Ricordi mescolati, dalle elementari, alle medie, alle superiori e poi l’universitá. Un tratto comune, all’epoca, era che si veniva su con tanta bicicletta, dai vecchi “caseoti” (“rocheoti”) alla prima bici nuova del 1973, finché poi si arrivó alla motorizzazione degli ani seguenti. Ma quanta invidia per la bici nuova-vecchia di Roberto (eravamo giá all’universitá), una Bianchi con i freni a bacheta… roba da sogno ..
Ricordo il primo giorno che andai ad Agraria, facendo la strada con Lisa, la figlia della mia vecchia maestra delle elementari, sorpresi di ritrovarci, dopo tanti anni, iscritti alla stessa Facoltà. Attraversando i giardini del Piovevo la domanda partí innocente: cosa farai da grande, una volta finita l’Università. Ricordo ancora adesso la risposta, che dovette uscir da sola, tanto non era premeditata e, devo ammetterlo, non l’avevo chiara in testa. Da grande voglio andare in Africa ad aiutare gli altri.
Andai all’universitá un po’per caso, spintomi piú da mia madre e mia sorella che da una vera voglia. La maturitá era andata male, malgrado i bei voti dei cinque anni del geometri. Lí per lí volevo fermarmi e chiudere un’avventura scolastica che mi sembrava una specie di lotteria dove il premio finale viene estratto a sorte e non ha nessuna relazione con quello fatto negli anni precedenti. Iniziai quindi a lavorare da un geometra, per fare quei due benedetti anni di tirocinio necessari a iscriversi all’Albo. Essendo tutto in nero l’unica forma di avere una copertura sociale sembrava quella di iscriversi all’universitá, e cosí feci.
Per cui la sorpresa per quella risposta data a Lisa fu probabilmente piú mia che sua. Avevo idee limitatissime sull’Africa, e meno ancora sulle rivoluzioni che scoppiavano altrove (Nicaragua, appena passato da un’oligarchia trentennale alle mani dei sandinisti rivoluzionari). Il mio era un orizzonte di cortile o poco piú in la.
Cultura cattolica di fondo, con uno strato di volontarismo verso gli altri. Grattando un po’ probabilmente si sarebbe trovato anche dell’altro, come un po’ di quella rabbia che aveva iniziato ad accumularsi fin da quel giorno di settembre 1973 quando mia madre mi disse di svegliare mio fratello Bruno ed i suoi amici che dormivano a casa perché era successo qualcosa di molto grave la, nel paese di uno di loro, il Cile che da quel giorno sarebbe entrato nella mia vita per non uscirci più. Forse fu la prima parola spagnola che imparai: GOLPE.
Un tarlo che iniziò a scavare quel giorno e che non si è mai fermato. Un anno dopo (settembre 1974) andai alla mia prima manifestazione, Brescia, per la bomba a Piazza della Loggia, le cariche della Celere di Padova e vedere la vergogna nei visi di quei politici che avevano oramai perso gran parte della fiducia che sta alla base del patto repubblicano.
Ci sarebbero voluti ancora anni per capirlo, ma la frattura di quel giorno fu la fine della gioventù, significò entrare nell’età adulta e capire che non si sogna molto, che la legge del più forte è sempre li per prevalere.
Forse quella frase: Voler andare in Africa, era un altro modo per dire di voler aiutare gli altri, non pensare solo a se stessi, e questo era, per noi tutti credo, IL valore supremo, quello che, bene o male, ci accomunava (quasi) tutti, al di là di opinioni politiche magari molto diverse.
Trent’anni dopo vediamo una specie di naufragio di valori. Genitori che non sanno “fare” i genitori, come se si trattasse di un mestiere da imparare. Vengono a dare i corsi, degli specialisti che ti spiegano come comportarti perché a forza di pensare a te stesso non sai più come comportarti con gli altri, i tuoi figli in primis. Senti che il tuo mondo di allora non c’è più, anche se restano vecchi bar che vorrebbero simboleggiare quell’epoca. Ma l’aria è diversa. Si respira intransigenza, mancanza di rispetto, paura e diffidenza. Vorrei aggiungere anche ignoranza, ma in fin dei conti l’ignoranza ce l’avevamo addosso anche noi e non per questo si era cattivi come adesso.
Forse la prima Africa era entrata in classe mia quando stavo alle elementari. Domenico di L. entrò in una mattinata di autunno quando stavamo in quarta elementare. Veniva da Licata (che per noi stava sulla Luna, ma in realtà era in Sicilia). La famiglia, disagiata diremmo oggi, insomma povera, era venuta su al Nord per qualche oscura (a noi) ragione. La maestra ce lo presentò, era niro niro e piccolino e ovviamente come noi parlavamo vicentino lui parlava siciliano. Non ci si capiva proprio con quel marziano, per cui dovemmo usare il dizionario universale dei bambini: il gioco. Con la palla al piede non, lo teneva nessuno per questo in poco tempo era già diventato uno di noi, anzi il regista della nostra squadretta. A nessuno sarebbe venuto in mente di sfotterlo per il suo colore, la sua lingua, la sua povertà…. Ecco, oggi questo non c’è più, sparito. Oggi la scala dei valori è cambiata e per il momento almeno, è stata interiorizzata sia da chi l’ha imposta, quelli di sopra, che da quelli che la subiscono. Per cui, non più cogito ergo sum, ma consumo dunque esisto. Domenico e la sua famiglia non avrebbero potuto consumare molto, erano poveri e basta, ma era normale per noi. Oggi sarebbero fuori dal giro e, quel che è peggio, loro stessi si sentirebbero inferiori. Secondo me non durerà molto, e quando ci sveglieremo da questo mondo, sarà un risveglio molto duro per tanta gente. Ma ci ritorneremo dopo.
martedì 15 giugno 2010
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