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mercoledì 30 novembre 2022

Agricoltura familiare e la questione di genere


Siccome mi capita continuamente di leggere tante sciocchezze sul come sia apparso il concetto di “agricoltura familiare” nel dibattito sullo sviluppo agrario, mi sembra utile, una volta di più, (lo avevo già fatto 4 anni fa) ricordare alcuni elementi storici per chiarire la situazione. Una volta fatto questo, sarà anche importante spiegare come mai questo concetto, così come è propagandato da agenzie Onu e movimenti contadini, stia passando da un valore progressista a uno conservatore.

 

Cominciamo con il primo punto. Io iniziai ad occuparmi della questione agraria un po’ casualmente, quando feci il mio primo viaggio in Nicaragua nel lontano 1983, per conoscere meglio quella rivoluzione sandinista che, in un paese agricolo come quello, aveva nella riforma agraria il cuore del problema. 

 

Rendendomi conto della complessità del tema, indirizzai i miei futuri studi nella direzione dell’allora Istituto Nazionale Agronomico di Parigi-Grignon (INAP-G), in particolare la cattedra di Agricoltura comparata e sviluppo rurale tenuta dal professor Marcel Mazoyer.

 

Quando passai dal lavoro iniziale all’OCSE alla FAO (1989), mi misi subito a lavorare su questi temi, in particolare come un approccio di tipo “sistemi agrari” poteva essere utile nel quadro dei progetti di riforma agraria che la FAO appoggiava (Filippine, Colombia). 

 

Una lettura interessante, fatta anche questa per caso, fu il libro di Hans Georg Lehman, edito da Feltrinelli, sul Dibattito della questione agraria nella socialdemocrazia tedesca e tradotto dal tedesco da mio fratello Bruno, che ovviamente ne conservava una copia in casa. Fu un libro chiave per capire il perché delle resistenze che incontravo ogni volta che provavo a parlare di questi temi con persone impegnate nei movimenti contadini. Il caso brasiliano fu particolarmente importante.

 

Il programma di appoggio tecnico che la FAO aveva firmato con l’Istituto della Riforma Agraria (INCRA) era diretto a proporre miglioramenti negli assentamentos che venivano da loro realizzati. Applicando il metodo che avevo messo a punto nei primi anni FAO, e che “traduceva” in una metodologia semplificata l’approccio sistemi agrari, iniziammo a realizzare una serie di diagnostici in vari stati brasiliani, iniziando con l’interno di Sao Paulo, passando poi nel Maranhão e successivamente in molte altre regioni. Il quadro che emergeva da un lato forniva indicazioni concrete su come migliorare i sistemi di produzione messi in atto negli assentamentos, ma iniziava anche a fornirci un’idea più completa del paesaggio agrario nazionale. L’esistenza, particolarmente nel Sud, ma non solo, di grandi realtà di coltivatori diretti (come li chiamiamo in Italia) si accompagnava con la sorpresa di una mancanza assoluta di politiche e programmi specifici da parte del governo federale (e anche statali). 

 

Per me e i miei colleghi del progetto, la questione era molto importante dato che, nella visione che portavo avanti, la tappa della riforma agraria doveva avere una durata e un obiettivo chiaro, cioè aiutare dei contadini/e senza terra ad iniziare il cammino che li portasse a diventare dei produttori/trici indipendenti così come esistevano da noi in Europa, supportati da programmi e politiche specifiche.

 

Fu così che nel 1994 (sotto la presidenza Collor), proponemmo di cambiare il focus dell’accordo con INCRA, per approfondire la conoscenza di queste regioni di coltivatori/trici diretti, spiegando che questo era politicamente funzionale a una visione integrale del mondo agrario: da un lato aiutare chi non ha accesso alla terra, portarli a diventare produttrici e produttori indipendenti, e quindi pensare a che tipo di programmi e politiche fossero necessarie per quest’altra tappa.

 

Grazie al Presidente dell’INCRA dell’epoca, il caro e compianto Marcos Lins (uno dei miei padri tutelari), la proposta fu accettata ed iniziammo i lavori di terreno. 

