotidiana había un mar que no cesará de ampliarse en los años siguientes. De cierta forma el caso brasileño es paradigmático de los cambios sucesivos: el tema de la reforma agraria, bandera del PT cuando era la oposición, toma una dimensión nueva, más moderada, una vez que el PT llega al poder: las articulaciones de fuerzas, las dinámicas de los mercados mundiales, la necesidad de mantener la “confianza” de los inversionistas extranjeros, etc., todos argumentos que plantean una necesidad, difícil de admitir públicamente, de repensar a fondo el tema de la reforma agraria.
Desde los primeros días del nuevo gobierno se anunció la formulación de un nuevo plan de reforma agraria, solicitando a un conocido especialista, intelectual orgánico a los movimientos sociales, Plinio de Arruda Sampaio, de liderar este proceso. El Plan proponía un objetivo de asentar 1 millón de familias en los 4 años de la Presidencia Lula, apuntando a un cambio de gran magnitud a la estructura agraria del país. A los pocos días de haber entregado este documento el gobierno salió a presentar una versión que fue llamada inmediatamente de más realista, donde los objetivos se reducían substancialmente: 400.000 familias hasta finales de 2006.
Los primeros años del gobierno Lula se caracterizaron por un aumento evidente de la conflictualidad en el campo, principalmente en las zonas de agricultura más moderna (Mato Grosso, Goiás, Mato Grosso do Sul, Tocantins, sul do Maranhão, oeste de Bahía, norte de Espírito Santo). El agronegocio aumentó su peso dentro del nuevo gobierno, con el nombramiento del Presidente de la Asociación Brasileña de Agronegocio, Roberto Rodrigues, como Ministro de Agricultura, y de Luis Fernando Furlan, propietario de una de las mayores empresas brasileñas del sector agroindustrial, como Ministro de Desarrollo, Industria y Comercio. Finalmente, es en este periodo que se libera la plantación y comercialización de productos transgenicos (en particular la soya) (xxv).
Los movimientos sociales y el MST entre ellos, al comienzo defendieron esta versión realista, con base en la difícil situación económica y la necesidad de mantener los acuerdos con el FMI. Sin embargo, poco a poco la situación cambió y las opciones del gobierno en materia agraria empezaron a provocar posicionamientos más críticos. Es así que los líderes del MST llegaron a afirmar que el “Gobierno Lula da Silva abandonó la Reforma Agraria” (xxvi, xxvii, xxviii, xxix) .
Las críticas se dan porque, entre tanto, el mismo sentido de “reforma agraria” ha venido modificándose: “[d]e política estatal de naturaleza distributiva que tendría como función corregir distorsiones en la ocupación de tierra y la naturaleza de la estructura productiva rural, la reforma agraria pasó a ser considerada como política compensatoria o acción mirada hacia eliminar tensiones en áreas de conflicto social. A lo largo de los años 90, el nuevo contorno de la política agrícola fue acentuándose y perdiendo los objetivos tradicionales de la reforma agraria. En el gobierno Lula, la reforma agraria pasó a ser substituida por el fomento al desarrollo territorial” (xxx).
Fuera de Brasil se asiste a un retroceso general del tema reformista. Los demás países que mantienen un posicionamiento en favor de la reforma agraria (por lo menos en sus declaraciones) no son muchos: Venezuela, Bolivia, Paraguay, Ecuador y Honduras. Este último tuvo su gobierno derrocado por un golpe justo un año atrás, y parece evidente que el tema de la reforma agraria no es una prioridad del nuevo gobierno. En el caso de Paraguay las dificultades del gobierno Lugo aparecieron inmediatamente por ser una Presidencia que no cuenta con una mayoría parlamentaria lo que, junto a la ausencia de recursos económicos y de personal cualificado, hace de este tema una tarea casi de tipo “misión imposible”.
En cuanto a Bolivia, la agenda agraria ha sido más acerca de las cuestiones indígenas que de la reforma agraria (xxxi). Y es por eso que hay marchas campesinas exigiéndole al Presidente Morales de implementar una “verdadera reforma agraria” (xxxii). Conocidos expertos en el tema también afirman: “el gobierno de Evo Morales enfrenta grandes dificultades para llevar adelante la “revolución agraria” prometida: desde el rechazo de los grandes propietarios de Santa Cruz hasta las dificultades para distribuir tierras entre los migrantes del Occidente que se instalan en el Oriente” (xxxiii); “A pesar de tener una base social de apoyo en los sectores indígenas y campesinos, las políticas de desarrollo agrícola y de autosuficiencia y soberanía alimentarias están ausentes, en medio de un freno a una reforma agraria que afecte a los grandes terratenientes y redistribuya la tierra” (xxxiv).
A mitad de los años 2000 se dieron algunos procesos que, a nivel mundial, intentaron que la reforma agraria volviera a instalarse en la agenda internacional de los países, tanto del norte como del sur. Primero fue el Foro Mundial de la Reforma Agraria “Pascual Carrión (xxxv)”, organizado en 2004 por un Comité Internacional presidido por el CERAI (xxxvi) de España, con una amplia participación de la sociedad civil y de los movimientos campesinos internacionales. Poco después fue la FAO, con el impulso del Ministro de Desarrollo Agrario de Brasil, Miguel Rossetto, la que organizó la Conferencia Internacional sobre Reforma Agraria y Desarrollo Rural (CIRADR) que se celebró en Porto Alegre en 2006 (xxxvii), veintisiete años después de la celebrada en 1979 (xxxviii).
En ambos casos se trató de momentos de diálogo, de reabertura de discusiones antiguas, con mucha atención hacia la construcción conjunta, buscando los elementos que podían permitir de entrar de manera más sistemática en las agendas de gobierno de los países miembros de naciones unidas. El punto central de ambas reuniones fue el reconocimiento del carácter dinámico de estos procesos agrarios, de la necesidad de actualizar el diagnóstico entorno a este tema, reconociendo la existencia de factores dominantes, como es el caso de la economía de mercado y la necesidad de aprender a competir internacionalmente, así como la emergencia de nuevos (o más bien viejos) actores que demandan una representación social de otro tipo: sean los pequeños productores familiares, o las mujeres rurales, los pescadores artesanales y/o los pueblos indígenas.
La aparición de la territorialidad y la progresiva perdida de vigencia de la reforma agraria
El tema de la reforma agraria siempre ha generado discusiones entorno a su definición conceptual, política y su implementación (tanto como sus resultados) prácticos. Mientras por un lado encontramos partidarios de una necesidad (¿utópica?) de reformas radicales de las estructuras agrarias, por el otro lado hay quien considera concluido (en la mayoría de los países de la región, no necesariamente en todos) el periodo histórico de implementación de las mismas y consideran prioritario buscar modernizar las explotaciones (todos los segmentos, especialmente los más pequeños).
Poco a poco se pasa así a configurar la idea de una reforma agraria no-agrícola, o sea, de un conjunto de medidas que estimulan el empleo a través del apoyo a actividades no-agrícolas. De allí viene surgiendo la discusión entorno al rurbano y, progresivamente, al tema de la territorialidad. Este tema estaba teniendo un auge importante en Europa, debido a la necesidad de repensar profundamente la política agrícola comunitaria, y la cuestión de la territorialidad pasó a ser la nueva frontera de este debate. Algunos organismos internacionales (como la OCDE y la misma FAO) empezaron a darle más atención al tema, y fue así que rápidamente entró en el debate regional latinoamericano.
El lanzamiento oficial podemos datarlo en 2002, cuando aparecen algunas de las primeras publicaciones entorno a este tema (xxxix, xxl, xli).
La FAO participa en este debate a través de una propuesta, oriunda de los trabajos anteriores en materia de sistemas agrarios y de agricultura familiar, basada en los principios del dialogo y negociación (xlii). Se trata de una visión del desarrollo territorial que parte de la hipótesis central que una fuerte agricultura familiar es el pívot alrededor del cual articular procesos de desarrollo no solamente agrícolas. La constatación de la multifuncionalidad del paisaje agrario, de la competencia creciente por parte de numerosos actores, procedentes de distintos horizontes, de la emergencia de nuevos actores y del aumento de los conflictos entorno a estos recursos, nos lleva a estimular una reflexión amplia, a partir de las acciones pasadas en las distintas partes del mundo, con aportes internos y externos a la organización.
La visión que conlleva el Desarrollo Territorial Participativo y Negociado es que las estructuras agrarias (en la mayoría de los países) de hoy no son las mismas de las décadas anteriores, que hay que “aprender haciendo” y que frente a una inestabilidad general en el campo, generada por un conjunto de factores internos y externos, se necesita pensar en mecanismos de diálogo político donde las organizaciones campesinas, los pueblos autóctonos, las mujeres rurales, los pescadores artesanales, etc. sean reconocidos como ‘partners’ importantes en la búsqueda de nuevas articulaciones sociales que apunten a renegociar las asimetrías de poder existentes.
La base histórica está representada por lo que Mazoyer llamaría la evolución y diferenciación de los sistemas agrarios de los países hoy en día “desarrollados” (xliii), apuntando al papel central que la agricultura familiar tuvo en el proceso de acumulación (capitalista) de los países del norte. En este sentido es necesario estimular procesos de reforma agraria para mejorar la distribución de la tierra, mirando a la creación de sectores de agriculturas familiar que puedan sí competir en el mercado, sin embargo valorando no solo la dimensión económica sino promoviendo una visión agroecológica tal como la recomienda Altieri (xliv).
Siendo la competencia mundial cada día más dura, también son necesarios esfuerzos que modifiquen la relación que está subordinada al sector tecnológico-químico, teniendo en línea de mira una agricultura más conservacionista, más ligada a las realidades territoriales locales, donde la raíz “cultura” de la palabra agricultura sea más valorado en su conjunto (no solo productivo sino como salvaguardia de paisaje, de tradiciones, de técnicas y de biodiversidad).
Es un desafío de largo alcance que debe ser planteado en forma de propuesta; no se trata de una revolución, sino de un abordaje reformista que, al reconocer (y estimular) a los gobiernos como actores centrales de estos procesos, indica la necesidad de repensar su actuación en favor de mecanismos más transparentes, democráticos de manera que aumente la legitimidad social de sus políticas.
Conclusiones: por donde va el río
En estos años más recientes asistimos como a un repliegue de los movimientos sociales campesinos, lo que me lleva a hacer estas consideraciones personales en forma de estímulo para así poder retomar el tema a partir de los principios de la CIRADR.
