Scrivo questo post non casualmente oggi 25 novembre.
Comincio qui a scrivere alcune riflessioni iniziali, propedeutiche alla strutturazione di un lavoro futuro che vada oltre la fase di critica, come espressa nei due libri precedenti, La crisi agraria ed eco-genetica spiegata ai non specialisti (Meltemi, 2020), e il prossimo che uscirà a gennaio (di cui non dico ancora titolo ed editore), per inoltrarsi nella difficile arte di proporre elementi per un cammino di costruzione di un futuro diverso.
La squadra di lavoro non è ancora stata pensata, per cui le porte sono aperte a chi volesse proporsi.
Per cominciare, credo sia necessaria un’opera di pulizia del passato, che implica ritornare ancora una volta sul passato, l’ontologia modernista (come la definisce Kirsten Koop) che abbiamo costruito e che ci tiene prigionieri/e mentalmente e limita molto le capacità elaborative.
Operazione quanto più necessaria se realmente vogliamo iniziare a pensare il futuro in maniera diversa.
Figli/e del modernismo e della sua gabbia mentale
Per quanto io frequenti la Francia da quasi 40 anni, devo ammettere che la comprensione piena del significato della rivoluzione del 1789 mi ha sorvolato superficialmente fino a poco tempo fa. Per riassumere in poche parole, si è trattato di una rottura societale rispetto alle strutture feudali caratterizzate dall’imbricazione con la Chiesa e la religione, strutture altamente inegualitarie e dove non esistevano diritti e libertà individuale. La rivoluzione ha portato con sé questi nuovi valori, Liberté, Egalité et Fraternité (non sorellanza ovviamente, dato che era una rivoluzione maschile e maschilista, inserita pienamente nella lunga tradizione patriarcale che mai è stata abbandonata), e il sogno di ridurre le disuguaglianze di pari passo con l’espansione delle libertà individuali.
Queste idee e valori fanno paura nel mondo di allora, perché il sistema feudale monarchico era la base di tutti gli stati europei, al di là della deriva dittatoriale di Napoleone. Idee e valori che diventano, (loro malgrado?) le fondamenta di un nuovo sistema economico, perché di fatto legittimano il capitalismo mercantile, la nascente economia produttivista con cui inizia la rivoluzione industriale.
È così che pian piano, sulle fondamenta della rivoluzione francese, Darwin e i progressi tecnico-scientifici si forgia un nuovo immaginario fatto di pensiero lineare, progressivo e ottimista quanto ai cambiamenti sociali. Nasce così la “modernità”, un prodotto storico complesso e contraddittorio che continuerà il suo cammino dall’occidente sviluppato (Europa e Stati Uniti) verso la dominazione mondiale.
La fine del secondo dopoguerra è il punto di partenza per l’accelerazione della “modernizzazione” guidata e orientata dal mondo occidentale. Dal discorso di Truman del 1949 in poi, diventa chiaro per tutti che, pur essendo solo una delle due grandi protagoniste della sconfitta del nazismo (l’altra, con molte più vittime e danni sofferti, l’Unione Sovietica), il futuro sarà quello tracciato dagli USA, sulla scorta delle basi messe fin dal 1789: proprietà privata, libertà e democrazia secondo standard definiti a Washington.
Il primo passaggio è stata la cancellazione dell’altro. La guerra fredda non è stata solo una battaglia ideologica tra capitalismo e comunismo, ma tra un modo di vedere unico e omnicomprensivo (la modernità definita dal mondo occidentale) e un possibile “altro”, di cui si sapeva poco e quel poco comunque faceva paura.
La costruzione della modernità occidentale necessitava, per diffondersi anche nei nuovi Sud che iniziavano ad esistere, di concetti nuovi che chiarissero in poche parole chi comandava e chi no. Nasce quindi il concetto di “sviluppo”, si inventano i paesi “sottosviluppati” e, grazie a compiacenti teorie economiche (Lewis) si dettaglia il percorso da fare: alla proprietà privata si affianca il ruolo centrale del mercato, la costruzione di nuovi Stati sulla falsariga dei modelli (e istituzioni) occidentali e si aggiunge, particolarmente nel mondo agrario, l’altro Dio, un giano bifronte composto dal binomio scienza-tecnologia.
Si creano istituzioni internazionali (le nazioni unite e, al loro interno in particolare la FAO), per portare la buona novella nel resto del mondo.
Ci vorranno decenni prima che teorie alternative si sviluppino grazie, tra gli altri, agli scritti di André Gunder Frank, Samir Amin e Singer-Prebisch. Ma resteranno sempre iscritte all’interno dello stesso contenitore, il modernismo (sviluppo, industrializzazione, scienza e tecnologia). Altri anni passeranno prima che pian piano si inizino a scoprire gli (scrivo apposta gli e non le) “attori” dello “sviluppo”. Si prova così a correggere gli errori degli approcci modernisti che, nel Sud del mondo, non portano alla risoluzione di nessuno dei problemi di base, primo fra tutti quello della fame e, strettamente collegato e ancor più ampio, della povertà. Nascono gli approcci “partecipativi” che, come ben semplificato dal mio vecchio amico e molte volte citato Hernan Mora, diventano ben presto degli approcci di “partecipolazione”, cioè di partecipazione manipolata.