 

Era quello il periodo quando stavo leggendo Lehmann e questo mi aiutò a capire il rifiuto categorico da parte dei membri dei movimenti contadini (MST ma non solo) con cui ci trovavamo per discutere i nostri lavori, di affrontare la questione dell’agricoltura “familiare” (come cominciammo a chiamarla). Due erano le ragioni di fondo, di cui pian piano cominciai a capire le ragioni vere, al di là delle posizioni retoriche ufficiali. La prima era legata alla contrarietà di considerare la riforma agraria come una tappa, con un inizio ed una fine. Gli assentados rappresentavano un bottino importante perché i fondi messi a disposizione dal governo (era iniziata la presidenza di Fernando Henrique Cardoso) erano gestiti dai movimenti e non andavano ai beneficiari direttamente. La trasparenza non essendo mai stata una qualità diffusa, dove andassero a finire quei fondi non era mai chiaro. Quindi accettare l’idea che il processo di assentamento avesse una fine, con indicatori di risultati concreti da ottenere, era contraria alla logica movimentista (e non di “sviluppo”) dei movimenti. La seconda ragione era legata all’ideologia che professavano, per cui gli agricoltori familiari erano i nemici della rivoluzione che loro sognavano. 

 

Fu su queste basi che la nostra squadra provò a cercare altri alleati, in particolare nel mondo accademico. Il grande manitou regnava a Campinas, nell’hinterland di Sao Paulo: figlio di quello che è considerato come il padre storico della riforma agraria brasiliana, lui era convinto che la questione agraria passasse essenzialmente per la modernizzazione tecnica e tecnologica dove c’era posto per gli assentados (se organizzati in grosse cooperative) ma non c’era posto per l’agricoltura familiare. L’espressione da lui usata, nei nostri confronti, fu: (gli agricoltori familiari) non hanno nessun peso politico. Era quindi inutile perdere tempo e denaro per andarli a studiare.

 

Dimenticavo di dire che il manitou, anni dopo, divenne Direttore Generale della FAO, e toccò a lui andare in giro per il mondo a dire quanto importante era l’agricoltura familiare, prendendo spunto da quella brasiliana, che noi avevamo portato sul davanti della scena politica. La sua longa manus riuscì a influenzare le scelte dell’organizzazione anche dopo essersene andato, facendo nominare nel gruppo che dirige l’iniziativa del decennio dell’agricoltura familiare delle persone a lui devote, che fanno parte di quell’universo di contrari ideologicamente all’agricoltura familiare. Si capisce meglio perché da lì non esca nulla di rilevante per il dibattito mondiale.

 

Riprendendo il cammino, anche senza la sua benedizione, decidemmo di andare avanti, grazie a una serie di altri specialisti di varie università brasiliane, che integrarono la squadra. Nel gruppo lavoravano anche due specialisti del Sud del paese, con un profilo non universitario ma molto più legato al terreno e alle realtà agricole locali (laddove i coltivatori diretti erano molto importanti). Uno di loro si chiama Valter Bianchini, su di lui ritorneremo.

 

I nostri lavori permisero nel giro di un anno non solo di dettagliare meglio le caratteristiche di questo settore, ma anche di quantificarlo in maniera statistica. Questo perché, grazie al Ministro responsabile dell’epoca, Raul Jungmann, ottenemmo l’accesso ai dati primari del censimento agricolo e fu possibile riorganizzarli in funzione di una matrice elaborata dai nostri specialisti. I dati che uscirono da quello studio (circa 4,5 milioni di famiglie) sono ancora oggi la base delle politiche nazionali (ed anche di tutti i lavori fatti dalle università e dai movimenti contadini).

 

Su queste basi elaborammo un documento di sintesi con una serie di indicazioni specifiche per future politiche pubbliche. Il documento uscì nel novembre del 1994 e si intitolava: Diretrizes de Politica Agraria e Desenvolvimento Sustentavel. Li dentro c’erano tutte le indicazioni (e anche oltre) per il futuro Programma Nazionale di appoggio all’agricoltura familiare, il PRONAF che, nato l’anno seguente con la presidenza Cardoso, ebbe una svolta molto importante in termini di risorse, quando arrivò Lula nel gennaio del 2003. 

 

Qui sotto trovate il link all’articolo che ho scritto con il capo-progetto dell’epoca, per raccontare il lavoro da noi svolto in quegli anni: 

https://old.fondation-farm.org/zoe.php?s=blogfarm&w=wt&idt=1705#cv

 

Se siamo riusciti a far passare delle raccomandazioni emanate dal programma FAO e farle diventare politica pubblica, è stato grazie a Valter Bianchini.

