magari per molti non sarà proprio una novità, ma nell'ultimo anno si é imposto per semplicità e gusto, quasi da rimpiazzare la torta all'ananas di Consuelo
Pour 4 personnes :
* 3 pommes et 2 poires
* 3 cuillères à soupe de sucre cassonade
* un petit verre de brandy
Pour la pâte à crumble :
* 1 brioche rassie passée au mixer
* 70 g de sucre blanc
* 70 g de beurre
Épluchez les pommes et les poires et coupez-les en lamelles. Mettez les dans un plat qui va au four. Couvrez les avec le sucre et le brandy.
Mélangez avec la pointe des doigts la brioche, le beurre et le sucre pour en faire une pate friable. Parsemez la sur les fruits et au four (180°) pour 30 minutes.
Quand le crumble est doré, servir tiède ou froid.
sabato 30 aprile 2011
martedì 26 aprile 2011
La squadra angolana - A equipa angolana
Ricette: HACHIS PARMENTIER FACON CHARLOTTE
Ingrendienti per 7-8 persone
- 2.4 kg di patate
- 1 cipolla fresca
- 1 cipolla
- Prezzemolo
- 400 gr carne macinata di vitello
- 400 gr carne macinata di manzo
Fare la purè:
pelare le patate, metterle in acqua fredda salata e farle cuocere ( molto, il coltello deve scivolare dentro senza nessuna fatica ). Passare le patate cotte in un passa verdure. Aggiungere poco a poco ½ litro di latte e amalgamare bene. Aggiungere burro Q.B. (quanto basta).
Riassaggiate la purè e in caso aggiungere sale.
Fare la carne:
mettere le carne macinata in una padella a fuoco molto lento x togliere l’acqua della carne. Quando la carne è di un colore piu chiaro e l’acqua si vede, togliere dal fuoco e con un schiumatore = scolate la carne. Aggiungere alla carne il prezzemolo e le cipolle ben tritate e aggiungere sale e pepe Q.B.
Preparazione:
in una pirofila mettere un primo strato di almeno 2 cm di purè poi aggiungere tutta la carne e coprire con un ultimo strato di purè. Chi volesse decorare può fare dei disegnini con la forchetta sopra il purè
Cottura:
180 gradi: mettere la pirofila in forno per circa un’ora. Controllare quando comincia a dorare sulla superficie.
Servire caldo ... e vedrete che lo divorano.. come nella foto...
domenica 24 aprile 2011
L 23: Vieni via con me - Roberto Saviano
Feltrinelli - Varia
Otto capitoli, otto storie, un ritratto unico dell'Italia di oggi firmato dall'autore del bestseller internazionale Gomorra. Roberto Saviano scava dentro alcune delle ferite vecchie e nuove che affliggono il nostro Paese. Il mancato riconoscimento del valore dell'Unità nazionale, il subdolo meccanismo della macchina del fango, l’espansione della criminalità organizzata al Nord, l'infinita emergenza rifiuti a Napoli, le troppe tragedie annunciate. Accanto alla denuncia c’è anche il racconto – commosso e ammirato – di vite vissute con onestà e coraggio: la sfida senz'armi di don Giacomo Panizza alla ’ndrangheta calabrese, la lotta di Piergiorgio Welby in nome della vita e del diritto, la difesa della Costituzione di Piero Calamandrei. Esempi su cui possiamo ancora contare per risollevarci e costruire un’Italia diversa. Ideato e condotto da Roberto Saviano e Fabio Fazio, Vieni via con me è stato l'evento televisivo dell’anno, più seguito delle partite di Champions League e dei reality show. Ora Vieni via con me è un libro che rende di nuovo accessibili al pubblico queste storie in una forma ampiamente rivista e arricchita. Facendole diventare, ancora una volta, storie di tutti.
per chi ha visto il programma o segue Saviano sui giornali, magari non sono cose nuove. Ma la memoria si mantiene ogni giorno, per cui leggetelo... e ricordatevi, soprattutto il capitolo sui traffici della monnezza del Nord.