La manipolazione è necessaria, perché non può esistere il rischio che questi attori locali, a cui, fino a poco prima, si è negata la minima conoscenza utile al loro “sviluppo” (che solo poteva procedere dai nostri saperi scientifici), diventino dei veri protagonisti e pretendano magari prenderne la direzione (del loro “sviluppo”) o magari addirittura di cambiarne la direzione.
Poco a poco inizia ad emergere anche l’altra metà del mondo, la questione femminile prima e di genere poi. Anche questa però viene ben presto incanalata dentro i binari della visione modernista nord-occidentale.
Arriviamo quindi ai giorni nostri dove non è più possibile negare l’esistenza di tanti e diversi “altri”. La battaglia, vista dai dominanti, resta però sempre la stessa: come inquadrare questi “altri” dentro lo stesso schema dominato dal nord, uno schema che, da oltre 40 anni, ha accelerato nel porre il singolo, l’individuo come unico referente di politiche, visioni e programmi. La promozione dell’individualismo era strutturalmente funzionale all’idea di rompere i legami societali di solidarietà che potevano ancora esistere e resistere. Lo aveva ben detto Margaret Thatcher: io vedo solo individui, non vedo società. Quello slogan ci è entrato dentro, separandoci gli uni dagli altri, in questo facilitati dallo sviluppo di scienza e tecnologia (ancora!), che permettono di “fare finta” di essere comunità, quando siamo chiusi nella nostra stanza a chattare sul telefono.
Un viaggio verso il pluriverso
Bisogna invertire il senso del titolo iniziale: non si tratta genericamente di andare verso gli altri, ma di andare innanzitutto verso le altre. Se l’ontologia modernista è la nostra gabbia mentale da due secoli e più (con una accelerazione dal dopoguerra in poi), va anche ricordato che questo mondo e quello pre-esistente (feudale) erano figli di uno stesso portainnesto, il patriarcato.
Le strade che dobbiamo percorrere quindi sono tante, complesse e il percorso non è ovviamente definito. Questo perché il primo punto è di ritornare a quanto detto sul perché della guerra fredda: non avere un altro, non riconoscergli nessun diritto di partecipare alla costruzione di una visione per il mondo del dopoguerra.
Bene, se gli USA ci sono riusciti con l’Unione Sovietica, in realtà hanno perso la battaglia perché “altri” sono apparsi non solo nei Sud del mondo (a partire dalla “scoperta” delle popolazioni indigene e delle loro diverse cosmovisioni) ma anche nel nostro Nord: la questione di genere, lotta al patriarcato e alle asimmetrie di potere.
Non c’è un mondo solo, ma un pluriverso pensato, descritto e vissuto in maniera diversa, senza gerarchie, da una pluralità di … attrici e attori.
L’accettazione di questa pluriversatilità (si dirà così?) è solo un punto di partenza, per mettere in crisi e questionare anche gli strumenti con cui cerchiamo di capire attori e attrici del Sud e del nord. Noi figli della “cooperazione allo sviluppo”, spesso maschi, bianchi e occidentali, dobbiamo fare uno sforzo molto grande per guardarci dentro, toglierci di dosso queste armature ideologiche e concettuali, questi credi di cui non siamo neppure coscienti (a volte), per intraprendere questo cammino.
Uscire dalla modernità, e porci il problema degli altri e delle altre. Ma non solo guardando a Sud, ma anche al nostro fianco, sopra e sotto di noi, con le nostre sorelle, figlie, madri, nonne, amiche e colleghe. Abbiamo bisogno di occhiali diversi, che non sarà un oculista a darci, ma dobbiamo costruirceli noi, non da soli, ma appoggiandoci gli uni agli altri.
Il pluriverso è e sarà diverso, ma dovrà avere una base di partenza diversa e comune, un portainnesto che ha un nome chiaro: NO al patriarcato! Da lì cominciamo a riflettere, su concetti, metodi di studio ed azioni concrete. Senza farci gabbare ancora da novità che ci vengono presentate come rivoluzionarie, tipo l’agroecologia o la permacultura: si resta sempre all’interno dello stesso schema di scienza e tecnologia, solo cambiando tecniche e dichiarandole più rispettose dell’ambiente. Ma dimenticandosi sempre che l’ambiente siamo anche noi, donne e uomini, per cui una lotta per promuovere queste tecniche senza andare a lottare contro la base patriarcale che ci sta dietro, a ben poco serve.
Questo solo per dare un esempio, che la ricerca non sarà facile, non esisteranno formule econometriche così care al mio amico Marco; dovremo aprirci noi, nei nostri dubbi, nell’assenza di certezze perché, come diceva Z. Sardar nel suo saggio Welcome to postnormal times, “The spirit of our age is characterised by uncertainty, rapid change, realignment of power, upheaval and chaotic behaviour. We live in an in-between period where old orthodoxies are dying, new ones have yet to be born, and very few things seem to make sense. Ours is a transitional age, a time without the confidence that we can return to any past we have known and with no confidence in any path to a desirable, attainable or sustainable future. The way forward must be based on virtues of humility, modesty and accountability, the indispensible requirement of living with uncertainty, complexity and ignorance.”
Quindi, iniziamo!
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