 

Di chiare origini venete (trevigiane), Valter ha lavorato molti anni con il servizio di assistenza tecnica EMATER del suo stato, il Paranà, prima di fondare, assieme ad altri amici, una Ong (DESER) che serviva come centro studi sulle questioni agrarie nel Paranà. 

 

Oltre ad avere una empatia naturale verso gli altri, uguale al compianto Marco Lins, Valter era anche diventato il referente di Lula per i movimenti contadini. Come mi disse sua moglie, un anno che io e mia moglie eravamo andati a passare qualche giorno di vacanza con loro, “quando Lula ha un problema con i movimenti contadini, chiama Bianchini!”. L’altro referente agrario di Lula era il manitou di cui ho accennato prima, che gli copriva il mondo accademico. Per fortuna che, nel caso in questione, Lula ascoltò Bianchini, per cui venne creata, all’interno del nuovo Ministero dello Sviluppo Agrario (MDA), la Segreteria dell’Agricoltura Familiare (SAF), con Bianchini alla sua guida.

 

Il Pronaf nacque così, prendendo una parte sola delle nostre raccomandazioni, ma già così era una politica pubblica innovativa, che pian piano prese una importanza strategica sia per Lula (perché gli permise di compensare in questo modo il poco o nulla sul tema della riforma agraria) che per molti paesi latinoamericani.

 

Erano anni d’oro, quando c’erano soldi nelle casse dello stato, il che permise una rapida espansione dei contratti con gli agricoltori, fino a coprirne circa il 50%. In oltre 25 anni non si è mai riusciti ad andare oltre, confermando i limiti strutturali del problema agrario brasiliano. Anche negli anni d’oro, molti fondi andarono al Pronaf, ma molti di più al Ministero dell’Agricoltura, responsabile per l’agribusiness.

 

Questa asimmetria di potere non è mai stata toccata e personalmente non credo sarà nemmeno sfiorata dal futuro governo Lula.

 

Alla fine, vedendo che era forse l’unica bandiera “progressista” nel mondo agrario (Brasile, latinoamericano e anche mondiale), anche i movimenti contadini tipo La Via Campesina, cambiarono idea e per questioni tattiche iniziarono ad appoggiarlo e presentarlo come una loro bandiera, cosa che storicamente non è vera.

 

Il problema è che tutti questi ultimi arrivati a vantare l’importanza dell’agricoltura familiare, lo hanno fatto spesso per ragioni tattiche, cioè senza aver studiato la questione politica legata allo stesso. Considerandolo quindi come un elemento importante in una visione immobile della storia, non hanno visto e ancor meno capito l’emergere della questione di genere.

 

Al massimo, spinti dalle pressioni che si originavano al loro interno, grazie alle donne dei movimenti, hanno interiorizzato alcune parole d’ordine, in particolare l’accesso alla terra e in particolare la co-titolazione nelle assegnazioni della riforma agraria. Ci si è fermati lì. Questo aspetto, che è evidentemente importante nei paesi dove erano in corso programmi di riforma fondiaria o agraria, resta comunque estraneo alla problematica dei paesi dove dominano “commons” e diritti di tipo consuetudinario.

 

La questione genere nell’agricoltura familiare tocca però altre dimensioni ancora più rilevanti, in particolare le asimmetrie di potere all’interno della “famiglia” e la ripartizione patriarcale dei compiti e dei riconoscimenti. Oggigiorno, nello stesso modo che si critica, giustamente, l’agroecologia quando resta una discussione limitata alle tecniche e ai benefici di tipo ecologico, senza occuparsi delle strutture di potere, bisogna criticare anche il concetto di agricoltura familiare, esattamente per la stessa ragione: mancanza di critica alla struttura interna di potere che questo concetto veicola. Nei fatti, continuare a parlare di agricoltura familiare senza dire null’altro, vuol dire perpetuare un sistema patriarcale.

 

Tanti specialisti universitari, che continuano a scrivere sull’importanza dell’agricoltura familiare, non si sono nemmeno resi conto di essere passati dalla parte dei conservatori, uomini del passato. Lo stesso vale per quei movimenti contadini che continuano ad opporre resistenze a queste analisi, paurosi forse che venga rimessa in questione la centralità maschile che ancora domina le dirigenze dei movimenti.

 

Sarebbe ora che accettassero la realtà e che anche loro iniziassero a fare un “aggiornamento” politico. Non è mai troppo tardi.

 

 

 

 

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