Deve essere stata
una decisione difficile per Bersani quella di accettare che alla fine fosse
Berlusconi a decidere per lui, tutto in nome di un superiore “interesse
nazionale”. Ci aveva provato a smarcarsi dalla tutela di D’Alema e diventare
finalmente un politico vero, indipendente dalle congreghe di partito e capace
di una iniziativa che tenesse conto della storia d’Italia degli ultimi 20 anni
(No a Berlusconi) e nello stesso tempo si aprisse alle nuove istanze
rappresentate dai grillini.
Certo, si può
pensare che ci era arrivato solo grazie alla batosta elettorale e non proprio
per sua esplicita volontà. Si può anche pensare a cosa sia dirigere un quasi-partito
come il PD che non riesce proprio ad amalgamare le due anime originarie
(DC+PCI) e soprattutto che non riesce a fare un salto generazionale con un peso
tuttora preponderante ai vecchi funzionari di partito.
La poca apertura
alla vita reale, alle istanze portate avanti dai movimenti locali (tipico caso
quello sull’Acqua Bene Comune), erano un peso che sembrava impossibile da
sormontare. Possiamo dire che, magari obbligato, ma Bersani ci aveva provato.
Subito dopo le elezioni avevo scritto che,a mio giudizio, quello che doveva
fare era di riconoscere di essersi sbagliato e lasciare il campo a qualcuno di
diverso, una faccia nuova che potesse essere vista dai grillini come un segnale
di apertura fuori dalle mura del partito. Lui invece si è intestardito con l’idea
che doveva essere lui a provare a fare il governo, e questo non poteva
funzionare perché o faceva contento Berlusconi con le larghe intese, perdendo
per strada la metà dei voti, mentre se andava verso i 5 stelle Grillo e il
proprietario Casaleggio non avrebbero mai potuto appoggiarlo, pena perdere loro
la loro ragione d’essere. Il risultato si è visto: nessun governo. Ma almeno un
segnale di luce era arrivato con il metodo scelto per l’elezione dei Presidenti
delle Camere. Ci si aspettava quindi che lo stesso metodo venisse proposto per
l’elezione del Presidente della Repubblica. Il regalo servitogli su un piatto d’argento
da parte di Grillo, proporre uno stimato Stefano Rodotà, uno che viene dal
Partito, cioè parte della genetica dei DS, poteva essere l’occasione d’oro per
dire: anche noi DS abbiamo pensato a lui, dentro di una terna comprendente,
oltre a Rodotà, Prodi e Zagrebelsky. Certo, avrebbe fatto piú bella figura a
proporli lui per primo e non aspettare che fossero le Quirinarie a mettergli
sotto il naso i nomi che dovevano fare la terna DS, ma almeno, avrebbe salvato
la faccia.
Ed invece è
arrivato Marini: ha ragione da vendere Renzi a dire che Marini, con tutto il
rispetto per la persona, viene percepito come un uomo del secolo scorso. Invece
del metodo trasparente e rispettoso dei segnali mandati dalla cittadinanza, la
quale ha detto chiaro e tondo per i 2 terzi che di Berluscon9i non ne voleva più
sapere, ecco tornare il mondo degli anni 70, invecchiato e impolverato.
Un giorno sapremo
cosa gli è saltato in mente di calare le brache in questo modo. Adesso resta da
battersi e sperare che Marini non passi e che al posto suo vada su Rodotà, Prodi
o Zagrebelsky. Dopo di che, sancita la fine dei DS, bisognerà cominciare a
chiedersi quale altra aggregazione sarà possibile creare. Non certo una cosa
simile ai 5 Stelle, troppo etero diretti per rappresentare un esempio per il
futuro.
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