La hipótesis (de quien escribe) sobre la pérdida de protagonismo de los movimientos agrarios en estos años recientes tiene que ver con la “decepción” al darse cuenta que entre ser oposición y ser gobierno hay grandes diferencias, y que muchos de los sueños se transformaron en pesadillas, provocando una resaca de la cual no se han recuperado todavía. Esos eran los años cuando, por la presencia de un sinnúmero de gobiernos progresistas en la región, era legítimo pensar que el tema agrario podía ser retomado a partir de perspectivas más progresistas. Las lecciones de la modernización del agro chileno, bajo los gobiernos de la Concertación, su capacidad de articularse a los sectores empresariales con un empuje fuerte de la agricultura campesina, podía ser un punto de partida muy interesante, así como las experiencias cooperativas que varios movimientos estaban dando en la parte de transformación y comercialización de la producción. La aparición del “fair trade”, el nuevo interés por prácticas conservacionistas y la necesaria mayor disponibilidad política de los sectores conservadores, todos parecen ser elementos interesantes para no solo un debate sino unas políticas más activas en la cuestión de la estructura agraria latinoamericana.
Las experiencias políticas de varios gobiernos progresistas han resultado en un aumento en la disidencia de los movimientos (campesinos e indígenas) hacia sus representantes gubernamentales. En las décadas anteriores era más fácil para los grupos políticos de oposición recetar cambios estructurales; de allí surgía la alianza natural con los movimientos sociales que articulaban esa lucha en el campo. El pasaje a tener responsabilidades de gobierno ha enfriado mucho de los entusiasmos porque casi nadie se ha atrevido a enfrentar estructuralmente este tema. Por su lado, los movimientos parecen ser más débiles y no han logrado todavía elaborar la capacidad de formar alianzas políticas que les permita volver a ocupar el centro del debate. Una autocrítica a nivel de estos movimientos campesinos sería necesaria. En muchos casos, tienen su parte de responsabilidad en lo que está pasando ahora. Y surgen otros movimientos que no están dentro de las grandes corrientes y que sí han sabido marcar puntos y abrir caminos.
Las luchas indígenas van por su lado y aun cuando haya elementos de cercanía y de alianzas tácticas con los movimientos campesinos, los caminos de mediano plazo por el momento son todavía divergentes.
El FMRA (2004), desde la sociedad civil, y la CIRADR (2006) desde la FAO, fueron los vértices de alta importancia para poder retomar el tema; sin embargo hasta el momento no ha sido posible articular ningún programa de seguimiento serio de los acuerdos adoptados.
El escenario parece aún peor cuando consideramos este nuevo auge de la competición por la tierra (xlv) a partir de la crisis alimentaria de un par de años atrás. Este acaparamiento de tierras por parte de grandes poderes, nacionales u internacionales, de gobierno o privados, empieza a darse también en la región latinoamericana, con un modelo productivo de tipo extractivista, todo lo contrario a lo que consideramos necesario para estos países (xvi). Las luchas y los conflictos locales continúan, pero también la opinión pública está menos sensible, casi cansada con esto.
No obstante, aún cuando todo parece un decline en este tema, aparecen novedades por allí donde uno menos lo espera. El caso más emblemático es posiblemente Colombia donde la necesidad de una reforma agraria como camino de salida del conflicto interno era muy evidente para todos los especialistas; sin embargo, lo único que se observó en esos últimos años fue una contrarreforma agraria con un aumento de la concentración de la tierra, así aumentando las tensiones sociales en el país (xlvii). La reciente elección presidencial, ganada por el candidato conservador Juan Manuel Santos, de repente podría traer un elemento de novedad con la declaración pública de un renovado interés urgente para tratar el tema de la reforma agraria, un tema que era la bandera del polo de izquierda (xlviii).
Es así que voy terminando este artículo con un mensaje de esperanza. Es necesario que la sociedad organizada, con sus movimientos y organizaciones, siga empujando hacia “otro mundo”; sin embargo, parece también necesario decir que si creemos en dinámicas sociales donde el “abajo hacia arriba” tenga un lugar aceptable y reconocido, es indispensable que los movimientos sociales miren más hacia adentro con una modestia que no siempre las caracteriza. Ya no es aceptable que las fuerzas, además de limitadas, se dividan en centenas de micro fuerzas a veces más interesadas en su propia visibilidad que en articular una plataforma común. Llegó la hora de decirse que no es más posible seguir así. Juntar fuerzas significa aprender a negociar unos intereses comunes, hacia una plataforma de verdadera colaboración.
También será necesario pensar en alianzas fuera de los sectores tradicionales, con segmentos del sector privado, y/o dentro de los organismos internacionales. La agenda de trabajo del tema tierra hoy en día debe lograr articular muchas más variables que antes: no sólo luchar contra una reconcentración de la misma, o contra el creciente acaparamiento; sino preocuparse con la dimensión de género, la ambiental, la calidad de los productos (o sea el peso creciente que tienen las grandes cadenas de supermercados) y finalmente, con lo que significa para el ser humano relacionarse con su herencia histórica representada por estos paisajes, esos territorios que producen cultura e historia.
Hay muchos temas y pocas fuerzas articuladas para llegar a tocarlos todos de manera sincronizada. Debemos unir fuerzas: un pequeño paso hacia atrás por parte de todos para recomenzar sobre bases más “modestas” pero más fuertes porque serán fuerzas que se juntan, de manera a tener el coraje y la capacidad para enfrentar estos grandes retos que tenemos por delante.
=========================================================================
(I) Oficial de desarrollo territorial, División de Tierras y Aguas, FAO. Las opiniones expresadas son a título personal. Agradezco a: Carolina Cenerini, Luisa Elena Guillén Dordelly, Marilu Franco, Vicent Garces, Sevy Madureira, Michel Merlet, Pablo Siderski, Octavio Sotomayor y Francisco Carranza por sus sugerencias y comentarios.
(II) de Castro, J. 1946. Geografía del Hambre. Río de Janeiro
(III) Urioste, M. 2004/2. Bolivia: el abandono de la reforma agraria en zonas de los valles y el altiplano. Reforma agraria, colonización y cooperativas, Roma, FAO
(IV) Rojas Calizaya, J.C.. 2006 La reforma agraria boliviana - Recuento Histórico de sus Marchas y
Contramarchas. Presentado en la Consulta de expertos en reforma agraria en América latina, FAO-RLC
(V) Zachrisson Girón, M. sf. La Peste Bubónica en Guatemala: La Reforma Agraria de Arbenz. http://www.eleutheria.ufm.edu/ArticulosPDF/071211_Pestebubonicadearbenz.pdf consultado el 13 de agosto de 2010.
(VI) Decreto 900, 17 de junio de 1952: Artículo 3 citado en Zachrisson,
(VII) Viera, M. J. 1998. Adónde se fue la reforma agraria http://www.cubanet.org/CNews/y98/may98/22a4.htm consultado el 13 de agosto de 2010.
(VIII) Alegrett, R. 2003/2. Evolución y tendencias de las reformas agrarias en América Latina. Reforma agraria, colonización y cooperativas, Roma, FAO.
(XIX) Eguren, F. 2006. La reforma agraria en el Perú. Presentado en la Consulta de expertos en reforma agraria en América latina, FAO-RLC
(X) Kay, C. 1998/2. Latin America's agrarian reform: lights and shadows. Reforma agraria, colonización y cooperativas. Roma, FAO
(XI) Década pérdida es un término empleado para designar un período de estancamiento en un país o región. Se utilizó por primera vez en Gran Bretaña para designar al período de la posguerra (1945-1955). Se volvió a usar para describir la depresión económica de América Latina en la década de 1980. http://es.wikipedia.org/wiki/D%C3%A9cada_perdida consultada el 13 de agosto de 2010.
(XII) Ricci, R. 2005. A trajetória dos movimentos sociais no campo: história, teoria social e práticas de governos. Revista Espaço Academico N. 54. http://www.espacoacademico.com.br/054/54ricci.htm
(XIII) Concheiro B. L.; García, M.T. 1998. Privatización en el mundo rural. Las historias de un desencuentro. UNAM, México.
(XIV) The most significant symbol of the neoliberal winds sweeping through Latin America has been the change in 1992 of Article 27 of Mexico's Constitution of 1917, which had opened the road to Latin America's first agrarian reform and which enshrined a principal demand for "land and liberty" by the peasant insurgents during the Mexican revolution. Before 1992 no government had dared to modify this key principle of Mexico's Constitution, but the forces of globalization and neoliberalism proved too strong to resist and the government took the risk of tackling this hitherto sacred cow (Randall, 1996). The new agrarian law marks the end of Mexico's agrarian reforms. It allows the sale of land of the reform sector and the establishment of joint ventures with private investors including foreign capitalists, thereby indicating Mexico's commitment to the North American Free Trade Agreement (NAFTA). C. Kay art. cit.
(XV) Barahona, A.Ch. Tierra, Agua y Maíz. 2002. Realidad y utopía. UNICEDES, Morelos, México
(XVI) Lipton, M. 2009. Land Reform in Developing Countries – Property rights and property wrongs. Routledge, New York,
(XVII) Sauer, S., Mendes Pereira, J.M. A “reforma agrária de mercado” do Banco Mundial no Brasil Texto publicado na revista Proposta, dezembro/fevereiro, nº 107, ano 30. Dirección: www.fase.org.br
(XVIII) Mondragón, H. Colombia: ¿Reforma agraria o mercado de tierras?
El programa de mercado subsidiado de tierras fue propuesto por el Banco Mundial y establecido por la ley 160 de 1994. Fue anunciado con bombos y platillos, como si fuera una forma de garantizar el acceso de los campesinos a la propiedad de la tierra, eliminando las interferencias burocráticas y la “innecesaria” intervención del estado. Ahora, sin embargo, se ve que su cubrimiento ha sido mínimo y para completar, ha sido puesto en la encrucijada por la crisis en que lo han sumido las altas tasas de interés, la mora en los pagos que deben hacer los “beneficiarios” y el cada vez más reducido presupuesto del Incora.
(XIX) Téllez, R. El Banco Mundial y su política de tierra. http://www.landnetamericas.org/docs/bm-politica%20de%20tierra%20Ramiro%20T%E9llez.pdf consultado el 4 de agosto de 2010
(XX) IIAR. 2006. Territorios – Reforma Agraria Integral, Ciudad de Guatemala, Guatemala
(XXI) Guanziroli, C. 2003. O porque da reforma agrarian. http://www.uff.br/revistaeconomica/v4n1/guanziroli.pdf consultado el 4 de agosto de 2010
(XXII) FAO-PNUD BRA/87/022. 1993."Principais indicadores socio-económicos...", Brasilia, FAO
(XXIII) http://www.cptnacional.org.br/index.php
(XXIV) Sampaio, P. A. 2005. La Reforma Agraria en América Latina: una revolución frustrada. En publicación: OSAL, Observatorio Social de América Latina, año VI, no. 16 . CLACSO, Consejo Latinoamericano de Ciencias Sociales, Buenos Aires.