L 22: Le rivolte inestirpabili - Erri de Luca; Danilo de Marco
Erri De Luca e Danilo De Marco
Le rivolte inestirpabili
Forum Editrice Universitaria Udinese
Immigrati, rom, sans-papier, profughi, rifugiati e rifiutati, concentrati, espulsi. Milioni di piedi decisi a resistere, fermi, e milioni di piedi in movimento. Noi e gli altri. Milioni di ‘altri’ che abbiamo fra noi, a incrociare le vite con le nostre, tornano in questo volume, nella cadenza dei testi di Erri De Luca e delle fotografie di Danilo De Marco. Sguardi colti nei luoghi più diversi del terzo e quarto mondo, nel pugno chiuso e alzato di bambini, ragazze e donne, nella fierezza e nella tenerezza di gesti e corpi di altre culture. «Soggette al ricatto assoluto della sopravvivenza, queste persone improvvisamente trovano lo spunto per unirsi in maniera orizzontale. Per opporsi, mettersi in urto, chiedere qualcosa che può migliorare la loro vita. [...] Per questo le rivolte sono inestirpabili». Il libro è un invito a guardare in viso anche loro, occhi negli occhi, e ad ascoltare. L'intreccio tra le parole dello scrittore e le immagini del fotografo ci richiama una verità primitiva: a tutte le persone è dato lo straordinario potere di dire di no, anche nei contesti più terribili; e proprio questa è la discriminante che conta, se si vuole restare persone umane, la scelta fra l’essere liberi o servi.
un libro per ricordare, sempre e comunque!!
giovedì 21 aprile 2011
Frase del giorno: E per la forza di una parola io ricomincio la mia vita. Sono nato per conoscerti, per nominarti. Libertá
"Et, par le pouvoir d'un mot, Je recommence ma vie. Je suis né pour te connaitre, Pour te nommer. Liberté"
(Paul Eluard)
(Paul Eluard)
L 21: Sarti Antonio: Un diavolo per capello - Loriano Macchiavelli
Einaudi (collana Einaudi. Stile libero. Noir)
Raimondi Cesare, ispettore capo e superiore diretto di Sarti Antonio, ritiene che il direttore di una banca rapinata sia il vero organizzatore del colpo e manda Sarti Antonio in vacanza nel paesino dove è stato consumato il delitto. Il suo compito è controllare le mosse del direttore per arrestarlo mentre cerca di recuperare la refurtiva, di cui si sono perse le tracce. Sarti Antonio, anziché del direttore della banca, si occupa piú spesso dell'affascinante moglie. Nessun indizio sul direttore, molti sulla di lui gentile signora fino al momento nel quale Sarti Antonio rifiuta un caffè. E se è a arrivato questo punto, vuol dire che per lui si mette male, ma male sul serio.
Faccio anch'io parte di quelli che reputano questo romanzo non uno dei migliori della serie. Sia per la trama, un po' cosí, per aria, sia per i personaggi, tratteggiati molto velocemente e quasi delle macchiette (mai visti tanti caffé per Sarti come in questo libro, Rosas che, pur vivendo in un tugurio, ha sempre il letto pieno di giovani ragazzine e che scopre tutto con un anno di anticipo su Sarti.. insomma, prevedibile e quindi un po'banale.
martedì 19 aprile 2011
L 20: Il Cigno - Sebastiano Vassalli
Einaudi (collana Einaudi tascabili)
Palermo 1893: la storia di un delitto di mafia nella Sicilia di ieri diventa lo specchio inquietante di tutte le connessioni tra mafia e politica che continuano a inquinare la vita italiana di oggi: la parabola esemplare dell'onorevole Palizzolo, detto "Il Cigno", arrivato al potere, simbolo dell'orgoglio isolano, che viene accusato di essere il mandante di un omicidio eccellente. Al centro di tutto lo scandalo del Banco di Sicilia, Francesco Crispi, il grande manovratore, il realista cinico e spregiudicato, ma anche a suo modo sognatore. Il libro di Vassalli è, in ultima analisi, un romanzo storico che si deve leggere in chiave d'attualità.