(XXV) Porto-Gonçalves, C. W.. 2005. A Nova Questão Agrária e a Reinvenção do Campesinato: o caso do MST. En publicación: OSAL, Observatorio Social de América Latina, año VI, no. 16 . CLACSO, Consejo Latinoamericano de Ciencias Sociales, Buenos Aires, Argentina
(XXVI) intervención de Charles Trocate, de la coordinación nacional del MST en http://www.kaosenlared.net/noticia/governo-lula-da-silva-abandonou-reforma-agraria: “Trocate afirma que os primeiros quatro anos do governo Lula foram medíocres: “Houve uma briga de estatísticas, mas, no final, eles não assentaram mais do que 65 mil famílias”. No segundo mandato, para justificar os parcos números, priorizou-se o discurso de se fazer a reforma agrária de qualidade, ou seja, com melhores condições nos assentamentos. No entanto, a realidade é outra. “Não se enfrenta o latifúndio e nem se tem dado a infra-estrutura fundamental, essencial para os assentamentos que já existem”, lamenta o dirigente do MST”.
(XXVI) Reforma agrária regrediu no governo Lula, diz Stedile http://noticias.uol.com.br/politica/2009/08/15/ult5773u2075.jhtm
(XXVIII) Lula não fez reforma agrária, mas somente política de assentamentos” Gilmar Mauto, da coordenação nacional do MST, http://www.reformaagraria.blog.br/2010/05/03/lula-nao-fez-reforma-agraria-mas-somente-politica-de-assentamentos/
(XXIX) Sem reforma agrária, índios e lavradores tornaram-se 'inconvenientes', diz Casaldáliga “Para o dom Pedro Casaldáliga, ex-bispo que de São Félix do Araguaia (MT), o governo do presidente Luiz Inácio Lula da Silva ficou aquém do esperado em relação à causa indígena e à reforma agrária. Conhecido por sua atuação em defesa dos direitos humanos e contra as desigualdades sociais no campo, Casaldáliga fez as afirmações em entrevista ao Jornal Brasil Atual. "Duas decepções, duas cobranças que fazemos ao Lula são precisamente (referentes) a causa indígena e a reforma agrária", resume. "Aí está falhando gravemente o governo. http://www.redebrasilatual.com.br/temas/cidadania/reivindicamos-essa-reforma-agraria-que-nao-se-faz-diz-dom-pedro-cadaldaliga consultado el 2 de agosto de 2010
(XXX) Ricci, R. art. cit.
(XXXI) Recrudecen los choques entre campesinos, indígenas y el MST; la disputa es por tierras http://fobomade.org.bo/bsena/?p=675 consultado el 2 de agosto de 2010
(XXXII) http://www.fmbolivia.net/noticia14102-bolivia-los-sin-tierra-marchan-a-la-paz-por-reforma-agraria.html
(XXXIII) Miguel Urioste: La “revolución agraria” de Evo Morales: desafíos de un proceso complejo. 2009. http://www.ftierra.org/ft/index.php?option=com_content&view=article&id=1757:rair&catid=75:tierra&Itemid=66
(XXXIV) Eduardo Paz Rada: Movimientos en la coyuntura boliviana: Oposiciones políticas y desafíos de Evo Morales. http://lahistoriadeldia.wordpress.com/2010/07/29/movimientos-en-la-coyuntura-boliviana-oposiciones-politicas-y-desafios-de-evo-morales/
(XXXV) Ingeniero Agrónomo, redactor de La ley de Reforma Agraria promulgada en 1932 por la II Republica Española.
(XXXVI) Foro Mundial sobre la Reforma Agraria (FMRA), http://www.fmra.org/
(XXXVII) http://www.icarrd.org/sito.html
(XXXVIII) http://www.icarrd.org/sito.html
(XXXIX) Abramovay, R. 2002. " Desenvolvimento rural territorial e capital social", in: Sabourin, Eric. P. e Teixeira, Olívio .A. (eds.) - Planejamento e desenvolvimento dos territórios rurais: conceitos, controvérsias e experiências - Brasília: - Embrapa-Cirad-Ufpb
(XL)Echeverri, R., Ribero, M.P.. 2002. Nueva Ruralidad: visión del territorio en América Latina y el Caribe, IICA, San José
(XLI) FAO. 2002. Le diagnostic territorial participatif vers la table de négociation : orientations méthodologiques, documento de trabajo, Roma
(XLII) FAO: Desarrollo Territorial Participativo y Negociado, FAO, Roma, 2005 http://www.fao.org/sd/dim_in3/in3_060503_es.htm
(XLIII) Mazoyer, M.; Roudart L. 2001. História das agriculturas do mundo: do neolítico à crise contemporânea. Lisboa, Instituto Piaget
(XLIV) Altieri, M. 2008. Small farms as a planetary ecological asset: Five key reasons why we should support the revitalization of small farms in the Global South http://www.foodfirst.org/en/node/2115 consultado el 19 de agosto de 2010.
(XLV) Merlet, M. 2010. Les grands enjeux de l’évolution du foncier agricole et forestier dans le monde en « Etudes foncières » n. 143, enero-febrero 2010.
(XLVI) GRAIN, 2010. El Nuevo acaparamiento de tierras en América Latina http://www.grain.org/articles/?id=62 consultado el 11 de agosto de 2010.
(XLVII) Fajardo, D. 2002. Para sembrar la paz hay que aflojar la tierra. UNA. Bogotá
(XLVIII) http://www.publico.es/internacional/331327/santos/inicia/cambio/rumbo/colombia: “Otro nombramiento que ha puesto los pelos de punta al uribismo es el del prestigioso economista conservador Juan Camilo Restrepo como ministro de Agricultura. Como eje de su programa se propone, siguiendo la propuesta del Polo Democrático (izquierda), emprender una reforma agraria para devolver a los desplazados los cinco millones de hectáreas que caciques y paramilitares les han despojado a sangre y fuego en los últimos años”.
Introducción
Erase una vez, digamos, hasta la revolución mexicana, cuando nadie en América Latina se preocupaba por las condiciones de vida en el campo, sus ilegalidades y su miseria. Es con la llegada de Pancho Villa y Emiliano Zapata, que estos “miserables” entran en la historia por la gran puerta. Sus reivindicaciones ganan legitimidad y la clase política empieza poco a poco a darse cuenta que existe un problema de hambre y uno de apropiación diferenciada de los recursos naturales (algunos tienen mucho y otros no tienen nada).
Varias investigaciones demostraron las relaciones profundas existentes entre el hambre en las zonas rurales y la mala distribución de la tierra, dándole así argumentos fuertes a la necesidad de implementar reformas agrarias si se quería luchar contra el hambre (ii).
Con el pasar de los años, en particular al final de la segunda guerra mundial, la cuestión agraria cobró intensidad en todas partes del mundo. Estados Unidos, fuerte de su posición de ganador de la guerra, ordenó una reforma agraria profunda en Japón, en contra de aquellos grupos sociales que habían llevado el país a la guerra. De la misma manera otras reformas agrarias fueron impuestas en Taiwán, Corea del Sur y Filipinas. En los países del recién creado bloque socialista también se hicieron varias reformas agrarias, así como debemos de recordar los casos de la China comunista y de Italia.
No fueron todos procesos exitosos, al contrario muchos de ellos fracasaron rotundamente.
En la región latinoamericana los primeros intentos de modificar las estructuras agrarias se dieron en Bolivia y Guatemala en los años 50.
Bolivia vivió una profunda conmoción social por efecto de las generalizadas ocupaciones de haciendas en regiones de los valles y del altiplano a principios de la década de 1950. Cuando, en abril de 1952 tomó el poder por las armas, el Movimiento Nacionalista Revolucionario (MNR) no tenía claro su programa respecto a la cuestión de la tierra, aunque había formulado varios diseños provisorios que no llegaban a la propuesta explícita de una reforma agraria. Ésta se realizó como consecuencia de la rebelión indígena y de las tomas de tierras. Un año después de que entró en funciones el gobierno revolucionario, se promulgó en Ucureña el decreto que dio legalidad a la liberalización de la fuerza de trabajo rural-indígena y al reparto de tierras.
La Ley de Reforma Agraria de Bolivia se inspiró en un proceso similar iniciado 35 años antes en México (iii). Como parte de la estrategia de la marcha hacia el Oriente, la mayor cantidad de tierras se distribuyó en los departamentos y macroregiones que actualmente forman parte de las tierras bajas de Bolivia. “Los pueblos indígenas de Tierras Bajas fueron los grandes ausentes en este proceso. No se reconocían sus formas de vida, entre los que se cuentan sus sistemas tradicionales de ocupación del espacio, de aprovechamiento de los recursos naturales y prácticas culturales. Por falta de control en el proceso y deficiencias técnicas se promovió la sobreposición de derechos con el resultado de doble y hasta triple titulación en un mismo predio” (iv).
En el caso guatemalteco, el tema agrario apareció durante la presidencia de Jacobo Arbenz entre 1951 y 1954, siendo uno de los temas centrales de su programa. El objetivo era modificar una estructura agraria dominada por grandes terratenientes, en particular por las compañías extranjeras, como la estadounidense United Fruit Company (UFCO). La UFCO sola “poseía alrededor del 11% de las tierras guatemaltecas, que representaban el 63% de cultivaciones. El resto de la propiedad estaba prácticamente en un 2.2% de la población que tenían el 70% del espacio terrenal” (v).
Su gobierno logró un fuerte apoyo popular, aun cuando la Iglesia Católica se opuso a dicha reforma (Arbenz estaba ligado al partido Guatemalteco del Trabajador, un partido comunista que contaba con apoyo campesino). El decreto de reforma agraria indicaba como prioridad el “desarrollar la economía capitalista campesina y la economía capitalista de la agricultura en general” (vi). Las dificultades surgieron al momento de valorar la tierra a ser expropiada, debido a que el gobierno propuso usar los mismos valores catastrales declarados por la empresa, que eran muy bajos, y pagándole en bonos de la reforma agraria. Esto provocó una inmediata reacción del gobierno estadounidense que montó una operación para derrocar el gobierno, cosa que logró hacer en 1954.