Leggerlo in questi giorni sembra sia stato scritto ieri, soprattutto la parte finale quando il Cigno e i suoi accoliti se la prendono con questa campagna di stampa diffamatoria.... che ci ricorda molto qualcun altro. Il richiamo scherzoso a Pirandello é anche un momento simpatico, di un autore che piú lo conosci piú hai voglia di leggerlo!. Candidato alla top ten, ma siccome ne ho altri in lista, vediamo....
lunedì 18 aprile 2011
E la vita se ne va
Una bella giornata, il sole é tornato a splendere, dalla mia finestra vedo il Colosseo, la gente che corre lungo il Circo Massimo, le auto agli incroci, insomma la solita fretta. Fa freddo, il sole questa volta non si è ancora accompagnato dal calore, ma forse è un freddo diverso, a ricordarmi il dolore che stanno soffrendo una coppia di amici miei. Un familiare, giovane, se ne sta andando, senza una spiegazione razionale, una malattia se lo sta portando via, consumandolo giorno per giorno, e consumando anche i familiari, gli amici e chi gli è stato o è loro vicino in questi momenti. Cerchi di far finta di nulla, ma poi ti capita di pensare a loro, a quando anche tu magari sei passato per momenti simili, e ritorni lí a chiederti il senso di questa vita: che ci stiamo a fare, per noi, per gli altri. Domande che ovviamente non hanno risposta, ma che devi farti, e devi soprattutto trovare delle risposte, oppure devi avere vicino qualcuno che cercherá di dartele quando questo strazio avrá fine e il familiare non sará piú qui.
Proviamo sempre a guardare avanti, ma poi sono questi i momenti che ti fanno guardare indietro, attorno a te, e sentire di dover condividere il dolore, anche se sembra cosa impossibile. Morire è cosa naturale, fin dalla nascita lo sappiamo, ma poi troviamo ingiusto, profondamente ingusto che questo accada cosí da giovani, quando non hai potuto ancora far nulla delle potenzialitá che avevi, e lasci un buco enorme, che ti prende e morde alla gola. L’ho conosciuto anch’io, poco, quando avevamo qualche anno in meno e ci trovavamo lassú in Francia. Se ne sta andando, e noi le risposte non le abbiamo, e sua sorella sta male da cani, .. e noi con lei….
Proviamo sempre a guardare avanti, ma poi sono questi i momenti che ti fanno guardare indietro, attorno a te, e sentire di dover condividere il dolore, anche se sembra cosa impossibile. Morire è cosa naturale, fin dalla nascita lo sappiamo, ma poi troviamo ingiusto, profondamente ingusto che questo accada cosí da giovani, quando non hai potuto ancora far nulla delle potenzialitá che avevi, e lasci un buco enorme, che ti prende e morde alla gola. L’ho conosciuto anch’io, poco, quando avevamo qualche anno in meno e ci trovavamo lassú in Francia. Se ne sta andando, e noi le risposte non le abbiamo, e sua sorella sta male da cani, .. e noi con lei….
venerdì 15 aprile 2011
Une autre agriculture est possible! Interview de Marc Dufumier
• Les citadins, qui constituent l'immense majorité de la population française, ont le sentiment d'une agriculture jamais sortie de la crise depuis des décennies...
Les citadins, qui ont un peu oublié ce qu'était l'agriculture, s'inquiètent surtout de la qualité sanitaire des aliments : dioxine dans le poulet, vache folle dans le steak, pesticides sur les légumes, hormones dans le lait, ça commence à faire beaucoup.
Ils s'interrogent sur le bien-fondé d'une politique agricole commune (PAC) qui a abondamment subventionné les agriculteurs sans qu'on soit récompensés par la qualité des produits. Quand ils vont à la campagne, ils voient des paysages défigurés. Ou alors ils apprennent qu'un cheval est mort sur une plage bretonne à cause de la pollution par les nitrates. Comment en est-on arrivés là? Qu'ont fait nos agriculteurs?
• Accusation justifiée?
On accuse les agriculteurs au lieu d'incriminer le système qui les a poussés à spécialiser exagérément leur agriculture et à la standardiser. Les agriculteurs disent : on a fait ce que les clients nous demandaient ; et les clients répondent : ce n'est pas ce qu'on a demandé. Cela vient du fait qu'entre eux, deux intermédiaires dominants, l'agro-industrie et la grande distribution, ont imposé des produits standards. Quand vous voulez faire épiler des canards par des robots, il faut que les canards naissent tous identiques, donc clonés, nourris avec la même alimentation, apportés le même jour à l'abattoir qui doit les traiter d'une seule et même façon...
• Mais après-guerre, lorsque démarre l'industrialisation de l'agriculture en France, la grande distribution n'existe pas... C'est vrai qu'aujourd'hui la grande distribution, Leclerc, Carrefour et Auchan, a pris le dessus sur les grandes entreprises de la transformation, Danone ou Lactalis. Mais dès le départ, ces agro-industriels ont voulu livrer au consommateur un produit au moindre prix et standardiser les processus. Ils ont été bien aidés par les compagnies semencières et la recherche génétique, même publique...
• Pourquoi les semences se raréfient?
Depuis le néolithique jusqu'au XIXe siècle, les agriculteurs sélectionnaient leurs semences dans leurs champs. Ils choisissaient les plus beaux plants, les plus beaux épis sur les plants, les plus beaux grains sur les épis. Ils étaient maîtres des critères de sélection. Et parmi ces critères, la qualité gustative dominait, elle déterminait le prix. Aujourd'hui, la recherche génétique investit des millions qu'il faut amortir au plus vite. Les nouvelles semences doivent être rentabilisées sur les plus vastes surfaces possibles. On cherche un critère de sélection universel, quels que soient les terroirs. Et ce critère, c'est la photosynthèse, transformation de l'énergie solaire en énergie alimentaire, amidon, sucre. On cherche des plantes capables de bien intercepter la lumière.
• La terre n'importe plus?
Non, c'est un renversement complet : les agriculteurs sélectionnaient des variétés adaptées à leur terroir, les terroirs doivent désormais s'adapter à un faible nombre de variétés. Les agriculteurs n'ont plus à leur disposition que très peu de variétés végétales et un nombre décroissant de races animales. Partout, la même vache, la prim'Holstein, produit un lait abondant qui comporte surtout beaucoup d'eau, et, comme on surproduit ce lait, on le déshydrate pour qu'un jour en Afrique les gens le réhydratent avec de l'eau qui risque de ne pas être potable... Tout ça commence à devenir criminel, mais s'explique parfaitement : lorsqu'on investit de grosses sommes dans l'agro-industrie ou la recherche génétique, il faut que cela rapporte autant que dans l'immobilier ou dans la banque. Le capital évite d'ailleurs de s'investir dans le processus de production lui-même et laisse ce risque aux agriculteurs, stigmatisés alors qu'ils n'ont fait que répondre au cahier des charges de l'industrie. On comprendra qu'ils vivent très mal, alors que leur revenu s'effondre, d'être toujours sur la sellette...
• D'où ce vote paysan aux régionales, l'abstention et l'extrême droite?
On le constate en Alsace, où les villes sont à gauche, et même en Franche-Comté. Des agriculteurs très attachés à leur terroir ont perdu leurs repères, précisément parce que la grande distribution n'a pas su prendre en compte les agricultures régionales. Les agriculteurs sont atteints dans leur dignité car leurs revenus reposent de plus en plus sur des aides et non sur le prix de leurs produits. Plutôt que de comprendre qu'il leur faudrait se battre pour des produits de qualité régionale, affronter collectivement les compagnies semencières et la grande distribution, ils pensent qu'ils ont perdu le combat et règlent leur compte, par ce vote injuste, avec les catégories de la population qui fréquentent les hard discounts, les pauvres, les migrants...
• Cette crise agricole, c'est aussi l'échec de la politique agricole commune? Au sortir de la guerre, on demande aux agriculteurs de développer des produits pour lesquels l'Europe était déficitaire : céréales, sucre, lait et viande. Pour cela, on leur garantit des prix « rémunérateurs, incitatifs et stables ». Rémunérateurs, pour qu'ils puissent satisfaire aux besoins de leur famille, mais aussi investir et accroître leurs rendements. Stables, pour que cet investissement se fasse sur le long terme, ce qui les conduit à se spécialiser. Et incitatifs, c'est là qu'est le problème : quand on est incité, par des prix garantis, à faire des céréales, du sucre, du lait et de la viande, il devient dissuasif de faire autre chose, c'est-à-dire des protéines végétales pour l'alimentation animale - le soja, la luzerne... - et pour les humains - pois chiches, haricots, fèves. Les agriculteurs ont abandonné ces productions que nous importons pour les trois quarts.