Las tensiones sociales eran fuertes en muchos países y cuando Fidel Castro derrocó la dictadura de Batista en Cuba, una de las primeras leyes que firmó fue la ley de reforma agraria en mayo de 1959. Esta ley propuso, entre sus principales objetivos formales, la diversificación de la industria y la supresión de la dependencia del monocultivo azucarero. El gobierno revolucionario, con la implantación de esta ley, pretendía dar resguardo y estímulo a la industria, e impulsar la iniciativa privada mediante los necesarios incentivos, la protección arancelaria, la política fiscal y la acertada manipulación del crédito público, el privado y todas las otras formas de fomento industrial.
Se aspiraba también a que, con una redistribución de la propiedad agraria, se facilitara el surgimiento y extensión de nuevos cultivos que, además de proveer materias primas para la industria nacional, pudieran satisfacer las necesidades del consumo alimenticio, y se elevara la capacidad de consumo de la población, mediante el aumento progresivo del nivel de vida de los habitantes de las zonas rurales, lo que contribuiría, al extender el mercado interior, a la creación de industrias que resultan poco rentables en un mercado reducido.
Los términos en que se planteaba la reforma del régimen de tenencia de la tierra, tal como los concebía la ley, condujeron al deterioro de las relaciones diplomáticas y comerciales con los Estados Unidos. Los dos aspectos conflictivos del texto legal fueron el límite máximo de extensión de tierra (36 caballerías, o 402.6 hectáreas) que podría poseer una persona natural o jurídica (Artículo 1), y, una vez más, la forma de pago por las expropiaciones (Artículo 31).
El Artículo 31 de la Ley de Reforma Agraria estableció que las indemnizaciones por concepto de expropiación se cubrirían mediante bonos de la deuda pública pagaderos a 20 años, con un interés anual no mayor del 4,5 %. Esta disposición era inconstitucional, pues violaba el Artículo 24 de la Ley Fundamental, que había puesto en vigor el Consejo de Ministros (órgano con facultades legislativas tanto como ejecutivas) del gobierno revolucionario, que exigía el pago previo y en efectivo de la indemnización fijada judicialmente en caso de expropiaciones realizadas por causas justificadas y utilidad pública o interés social.
Lo que pudo resolverse en la mesa de negociaciones, dado el carácter inconstitucional del sistema de pago establecido por la ley agraria, se convirtió en un enfrentamiento ultranacionalista con los Estados Unidos, bajo los gritos de "¡La Reforma Agraria Va!", trayendo como corolario una escalada de mutuas represalias y de enemistad entre ambas naciones.
Con el pretexto de evitar los males del minifundio, el gobierno mantuvo el dominio de la mayoría de las tierras, y organizó su explotación mediante la formación de macroempresas agropecuarias. La nacionalización de los grandes latifundios sólo transformó la forma de apropiación de los mismos. Si en 1959, el 46 % del área nacional de fincas estaba en poder del 1,5 % de los propietarios, en 1998 el 87,4 % de las tierras agrícolas estaban bajo el dominio del gobierno socialista (vii).
A partir de los eventos cubanos la política pasa a mezclarse definitivamente con la cuestión agraria. El miedo inspirado por la revolución (y el fracaso de Playa Girón), obligaron a Estados Unidos a imponer a sus aliados en la región unas pseudo- reformas agrarias, a través del programa “Alianzas para el Progreso” que fue lanzado en Punta del Este en 1961 (viii).
Los procesos reformistas que de allí en adelante se dieron fueron en su mayoría relativamente blandos, debido a que el propósito principal no era la liquidación de los sistemas agrarios existentes, sino estimular modificaciones para reducir la presión social y evitar que esta se juntara con movimientos políticos de corte revolucionarios.
El listado es bastante largo, y un recorrido ideal podría empezar con la minimalista reforma de Alessandri en Chile en 1962, seguida por la Ley de Reforma Agraria de Frei Montalvo, que culminó en la profundización del proceso expropiatorio y reformador por parte del gobierno del Presidente Salvador Allende entre 1970 y 1973. En Perú se realizó una de las reformas agrarias más radicales de América del Sur. El Gobierno del general Juan Velasco Alvarado culminó un ciclo que puso fin al largo periodo en el que las haciendas tradicionales organizaban la sociedad y la economía provincianas en gran parte del país. La radicalidad de la reforma es mejor apreciada si se considera que 71 por ciento de las tierras de cultivo bajo riego, que habían sido de propiedad privada, fueron expropiadas y adjudicadas; lo propio ocurrió con 92 por ciento de las tierras de cultivo de secano (dependientes de las lluvias) y 57 por ciento de los pastos naturales. El porcentaje de beneficiarios, sin embargo, no fue tan espectacular: alrededor de una cuarta parte de familias rurales (370 mil) (ix).
Los resultados de estas reformas son mixtos, que se analicen los aspectos económicos, sociales y/o políticos. Se recomienda la lectura del artículo de C. Kay (x) para hacerse una idea bastante objetiva y completa. En general se considera que, tras el golpe militar de 1973 en Chile, se puede considerar cerrada la primera gran etapa de la reforma agraria en la región.
La “década perdida (xi)” de los 80s es generalmente considerada como el periodo cuando la cuestión agraria perdió de importancia en la región latinoamericana y en el mundo en general, a pesar de los esfuerzos realizados con la Conferencia mundial sobre reforma agraria y desarrollo rural (CMRADR) celebrada en 1979 en Roma por parte de FAO. Sin embargo, señales que el tema seguía vigente llegaron de varios países: Nicaragua y El Salvador (1979 y 1980) para lo que se refiere a Centroamérica, y Brasil más al sur. En este último, en 1983, diversas entidades (Contag, CPT, Cimi) lanzaron una campaña nacional para la reforma agraria, hasta que el tema fue incorporado en el programa de campaña de Tancredo Neves, en 1984 y, el año siguiente, el nuevo Presidente de la República José Sarney anunció el Primer Plano Nacional de Reforma Agraria, combatido duramente por parte de los grandes propietarios reunidos en la Unión Democrática Ruralista (UDR).
Es en este contexto que viene emergiendo el que será uno de los grupos más organizados entorno al tema agrario: el Movimiento de los Trabajadores Rurales Sin Tierra, más conocido como MST. Como lo cuenta Ricci (xii), “Los límites del sistema de representación político-social del medio rural brasileño (representado por organizaciones como las Ligas Campesinas y la CONTAG) empezó a ser duramente cuestionado desde el final de los años 70 por varios movimientos sociales dentro de varias categorías de trabajo, que se sentían poco o nada asistidas por parte de la estructura sindical vigente. El caso que más nos interesa es el relativo a la lucha por la tierra (que la CONTAG defendía solamente en los limites del Estatuto da Terra de 1964, excluyendo la lucha de los ribeirinhos, seringueiros, sin-tierra y bóias-frias).
Los movimientos sociales rurales de los años 80 son, por lo tanto, un campo de resistencia política, tanto contra el orden social que los excluye así como en contra de las organizaciones formales de representación social que no los aceptan. La resistencia, de esta forma, se caracteriza por un fuerte resentimiento, que busca amparo en la lectura de la Biblia […]. El misticismo retorna como energía moral de los segmentos sociales que se sienten abandonados. De allí su nítido carácter autónomo, frente a los partidos políticos y a las estructuras formales de representación. De allí también un discurso inundado de simbología, la naturaleza teleológica (casi profética) de las consignas. De allí la preferencia por estructuras de organización horizontales, el asamblearismo en la toma de decisiones, la fuerte desconfianza con relación a las instituciones públicas”.
La caída del Muro de Berlín (1989) y la subsiguiente desaparición de la Unión Soviética, provocó unos cambios importante entorno al tema.
El reconocimiento de la existencia de un problema ligado a la concentración de la tierra por parte del Banco Mundial, estimula a varios países a tener que interesarse al tema, sean países del ex-bloque socialista o de otras latitudes. El nuevo enfoque propuesto se articula a partir del papel central que se le da al mercado (xiii). La tierra es vista como un bien económico (un asset, o sea algo que se puede valorar en términos monetarios) como cualquier otro y la modificación de las estructuras agrarias ya no son políticas de gobiernos sino normales operaciones de mercado que hay que estimular para una mejor eficiencia económica (o sea, no más para luchar contra la pobreza y el hambre).
Simbólicamente el ejemplo central es, en 1992, la modificación del artículo 27 de la Constitución mexicana de 1917 (xiv) que abre las puertas a las ventas de las tierras ejidales y rompe uno de los tabú principales de la reforma agraria mexicana (xv).
El modelo que viene propuesto va asumiendo connotaciones bastante claras a pesar de los cambios continuos de nombre: reforma agraria negociada, ‘community-based’, ‘community managed’, ‘market-friendly’ y ‘market-assisted’, ‘market-led’, ‘market-based’, ‘willing-seller-willing buyer’, ‘non-confiscatory’ y finalmente ‘descentralized land-reform’ (xvi): un papel central del mercado y muy secundario por parte del Estado. Como bien dicen Sauer y Pereira, “este modelo no es una modalidad de reforma agraria redistributiva, porque se basa en el principio de la compra y venta voluntaria de tierra entre agentes privados, a la cual se suma un porcentaje variable de subsidio para inversiones socio-productivas (xvii).
Las implementaciones concretas de este modelo sin embargo han dado pié a resultados no particularmente satisfactorios, se trate del caso de Colombia (xviii), de Brasil o de Guatemala y Honduras en Centroamérica (xix).
Por su parte los movimientos campesinos vienen elaborando su propia propuesta de reforma agraria: por lo esencial se vincula la cuestión de la distribución de la tierra al tema de la soberanía alimentaria, una visión del campo no solo como lugar de producción económica sino como tejido social, cultural y paisajístico, con énfasis claro en el papel del ser humano como actor principal de estos procesos, sea de tipo individual sea, de preferencia, de tipo cooperativo (xx). El país donde más se han acercado las posiciones entre movimientos sociales y gobierno entorno al tema agrario, a partir de final de los años noventa, ha sido Brasil.
No vamos a entrar en un análisis detallado de las políticas agrarias de Brasil, sin embargo es oportuno recordar algunos hechos concretos. Con la (progresiva) vuelta a la democracia, una general reconsideración de las políticas anteriores, y el aparecer de nuevos temas en la agenda mundial (la cuestión ambiental en particular), la década de los 90 señala un cambio radical en la actuación de los gobiernos del país: refinanciamiento de la deuda agraria, tasas de interés preferencial para el crédito agrícola, con exenciones de impuestos para ciertos rubros, fin del congelamiento de los precios agrícolas, desvaluación de la tasa de cambio en 1999, restricción de importaciones de alimentos de países fuera del MERCOSUR y, principalmente el apoyo financiero creciente en particular al sector de la agricultura familiar y el aumento relevante de los asentados de la reforma agraria. Si nos limitamos al periodo 1994-2002 son casi 600 mil las familias asentadas, con un promedio anual de casi 75 mil familias (xxi).