• Avec quelles conséquences? Une vraie perturbation des cycles de l'azote, gaz le plus répandu dans l'atmosphère, qui permet la croissance des plantes. Pour le bétail, nous ne cultivons presque plus de luzerne, de trèfle, de lotier, de sainfoin, c'est-à-dire des protéines végétales riches en azote. A la place, nous importons des protéines de soja, donc de l'azote qui vient du Brésil. Et pour nos cultures, quand il s'agit d'apporter de l'azote aux céréales et aux betteraves, on le fait avec des engrais azotés de synthèse, coûteux en énergie fossile importée sous forme de gaz naturel russe et norvégien. Pour compléter le tableau, à cause de ces prix garantis, « rémunérateurs, incitatifs et stables », nous sommes devenus exportateurs de céréales, que nous bradons aux pays du Sud... Comment en sortir? Il faut commencer par recombiner agriculture et élevage. C'est difficile parce que les agriculteurs se sont endettés dans la course aux machines, puis dans l'agrandissement des exploitations pour amortir ce matériel. Quelqu'un qui vient d'investir dans une grosse moissonneuse-batteuse ne peut investir dans une salle de traite, et inversement. Cette spécialisation excessive fait qu'en Bretagne, où il y a une surconcentration animale, les animaux mangent un soja azoté importé du Brésil et, comme ces animaux ne reposent plus sur des pailles - les pailles sont dans le Bassin parisien, où on cultive les céréales -, qu'on ne fabrique plus de fumier mais du lisier. L'urine et les excréments percolent jusqu'aux nappes phréatiques, l'azote se transforme en nitrates, on dépasse les normes européennes, les eaux sont imbuvables, le littoral est pollué, un cheval meurt sur une plage...
• Et dans le Bassin parisien, terre de céréales?
Plus d'élevage, donc plus de fumier non plus, les céréales manquent d'azote et on a recours aux engrais azotés de synthèse. Il faudrait au moins demander aux grands céréaliers qu'autour d'eux, chaque fois que des terres se libèrent, ils laissent s'installer des éleveurs à qui ils fourniraient des légumineuses - luzerne, trèfle, sainfoin. Du coup, leurs céréales industrielles seraient fertilisées en azote grâce à ces légumineuses, qui ont le grand mérite de fixer l'azote sous forme organique et d'éviter qu'il rejoigne les nappes phréatiques. Mais pour cela, il faudrait que nos céréaliers soient incités à faire ces protéines végétales et dissuadés par des quotas de surproduire des céréales...
• Que va-t-il se passer en 2013, lors de la renégociation de la PAC? Si la France ne fait pas de propositions novatrices, on court à la catastrophe ! Nos partenaires européens veulent qu'on baisse l'aide aux agriculteurs pour engager des politiques industrielles. A cela s'ajoutent les pressions internationales pour qu'on libéralise les échanges agricoles. Depuis vingt ans, la PAC, à cause des surproductions, est attaquée dans les enceintes internationales, le Gatt autrefois, l'OMC aujourd'hui : on a perdu une bataille en 1992 parce que le syndicat majoritaire des agriculteurs français, la FNSEA, au lieu d'accepter des quotas sur l'exportation des céréales, a, sous la pression de deux lobbys néfastes, les céréaliers et les sucriers, campé sur ses positions et refusé les quotas. Evidemment, on a perdu, il a fallu cesser les subventions aux exportations, remplacées par des « aides directes » aux agriculteurs. Aujourd'hui, il faut revoir la copie : pour que les contribuables acceptent de continuer à financer nos agriculteurs, ces derniers vont devoir produire un environnement sain et beau et des aliments de bonne qualité.
• Quels sont les moyens d'y parvenir? En généralisant les appellations d'origine protégées, avec une certification, comme pour le bio. Les agriculteurs seraient rémunérés non plus par des aides directes mais par des prix garantis, parce que le consommateur accepterait d'acheter plus cher ces produits. C'est possible puisque, malgré la crise économique, on importe 10 % de produits bio supplémentaires chaque année pour pallier l'insuffisance de la production française. Donc il y a bien un marché croissant pour des produits de qualité.
• Mais on verrait une agriculture, et une consommation, à deux vitesses, pour les riches et les pauvres? C'est déjà le cas. Rappelons qu'au lendemain de la Seconde Guerre mondiale, quand des gouvernements courageux ont mis des droits de douane sur les produits importés bon marché des Etats-Unis et d'Argentine afin que nos agriculteurs soient correctement rémunérés, il n'y a pas eu de conflits sociaux majeurs, alors que l'alimentation représentait 30 % du budget des ménages. Aujourd'hui, ce n'est plus que 15 %.