El Gobierno brasileño decidió solicitar el apoyo de organismos internacionales para sentar las bases de la discusión del tema agrario, frente a las presiones opuestas que los movimientos campesinos hacían por un lado y las fuerzas conservadoras mantenían por el otro. Es por eso que con el apoyo del PNUD y de la FAO se emprendió un análisis detallado de la situación económica y social de los asentamientos de la reforma agraria para proporcionar elementos de respuesta a las cuestiones relativas a la viabilidad y el costo de esas políticas.
El trabajo demostró sin duda alguna que las políticas anteriores (con todas sus limitaciones) lograron asegurar un nivel de ingreso económico interesante, lo que aumentaba la credibilidad económica de estas decisiones eminentemente políticas (xxii). Es a partir de ese momento que va aumentando el espacio de actuación de quienes, en el país y en la región, defendían ese tipo de política. Es oportuno recordar que la cuestión agraria se juega en un campo minado, violento, y cada espacio ganado por los movimientos campesinos es a costa de un poder centenario mantenido por oligarquías muy arraigadas en los poderes del estado. Es por eso que a la aumentada importancia del tema agrario en el gobierno de Fernando Enrique Cardoso, es relativo al aumento de la violencia contra los líderes campesinos, como confirma la Comisión Pastoral de la Tierra (CPT) (xxiii): “en los últimos diez años, 8.082 conflictos violentos por la tierra han arrojado un saldo de 379 asesinatos (de líderes campesinos, sacerdotes, monjas, abogados)” (xxiv). El momento culmine fue en abril de 1996 cuando en el municipio de Eldorado do Carajás, en el Estado del Pará, la policía militar estatal mató a 17 campesinos sin tierra.
Las repercusiones mundiales fueron muy fuertes, obligando al gobierno a acelerar en sus políticas agrarias. Fue así creado un nuevo ministerio extraordinario para la política de tierra y el recién elaborado programa nacional de apoyo a la agricultura familiar (PRONAF), empezó a recibir recursos y fuerzas políticas (hasta pasar a ser el corazón del futuro Ministerio del desarrollo agrario que, pocos años después, substituyó el ministerio extraordinario).
En estos años aumenta el número de asentados, aunque no al nivel solicitado por los movimientos sociales; la política agraria empieza a ser más coherente y con más recursos, y es aquí cuando empieza a articularse la discusión entre reforma agraria y agricultura familiar.
La victoria electoral de Lula y del Partido de los Trabajadores (PT), con un fuerte apoyo por parte de los movimientos sociales, pareció señalar una victoria en general de todos los que abogaban por una reforma agraria masiva, y no solo en Brasil.
Sin embargo pocos meses fueron suficientes para que los movimientos sociales se dieran cuenta que las condiciones eran mucho más complicadas y que entre las promesas electorales y la realidad cotidiana había un mar que no cesará de ampliarse en los años siguientes. De cierta forma el caso brasileño es paradigmático de los cambios sucesivos: el tema de la reforma agraria, bandera del PT cuando era la oposición, toma una dimensión nueva, más moderada, una vez que el PT llega al poder: las articulaciones de fuerzas, las dinámicas de los mercados mundiales, la necesidad de mantener la “confianza” de los inversionistas extranjeros, etc., todos argumentos que plantean una necesidad, difícil de admitir públicamente, de repensar a fondo el tema de la reforma agraria.
Desde los primeros días del nuevo gobierno se anunció la formulación de un nuevo plan de reforma agraria, solicitando a un conocido especialista, intelectual orgánico a los movimientos sociales, Plinio de Arruda Sampaio, de liderar este proceso. El Plan proponía un objetivo de asentar 1 millón de familias en los 4 años de la Presidencia Lula, apuntando a un cambio de gran magnitud a la estructura agraria del país. A los pocos días de haber entregado este documento el gobierno salió a presentar una versión que fue llamada inmediatamente de más realista, donde los objetivos se reducían substancialmente: 400.000 familias hasta finales de 2006.
Los primeros años del gobierno Lula se caracterizaron por un aumento evidente de la conflictualidad en el campo, principalmente en las zonas de agricultura más moderna (Mato Grosso, Goiás, Mato Grosso do Sul, Tocantins, sul do Maranhão, oeste de Bahía, norte de Espírito Santo). El agronegocio aumentó su peso dentro del nuevo gobierno, con el nombramiento del Presidente de la Asociación Brasileña de Agronegocio, Roberto Rodrigues, como Ministro de Agricultura, y de Luis Fernando Furlan, propietario de una de las mayores empresas brasileñas del sector agroindustrial, como Ministro de Desarrollo, Industria y Comercio. Finalmente, es en este periodo que se libera la plantación y comercialización de productos transgenicos (en particular la soya) (xxv).
Los movimientos sociales y el MST entre ellos, al comienzo defendieron esta versión realista, con base en la difícil situación económica y la necesidad de mantener los acuerdos con el FMI. Sin embargo, poco a poco la situación cambió y las opciones del gobierno en materia agraria empezaron a provocar posicionamientos más críticos. Es así que los líderes del MST llegaron a afirmar que el “Gobierno Lula da Silva abandonó la Reforma Agraria” (xxvi, xxvii, xxviii, xxix) .
Las críticas se dan porque, entre tanto, el mismo sentido de “reforma agraria” ha venido modificándose: “[d]e política estatal de naturaleza distributiva que tendría como función corregir distorsiones en la ocupación de tierra y la naturaleza de la estructura productiva rural, la reforma agraria pasó a ser considerada como política compensatoria o acción mirada hacia eliminar tensiones en áreas de conflicto social. A lo largo de los años 90, el nuevo contorno de la política agrícola fue acentuándose y perdiendo los objetivos tradicionales de la reforma agraria. En el gobierno Lula, la reforma agraria pasó a ser substituida por el fomento al desarrollo territorial” (xxx).
Fuera de Brasil se asiste a un retroceso general del tema reformista. Los demás países que mantienen un posicionamiento en favor de la reforma agraria (por lo menos en sus declaraciones) no son muchos: Venezuela, Bolivia, Paraguay, Ecuador y Honduras. Este último tuvo su gobierno derrocado por un golpe justo un año atrás, y parece evidente que el tema de la reforma agraria no es una prioridad del nuevo gobierno. En el caso de Paraguay las dificultades del gobierno Lugo aparecieron inmediatamente por ser una Presidencia que no cuenta con una mayoría parlamentaria lo que, junto a la ausencia de recursos económicos y de personal cualificado, hace de este tema una tarea casi de tipo “misión imposible”.
En cuanto a Bolivia, la agenda agraria ha sido más acerca de las cuestiones indígenas que de la reforma agraria (xxxi). Y es por eso que hay marchas campesinas exigiéndole al Presidente Morales de implementar una “verdadera reforma agraria” (xxxii). Conocidos expertos en el tema también afirman: “el gobierno de Evo Morales enfrenta grandes dificultades para llevar adelante la “revolución agraria” prometida: desde el rechazo de los grandes propietarios de Santa Cruz hasta las dificultades para distribuir tierras entre los migrantes del Occidente que se instalan en el Oriente” (xxxiii); “A pesar de tener una base social de apoyo en los sectores indígenas y campesinos, las políticas de desarrollo agrícola y de autosuficiencia y soberanía alimentarias están ausentes, en medio de un freno a una reforma agraria que afecte a los grandes terratenientes y redistribuya la tierra” (xxxiv).
A mitad de los años 2000 se dieron algunos procesos que, a nivel mundial, intentaron que la reforma agraria volviera a instalarse en la agenda internacional de los países, tanto del norte como del sur. Primero fue el Foro Mundial de la Reforma Agraria “Pascual Carrión (xxxv)”, organizado en 2004 por un Comité Internacional presidido por el CERAI (xxxvi) de España, con una amplia participación de la sociedad civil y de los movimientos campesinos internacionales. Poco después fue la FAO, con el impulso del Ministro de Desarrollo Agrario de Brasil, Miguel Rossetto, la que organizó la Conferencia Internacional sobre Reforma Agraria y Desarrollo Rural (CIRADR) que se celebró en Porto Alegre en 2006 (xxxvii), veintisiete años después de la celebrada en 1979 (xxxviii).
En ambos casos se trató de momentos de diálogo, de reabertura de discusiones antiguas, con mucha atención hacia la construcción conjunta, buscando los elementos que podían permitir de entrar de manera más sistemática en las agendas de gobierno de los países miembros de naciones unidas. El punto central de ambas reuniones fue el reconocimiento del carácter dinámico de estos procesos agrarios, de la necesidad de actualizar el diagnóstico entorno a este tema, reconociendo la existencia de factores dominantes, como es el caso de la economía de mercado y la necesidad de aprender a competir internacionalmente, así como la emergencia de nuevos (o más bien viejos) actores que demandan una representación social de otro tipo: sean los pequeños productores familiares, o las mujeres rurales, los pescadores artesanales y/o los pueblos indígenas.
La aparición de la territorialidad y la progresiva perdida de vigencia de la reforma agraria
El tema de la reforma agraria siempre ha generado discusiones entorno a su definición conceptual, política y su implementación (tanto como sus resultados) prácticos. Mientras por un lado encontramos partidarios de una necesidad (¿utópica?) de reformas radicales de las estructuras agrarias, por el otro lado hay quien considera concluido (en la mayoría de los países de la región, no necesariamente en todos) el periodo histórico de implementación de las mismas y consideran prioritario buscar modernizar las explotaciones (todos los segmentos, especialmente los más pequeños).
Poco a poco se pasa así a configurar la idea de una reforma agraria no-agrícola, o sea, de un conjunto de medidas que estimulan el empleo a través del apoyo a actividades no-agrícolas. De allí viene surgiendo la discusión entorno al rurbano y, progresivamente, al tema de la territorialidad. Este tema estaba teniendo un auge importante en Europa, debido a la necesidad de repensar profundamente la política agrícola comunitaria, y la cuestión de la territorialidad pasó a ser la nueva frontera de este debate. Algunos organismos internacionales (como la OCDE y la misma FAO) empezaron a darle más atención al tema, y fue así que rápidamente entró en el debate regional latinoamericano.
El lanzamiento oficial podemos datarlo en 2002, cuando aparecen algunas de las primeras publicaciones entorno a este tema (xxxix, xxl, xli).
La FAO participa en este debate a través de una propuesta, oriunda de los trabajos anteriores en materia de sistemas agrarios y de agricultura familiar, basada en los principios del dialogo y negociación (xlii). Se trata de una visión del desarrollo territorial que parte de la hipótesis central que una fuerte agricultura familiar es el pívot alrededor del cual articular procesos de desarrollo no solamente agrícolas. La constatación de la multifuncionalidad del paisaje agrario, de la competencia creciente por parte de numerosos actores, procedentes de distintos horizontes, de la emergencia de nuevos actores y del aumento de los conflictos entorno a estos recursos, nos lleva a estimular una reflexión amplia, a partir de las acciones pasadas en las distintas partes del mundo, con aportes internos y externos a la organización.
La visión que conlleva el Desarrollo Territorial Participativo y Negociado es que las estructuras agrarias (en la mayoría de los países) de hoy no son las mismas de las décadas anteriores, que hay que “aprender haciendo” y que frente a una inestabilidad general en el campo, generada por un conjunto de factores internos y externos, se necesita pensar en mecanismos de diálogo político donde las organizaciones campesinas, los pueblos autóctonos, las mujeres rurales, los pescadores artesanales, etc. sean reconocidos como ‘partners’ importantes en la búsqueda de nuevas articulaciones sociales que apunten a renegociar las asimetrías de poder existentes.
La base histórica está representada por lo que Mazoyer llamaría la evolución y diferenciación de los sistemas agrarios de los países hoy en día “desarrollados” (xliii), apuntando al papel central que la agricultura familiar tuvo en el proceso de acumulación (capitalista) de los países del norte. En este sentido es necesario estimular procesos de reforma agraria para mejorar la distribución de la tierra, mirando a la creación de sectores de agriculturas familiar que puedan sí competir en el mercado, sin embargo valorando no solo la dimensión económica sino promoviendo una visión agroecológica tal como la recomienda Altieri (xliv).
Siendo la competencia mundial cada día más dura, también son necesarios esfuerzos que modifiquen la relación que está subordinada al sector tecnológico-químico, teniendo en línea de mira una agricultura más conservacionista, más ligada a las realidades territoriales locales, donde la raíz “cultura” de la palabra agricultura sea más valorado en su conjunto (no solo productivo sino como salvaguardia de paisaje, de tradiciones, de técnicas y de biodiversidad).
Es un desafío de largo alcance que debe ser planteado en forma de propuesta; no se trata de una revolución, sino de un abordaje reformista que, al reconocer (y estimular) a los gobiernos como actores centrales de estos procesos, indica la necesidad de repensar su actuación en favor de mecanismos más transparentes, democráticos de manera que aumente la legitimidad social de sus políticas.
Conclusiones: por donde va el río
En estos años más recientes asistimos como a un repliegue de los movimientos sociales campesinos, lo que me lleva a hacer estas consideraciones personales en forma de estímulo para así poder retomar el tema a partir de los principios de la CIRADR.
La hipótesis (de quien escribe) sobre la pérdida de protagonismo de los movimientos agrarios en estos años recientes tiene que ver con la “decepción” al darse cuenta que entre ser oposición y ser gobierno hay grandes diferencias, y que muchos de los sueños se transformaron en pesadillas, provocando una resaca de la cual no se han recuperado todavía. Esos eran los años cuando, por la presencia de un sinnúmero de gobiernos progresistas en la región, era legítimo pensar que el tema agrario podía ser retomado a partir de perspectivas más progresistas. Las lecciones de la modernización del agro chileno, bajo los gobiernos de la Concertación, su capacidad de articularse a los sectores empresariales con un empuje fuerte de la agricultura campesina, podía ser un punto de partida muy interesante, así como las experiencias cooperativas que varios movimientos estaban dando en la parte de transformación y comercialización de la producción. La aparición del “fair trade”, el nuevo interés por prácticas conservacionistas y la necesaria mayor disponibilidad política de los sectores conservadores, todos parecen ser elementos interesantes para no solo un debate sino unas políticas más activas en la cuestión de la estructura agraria latinoamericana.
Las experiencias políticas de varios gobiernos progresistas han resultado en un aumento en la disidencia de los movimientos (campesinos e indígenas) hacia sus representantes gubernamentales. En las décadas anteriores era más fácil para los grupos políticos de oposición recetar cambios estructurales; de allí surgía la alianza natural con los movimientos sociales que articulaban esa lucha en el campo. El pasaje a tener responsabilidades de gobierno ha enfriado mucho de los entusiasmos porque casi nadie se ha atrevido a enfrentar estructuralmente este tema. Por su lado, los movimientos parecen ser más débiles y no han logrado todavía elaborar la capacidad de formar alianzas políticas que les permita volver a ocupar el centro del debate. Una autocrítica a nivel de estos movimientos campesinos sería necesaria. En muchos casos, tienen su parte de responsabilidad en lo que está pasando ahora. Y surgen otros movimientos que no están dentro de las grandes corrientes y que sí han sabido marcar puntos y abrir caminos.
Las luchas indígenas van por su lado y aun cuando haya elementos de cercanía y de alianzas tácticas con los movimientos campesinos, los caminos de mediano plazo por el momento son todavía divergentes.
El FMRA (2004), desde la sociedad civil, y la CIRADR (2006) desde la FAO, fueron los vértices de alta importancia para poder retomar el tema; sin embargo hasta el momento no ha sido posible articular ningún programa de seguimiento serio de los acuerdos adoptados.
El escenario parece aún peor cuando consideramos este nuevo auge de la competición por la tierra (xlv) a partir de la crisis alimentaria de un par de años atrás. Este acaparamiento de tierras por parte de grandes poderes, nacionales u internacionales, de gobierno o privados, empieza a darse también en la región latinoamericana, con un modelo productivo de tipo extractivista, todo lo contrario a lo que consideramos necesario para estos países (xvi). Las luchas y los conflictos locales continúan, pero también la opinión pública está menos sensible, casi cansada con esto.
No obstante, aún cuando todo parece un decline en este tema, aparecen novedades por allí donde uno menos lo espera. El caso más emblemático es posiblemente Colombia donde la necesidad de una reforma agraria como camino de salida del conflicto interno era muy evidente para todos los especialistas; sin embargo, lo único que se observó en esos últimos años fue una contrarreforma agraria con un aumento de la concentración de la tierra, así aumentando las tensiones sociales en el país (xlvii). La reciente elección presidencial, ganada por el candidato conservador Juan Manuel Santos, de repente podría traer un elemento de novedad con la declaración pública de un renovado interés urgente para tratar el tema de la reforma agraria, un tema que era la bandera del polo de izquierda (xlviii).
Es así que voy terminando este artículo con un mensaje de esperanza. Es necesario que la sociedad organizada, con sus movimientos y organizaciones, siga empujando hacia “otro mundo”; sin embargo, parece también necesario decir que si creemos en dinámicas sociales donde el “abajo hacia arriba” tenga un lugar aceptable y reconocido, es indispensable que los movimientos sociales miren más hacia adentro con una modestia que no siempre las caracteriza. Ya no es aceptable que las fuerzas, además de limitadas, se dividan en centenas de micro fuerzas a veces más interesadas en su propia visibilidad que en articular una plataforma común. Llegó la hora de decirse que no es más posible seguir así. Juntar fuerzas significa aprender a negociar unos intereses comunes, hacia una plataforma de verdadera colaboración.
También será necesario pensar en alianzas fuera de los sectores tradicionales, con segmentos del sector privado, y/o dentro de los organismos internacionales. La agenda de trabajo del tema tierra hoy en día debe lograr articular muchas más variables que antes: no sólo luchar contra una reconcentración de la misma, o contra el creciente acaparamiento; sino preocuparse con la dimensión de género, la ambiental, la calidad de los productos (o sea el peso creciente que tienen las grandes cadenas de supermercados) y finalmente, con lo que significa para el ser humano relacionarse con su herencia histórica representada por estos paisajes, esos territorios que producen cultura e historia.
Hay muchos temas y pocas fuerzas articuladas para llegar a tocarlos todos de manera sincronizada. Debemos unir fuerzas: un pequeño paso hacia atrás por parte de todos para recomenzar sobre bases más “modestas” pero más fuertes porque serán fuerzas que se juntan, de manera a tener el coraje y la capacidad para enfrentar estos grandes retos que tenemos por delante.
=========================================================================
(I) Oficial de desarrollo territorial, División de Tierras y Aguas, FAO. Las opiniones expresadas son a título personal. Agradezco a: Carolina Cenerini, Luisa Elena Guillén Dordelly, Marilu Franco, Vicent Garces, Sevy Madureira, Michel Merlet, Pablo Siderski, Octavio Sotomayor y Francisco Carranza por sus sugerencias y comentarios.
(II) de Castro, J. 1946. Geografía del Hambre. Río de Janeiro
(III) Urioste, M. 2004/2. Bolivia: el abandono de la reforma agraria en zonas de los valles y el altiplano. Reforma agraria, colonización y cooperativas, Roma, FAO
(IV) Rojas Calizaya, J.C.. 2006 La reforma agraria boliviana - Recuento Histórico de sus Marchas y
Contramarchas. Presentado en la Consulta de expertos en reforma agraria en América latina, FAO-RLC
(V) Zachrisson Girón, M. sf. La Peste Bubónica en Guatemala: La Reforma Agraria de Arbenz. http://www.eleutheria.ufm.edu/ArticulosPDF/071211_Pestebubonicadearbenz.pdf consultado el 13 de agosto de 2010.
(VI) Decreto 900, 17 de junio de 1952: Artículo 3 citado en Zachrisson,
(VII) Viera, M. J. 1998. Adónde se fue la reforma agraria http://www.cubanet.org/CNews/y98/may98/22a4.htm consultado el 13 de agosto de 2010.
(VIII) Alegrett, R. 2003/2. Evolución y tendencias de las reformas agrarias en América Latina. Reforma agraria, colonización y cooperativas, Roma, FAO.
(XIX) Eguren, F. 2006. La reforma agraria en el Perú. Presentado en la Consulta de expertos en reforma agraria en América latina, FAO-RLC
(X) Kay, C. 1998/2. Latin America's agrarian reform: lights and shadows. Reforma agraria, colonización y cooperativas. Roma, FAO
(XI) Década pérdida es un término empleado para designar un período de estancamiento en un país o región. Se utilizó por primera vez en Gran Bretaña para designar al período de la posguerra (1945-1955). Se volvió a usar para describir la depresión económica de América Latina en la década de 1980. http://es.wikipedia.org/wiki/D%C3%A9cada_perdida consultada el 13 de agosto de 2010.
(XII) Ricci, R. 2005. A trajetória dos movimentos sociais no campo: história, teoria social e práticas de governos. Revista Espaço Academico N. 54. http://www.espacoacademico.com.br/054/54ricci.htm
(XIII) Concheiro B. L.; García, M.T. 1998. Privatización en el mundo rural. Las historias de un desencuentro. UNAM, México.
(XIV) The most significant symbol of the neoliberal winds sweeping through Latin America has been the change in 1992 of Article 27 of Mexico's Constitution of 1917, which had opened the road to Latin America's first agrarian reform and which enshrined a principal demand for "land and liberty" by the peasant insurgents during the Mexican revolution. Before 1992 no government had dared to modify this key principle of Mexico's Constitution, but the forces of globalization and neoliberalism proved too strong to resist and the government took the risk of tackling this hitherto sacred cow (Randall, 1996). The new agrarian law marks the end of Mexico's agrarian reforms. It allows the sale of land of the reform sector and the establishment of joint ventures with private investors including foreign capitalists, thereby indicating Mexico's commitment to the North American Free Trade Agreement (NAFTA). C. Kay art. cit.
(XV) Barahona, A.Ch. Tierra, Agua y Maíz. 2002. Realidad y utopía. UNICEDES, Morelos, México
(XVI) Lipton, M. 2009. Land Reform in Developing Countries – Property rights and property wrongs. Routledge, New York,
(XVII) Sauer, S., Mendes Pereira, J.M. A “reforma agrária de mercado” do Banco Mundial no Brasil Texto publicado na revista Proposta, dezembro/fevereiro, nº 107, ano 30. Dirección: www.fase.org.br
(XVIII) Mondragón, H. Colombia: ¿Reforma agraria o mercado de tierras?
El programa de mercado subsidiado de tierras fue propuesto por el Banco Mundial y establecido por la ley 160 de 1994. Fue anunciado con bombos y platillos, como si fuera una forma de garantizar el acceso de los campesinos a la propiedad de la tierra, eliminando las interferencias burocráticas y la “innecesaria” intervención del estado. Ahora, sin embargo, se ve que su cubrimiento ha sido mínimo y para completar, ha sido puesto en la encrucijada por la crisis en que lo han sumido las altas tasas de interés, la mora en los pagos que deben hacer los “beneficiarios” y el cada vez más reducido presupuesto del Incora.
(XIX) Téllez, R. El Banco Mundial y su política de tierra. http://www.landnetamericas.org/docs/bm-politica%20de%20tierra%20Ramiro%20T%E9llez.pdf consultado el 4 de agosto de 2010
(XX) IIAR. 2006. Territorios – Reforma Agraria Integral, Ciudad de Guatemala, Guatemala
(XXI) Guanziroli, C. 2003. O porque da reforma agrarian. http://www.uff.br/revistaeconomica/v4n1/guanziroli.pdf consultado el 4 de agosto de 2010
(XXII) FAO-PNUD BRA/87/022. 1993."Principais indicadores socio-económicos...", Brasilia, FAO
(XXIII) http://www.cptnacional.org.br/index.php
(XXIV) Sampaio, P. A. 2005. La Reforma Agraria en América Latina: una revolución frustrada. En publicación: OSAL, Observatorio Social de América Latina, año VI, no. 16 . CLACSO, Consejo Latinoamericano de Ciencias Sociales, Buenos Aires.
(XXV) Porto-Gonçalves, C. W.. 2005. A Nova Questão Agrária e a Reinvenção do Campesinato: o caso do MST. En publicación: OSAL, Observatorio Social de América Latina, año VI, no. 16 . CLACSO, Consejo Latinoamericano de Ciencias Sociales, Buenos Aires, Argentina
(XXVI) intervención de Charles Trocate, de la coordinación nacional del MST en http://www.kaosenlared.net/noticia/governo-lula-da-silva-abandonou-reforma-agraria: “Trocate afirma que os primeiros quatro anos do governo Lula foram medíocres: “Houve uma briga de estatísticas, mas, no final, eles não assentaram mais do que 65 mil famílias”. No segundo mandato, para justificar os parcos números, priorizou-se o discurso de se fazer a reforma agrária de qualidade, ou seja, com melhores condições nos assentamentos. No entanto, a realidade é outra. “Não se enfrenta o latifúndio e nem se tem dado a infra-estrutura fundamental, essencial para os assentamentos que já existem”, lamenta o dirigente do MST”.
(XXVI) Reforma agrária regrediu no governo Lula, diz Stedile http://noticias.uol.com.br/politica/2009/08/15/ult5773u2075.jhtm
(XXVIII) Lula não fez reforma agrária, mas somente política de assentamentos” Gilmar Mauto, da coordenação nacional do MST, http://www.reformaagraria.blog.br/2010/05/03/lula-nao-fez-reforma-agraria-mas-somente-politica-de-assentamentos/
(XXIX) Sem reforma agrária, índios e lavradores tornaram-se 'inconvenientes', diz Casaldáliga “Para o dom Pedro Casaldáliga, ex-bispo que de São Félix do Araguaia (MT), o governo do presidente Luiz Inácio Lula da Silva ficou aquém do esperado em relação à causa indígena e à reforma agrária. Conhecido por sua atuação em defesa dos direitos humanos e contra as desigualdades sociais no campo, Casaldáliga fez as afirmações em entrevista ao Jornal Brasil Atual. "Duas decepções, duas cobranças que fazemos ao Lula são precisamente (referentes) a causa indígena e a reforma agrária", resume. "Aí está falhando gravemente o governo. http://www.redebrasilatual.com.br/temas/cidadania/reivindicamos-essa-reforma-agraria-que-nao-se-faz-diz-dom-pedro-cadaldaliga consultado el 2 de agosto de 2010
(XXX) Ricci, R. art. cit.
(XXXI) Recrudecen los choques entre campesinos, indígenas y el MST; la disputa es por tierras http://fobomade.org.bo/bsena/?p=675 consultado el 2 de agosto de 2010
(XXXII) http://www.fmbolivia.net/noticia14102-bolivia-los-sin-tierra-marchan-a-la-paz-por-reforma-agraria.html
(XXXIII) Miguel Urioste: La “revolución agraria” de Evo Morales: desafíos de un proceso complejo. 2009. http://www.ftierra.org/ft/index.php?option=com_content&view=article&id=1757:rair&catid=75:tierra&Itemid=66
(XXXIV) Eduardo Paz Rada: Movimientos en la coyuntura boliviana: Oposiciones políticas y desafíos de Evo Morales. http://lahistoriadeldia.wordpress.com/2010/07/29/movimientos-en-la-coyuntura-boliviana-oposiciones-politicas-y-desafios-de-evo-morales/
(XXXV) Ingeniero Agrónomo, redactor de La ley de Reforma Agraria promulgada en 1932 por la II Republica Española.
(XXXVI) Foro Mundial sobre la Reforma Agraria (FMRA), http://www.fmra.org/
(XXXVII) http://www.icarrd.org/sito.html
(XXXVIII) http://www.icarrd.org/sito.html
(XXXIX) Abramovay, R. 2002. " Desenvolvimento rural territorial e capital social", in: Sabourin, Eric. P. e Teixeira, Olívio .A. (eds.) - Planejamento e desenvolvimento dos territórios rurais: conceitos, controvérsias e experiências - Brasília: - Embrapa-Cirad-Ufpb
(XL)Echeverri, R., Ribero, M.P.. 2002. Nueva Ruralidad: visión del territorio en América Latina y el Caribe, IICA, San José
(XLI) FAO. 2002. Le diagnostic territorial participatif vers la table de négociation : orientations méthodologiques, documento de trabajo, Roma
(XLII) FAO: Desarrollo Territorial Participativo y Negociado, FAO, Roma, 2005 http://www.fao.org/sd/dim_in3/in3_060503_es.htm
(XLIII) Mazoyer, M.; Roudart L. 2001. História das agriculturas do mundo: do neolítico à crise contemporânea. Lisboa, Instituto Piaget
(XLIV) Altieri, M. 2008. Small farms as a planetary ecological asset: Five key reasons why we should support the revitalization of small farms in the Global South http://www.foodfirst.org/en/node/2115 consultado el 19 de agosto de 2010.
(XLV) Merlet, M. 2010. Les grands enjeux de l’évolution du foncier agricole et forestier dans le monde en « Etudes foncières » n. 143, enero-febrero 2010.
(XLVI) GRAIN, 2010. El Nuevo acaparamiento de tierras en América Latina http://www.grain.org/articles/?id=62 consultado el 11 de agosto de 2010.
(XLVII) Fajardo, D. 2002. Para sembrar la paz hay que aflojar la tierra. UNA. Bogotá
(XLVIII) http://www.publico.es/internacional/331327/santos/inicia/cambio/rumbo/colombia: “Otro nombramiento que ha puesto los pelos de punta al uribismo es el del prestigioso economista conservador Juan Camilo Restrepo como ministro de Agricultura. Como eje de su programa se propone, siguiendo la propuesta del Polo Democrático (izquierda), emprender una reforma agraria para devolver a los desplazados los cinco millones de hectáreas que caciques y paramilitares les han despojado a sangre y fuego en los últimos años”.
Quarantaduesimo libro 2010: Tierra Firme - Matilde Asensi
Bel libro, l'inizio di una serie su Martín Ojo de Plata. Entra nella Top Ten.
Mar Caribe, 1598. Tras sobrevivir a un abordaje pirata, que acaba con la vida de toda la tripulación, la joven Catalina Solís, exhausta y abatida por el brutal asesinato de su hermano durante el ataque, alcanza finalmente una isla. Después de dos años de penurias y adversidades, un navío arriba a la costa del islote. El maestre del barco decide adoptarla, y presentarla como un hijo mestizo desconocido hasta entonces para él.
A partir de ese momento, convertida en Martín Nevares, Catalina descubrirá la libertad y la lealtad en un Nuevo Mundo repleto de peligrosos contrabandistas, corsarios y extorsionadores.
sabato 4 settembre 2010
Buenos Aires, un passaggio rapido: cosa resta?
Arrivando da Asunción, col suo caldo e sole, la prima cosa che mi ha colpito è stato ovviamente il freddo, ed il vento gelido. Passare dai 30 e più gradi ai 5.8 di giovedi mezzogiorno è stato un salto interessante. Una botta di freddo che ha dato una scossa e mi ha fatto pensare, sia alle cose precedenti sia alle riunioni avute qui, ai discorsi fatti e sentiti e alla gente incontrata, nonché a quella, lontana, che manda avanti la baracca a Roma.
Direi che il colpo più forte, in positivo, mi è stato dato dall’Illusionista, così chiamato per la sua capacità di presentare le cose, articolare persone e posizioni anche su temi difficili politicamente. Ho avuto la fortuna di averlo a fianco a cena, il che mi ha permesso di capire cosa fosse il PEA, come venisse costruito e quale fosse la sua ambizione. Mi son trovato a casa. Sentire che un ministero potente come quello dell’ agricoltura argentino decide di costruire un piano strategico a partire dagli stessi principi difesi da noi: il cammino verso l’altro, la ricerca del consenso, di una visione condivisa, etc. etc… mi ha fatto un piacere enorme.
“ El PEA es una herramienta metodológica para promover a través de la participación una visión compartida entre los actores vinculados al sector. El debate, análisis y consenso son los verdaderos avales que legitiman su ejecución y garantizan el éxito de las políticas públicas a través de una mirada estratégica que promueva la asociatividad y cooperación entre los actores. De este modo el producto final se asegura la eficiencia productiva, la equidad territorial, la inclusión y la justicia social”.
http://portal1.chaco.gov.ar/pagina?id=9429
Chiaramente ci sono anche interessi politici dietro, sarebbe strano il contrario dato che comunque ogni governo ha il dovere di fare politica. Così come fanno politica quelli che hanno deciso di non partecipare, cercando di mantenere le vecchie pratiche di potere, così fanno politica quelli che provano a cercare l’inclusione via metodi di questo tipo. Difficoltà metodologiche a parte (far partecipare decine di università assieme a moltissimi altri attori sociali pubblici e privati non è cosa facile), quello che conta è il provarci.
Stiamo andando verso un mondo dove le risorse naturali non aumenteranno, anzi si ridurranno, mentre la gente aumenterà e aumenteranno pure, in modo più che proporzionale le richieste di terra e acqua. La sola speranza tecnologica è destinata a fallire se non supportata da cambi più profondi di paradigma. Quando la constatazione mondiale è che l’agricoltura irrigata funziona molto al di sotto delle sue possibilità, la domanda non è più “quale tecnologia mettere”, ma “come mai queste persone, che dovrebbero essere le prime interessate al funzionamento di questi sistemi, non le fanno funzionare?”. Questo implica il cambio di paradigma: preoccuparsi innanzitutto degli altri, cercare di capire le loro ragioni, che spesso sono contrastanti fra di loro, lavorare con loro a una visione comune, dare a tutti uno spazio per far sì che le loro proposte siano ascoltate, e così costruire delle azioni che abbiano maggiore legittimità sociale, unica formula per far sì che siano sostenibili nel tempo.
Quelli del PEA sembrano sulla buona strada; noi ci proveremo con l’INTA e con lo stesso ministero, dato che la questione dell’ordenamiento del territorio, pensato e negoziato assieme agli attori, con lo scopo di ridurre le asimmetrie di potere è la domanda che ci viene rivolta. Sapremo noi (FAO) essere all’altezza della sfida? Una piccola idea ce l’ho, ma per il momento me la tengo per me e per i miei amici.
Direi che il colpo più forte, in positivo, mi è stato dato dall’Illusionista, così chiamato per la sua capacità di presentare le cose, articolare persone e posizioni anche su temi difficili politicamente. Ho avuto la fortuna di averlo a fianco a cena, il che mi ha permesso di capire cosa fosse il PEA, come venisse costruito e quale fosse la sua ambizione. Mi son trovato a casa. Sentire che un ministero potente come quello dell’ agricoltura argentino decide di costruire un piano strategico a partire dagli stessi principi difesi da noi: il cammino verso l’altro, la ricerca del consenso, di una visione condivisa, etc. etc… mi ha fatto un piacere enorme.
“ El PEA es una herramienta metodológica para promover a través de la participación una visión compartida entre los actores vinculados al sector. El debate, análisis y consenso son los verdaderos avales que legitiman su ejecución y garantizan el éxito de las políticas públicas a través de una mirada estratégica que promueva la asociatividad y cooperación entre los actores. De este modo el producto final se asegura la eficiencia productiva, la equidad territorial, la inclusión y la justicia social”.
http://portal1.chaco.gov.ar/pagina?id=9429
Chiaramente ci sono anche interessi politici dietro, sarebbe strano il contrario dato che comunque ogni governo ha il dovere di fare politica. Così come fanno politica quelli che hanno deciso di non partecipare, cercando di mantenere le vecchie pratiche di potere, così fanno politica quelli che provano a cercare l’inclusione via metodi di questo tipo. Difficoltà metodologiche a parte (far partecipare decine di università assieme a moltissimi altri attori sociali pubblici e privati non è cosa facile), quello che conta è il provarci.
Stiamo andando verso un mondo dove le risorse naturali non aumenteranno, anzi si ridurranno, mentre la gente aumenterà e aumenteranno pure, in modo più che proporzionale le richieste di terra e acqua. La sola speranza tecnologica è destinata a fallire se non supportata da cambi più profondi di paradigma. Quando la constatazione mondiale è che l’agricoltura irrigata funziona molto al di sotto delle sue possibilità, la domanda non è più “quale tecnologia mettere”, ma “come mai queste persone, che dovrebbero essere le prime interessate al funzionamento di questi sistemi, non le fanno funzionare?”. Questo implica il cambio di paradigma: preoccuparsi innanzitutto degli altri, cercare di capire le loro ragioni, che spesso sono contrastanti fra di loro, lavorare con loro a una visione comune, dare a tutti uno spazio per far sì che le loro proposte siano ascoltate, e così costruire delle azioni che abbiano maggiore legittimità sociale, unica formula per far sì che siano sostenibili nel tempo.
Quelli del PEA sembrano sulla buona strada; noi ci proveremo con l’INTA e con lo stesso ministero, dato che la questione dell’ordenamiento del territorio, pensato e negoziato assieme agli attori, con lo scopo di ridurre le asimmetrie di potere è la domanda che ci viene rivolta. Sapremo noi (FAO) essere all’altezza della sfida? Una piccola idea ce l’ho, ma per il momento me la tengo per me e per i miei amici.
Quarantunesimo libro 2010: La bâtarde d'Istanbul - Elif Shafak
Grande. Entra anche questo nella Top 3 dell' anno. Consigliatissimo.
Je suis arménienne. Enfin, arménienne-américaine. La traduction ne fut pas nécessaire. Les quatre tantes lui sourirent : l’une poliment, l’autre avec perplexité, la troisième avec curiosité, et la dernière aimablement. La réaction la plus tranchée vint d’Asya, qui se détourna de la télé et se concentra sur leur invitée, manifestant pour la première fois quelque intérêt à son égard. Peut-être qu’elle n’était pas là pour mener des recherches sur la place des femmes dans l’islam, après tout. » L’enfance fragmentée d’Armanoush Tchakhmakhchian l’a empêchée de s’inscrire dans une lignée, de trouver une identité. Elle sait ce que c’est d’être déchiré entre deux camps opposés, de ne se sentir chez soi nulle part, d’aller et venir d’un mode de vie à un autre. Comment faire autrement quand on navigue d’une famille arménienne fière mais traumatisée à une mère hystérique qui hait les Arméniens ? D’un père arménien, fils de survivants, à une mère originaire d’Elizabethtown, Kentucky, remariée avec un Turc ? Armanoush rêve d’aller voir la maison de sa famille en Turquie. Elle sent qu’elle doit retourner vers le passé des siens pour pouvoir enfin se tourner vers son avenir. C’est ainsi qu’elle se rend à Istanbul à l’insu de ses parents, et découvre la famille de son beau-père. Entre la mémoire dénouée du passé et la trame du présent, elle dévide alors l’écheveau généalogique, tisse les bonheurs et les mensonges. La palette des mots de ce roman savoureux compose une narration dense et précieuse. Avec son ton lucide et malicieux, Elif Shafak captive jusqu’à la dernière page.
giovedì 2 settembre 2010
Misión cumplida Paraguay
Lunedi 30, fine pomeriggio, eccomi all´aeroporto.. missione finita ma in realtà stavolta sembra proprio sia l´inizio dei lavori... speriamo, la situazione non é facile e gli animi non sono del tutto tranquilli...
parto per tornare verso casa, mi fermo a Buenos Aires un paio di giorni e poi Roma. Arrivo a B. Aires e trovo un freddo boia.. pioggia e un vento invernale, oggi a mezzogiorno facevano 8,5 gradi... per fortuna avevo portato un maglione... lavoro interessante anche qui, nel frattempo ho inizaito a cercare la gente per il Paraguay, tempi corti e la gente spesso ha gia altri lavori da fare... situazione complicata, ma anche qui non si scherza. Il conflitto col campo, iniziato piu di un anno fa sembra essersi un po calmato, ma forse qualcosa cova sotto le ceneri. Ho incrociato Pedro della FAA ma non abbiamo avuto tempo di parlare,, qui cerchiamo di vedere se riusciamo a metter in piedi un progetto per il nord.. zone povere e problematiche.. sono molto interessati alla filosofia del dialogo e negoziazione.. forse dovremo dare un aspetto piu VERDE e piu decentralizzato... per questa ragione avevo pensato un nuovo nome per il nostro approccio.. DEPENDE.. DEsarrollo Participativo Ecologico Negociado y DEscentralizado.. dato che tutto quello che facciamo e diciamo non é sicuro.. forse chiamrlo cosi sará visto come un tocco ironico che ci faccia guadagnare amici...
parto per tornare verso casa, mi fermo a Buenos Aires un paio di giorni e poi Roma. Arrivo a B. Aires e trovo un freddo boia.. pioggia e un vento invernale, oggi a mezzogiorno facevano 8,5 gradi... per fortuna avevo portato un maglione... lavoro interessante anche qui, nel frattempo ho inizaito a cercare la gente per il Paraguay, tempi corti e la gente spesso ha gia altri lavori da fare... situazione complicata, ma anche qui non si scherza. Il conflitto col campo, iniziato piu di un anno fa sembra essersi un po calmato, ma forse qualcosa cova sotto le ceneri. Ho incrociato Pedro della FAA ma non abbiamo avuto tempo di parlare,, qui cerchiamo di vedere se riusciamo a metter in piedi un progetto per il nord.. zone povere e problematiche.. sono molto interessati alla filosofia del dialogo e negoziazione.. forse dovremo dare un aspetto piu VERDE e piu decentralizzato... per questa ragione avevo pensato un nuovo nome per il nostro approccio.. DEPENDE.. DEsarrollo Participativo Ecologico Negociado y DEscentralizado.. dato che tutto quello che facciamo e diciamo non é sicuro.. forse chiamrlo cosi sará visto come un tocco ironico che ci faccia guadagnare amici...
Iscriviti a:
Post (Atom)