• Un peu plus pour les ménages pauvres... C'est vrai. Il va falloir qu'ils aient accès à une alimentation de qualité sans débourser davantage. D'où cette proposition, dans le pacte de la Fondation Nicolas Hulot dont j'étais l'inspirateur : les couches modestes, celles qui fréquentent quotidiennement les cantines d'entreprises et scolaires, doivent y trouver au même prix une alimentation de qualité. Pour cela, la restauration collective établira des contrats avec les agriculteurs certifiés, et payera plus cher les produits, grâce aux subventions de la PAC. C'est cela qu'il faut renégocier : un transfert massif des subventions européennes vers l'agriculture de qualité. Une partie de ces subventions pourrait aussi rémunérer des contrats que les collectivités locales passeraient avec les agriculteurs pour le maintien du bocage, d'un environnement diversifié, afin de permettre notamment la survie des abeilles, donc la fécondation des fruitiers avec moins de pesticides et d'insecticides. Au final, on ne parlerait plus de subventions, de mendicité, mais de gens droits dans leurs bottes jouant un rôle de service public.
• Belle utopie. Quelle chance y a-t-il pour que ces idées soient mises en œuvre, avec un Pascal Lamy à l'OMC qui prône la libéralisation des marchés? Les conférences, les films, le montrent : le grand public adhère à l'idée qu'une autre agriculture est possible. Comment Pascal Lamy et Dominique Strauss-Kahn peuvent-ils penser que les échanges internationaux, tels qu'ils sont négociés aujourd'hui, nous donnent une agriculture et un environnement de qualité ? Pourquoi la raison ne l'emporte-t-elle pas ? Parce que beaucoup de gens ont investi dans la recherche génétique, la grande distribution, l'agro-industrie ! Or, aujourd'hui, cette dernière se délocalise en Ukraine pour faire du blé, au Brésil pour faire de la canne à sucre ou des agrocarburants. Ils savent pertinemment qu'il vaut mieux produire le tout-venant à l'étranger. Les vrais avantages comparatifs de l'agriculture française, ce sont les produits à haute valeur ajoutée : les deux tiers de notre excédent de balance commerciale agricole proviennent des vins et fromages d'appellation d'origine protégée. C'est dans cette direction qu'il faut aller, et nous devons arrêter de faire du faire du tort aux pays du Sud avec nos exportations de céréales subventionnées.
• Dès lors, comment s'y prendre? Dans les négociations de l'OMC à Doha, les pays du Sud vont chercher à reconquérir leur sécurité et leur souveraineté alimentaire. On ne doit pas revoir les émeutes de la faim de 2007-2008. Il faut donc que le paysan éthiopien puisse manger du teff, le paysan andin du quinoa, de l'amarante et du lupin, le paysan sénégalais du mil et du sorgho, que tous ces paysans ne soient pas obligés de rejoindre les bidonvilles ou de traverser le désert et la Méditerranée pour arriver ici.
• C'est le militant qui s'exprime, mais en dehors d'une prise de conscience des consommateurs, que voyez-vous comme changement objectif ? La dernière crise du lait n'apporte-t-elle pas la preuve que rien ne change? Certes, elle est emblématique du marasme de notre agriculture et des désordres de la finance internationale. La modernisation de nos exploitations laitières avait abouti à une surproduction endémique. L'instauration de quotas sur le lait, en 1984, a permis de résorber la surproduction. Survient en 2007 une sécheresse en Australie, habituellement grande exportatrice de poudre de lait. La spéculation se déchaîne sur les marchés mondiaux, les prix explosent, mais dès que les spéculateurs voient une bonne collecte de lait se profiler, ils se retirent du marché et les prix s'effondrent. Les producteurs français perdent la moitié de leurs revenus. D'où la grève du lait de l'été dernier.
• Mouvement auquel s'opposait la FNSEA! Oui, certains leaders de la FNSEA pensent qu'il suffit d'éliminer nos agriculteurs de montagne qui font des fromages d'appellation d'origine protégée pour que survivent les plus performants, ceux qui vendent de la poudre de lait sur les marchés mondiaux et imaginent qu'ils vont continuer à rivaliser avec la Nouvelle-Zélande. Cette avant-garde « moderniste » a fait beaucoup de tort à la base syndicale qui s'est insurgée. L'avenir est au contraire aux produits de qualité, en priorité pour le marché intérieur, y compris les écoles primaires et les cantines d'entreprises : la Nouvelle-Zélande et l'Australie cesseront de nous accuser de dumping, les consommateurs français seront heureux de mieux manger et de moins polluer, un nombre croissant d'agriculteurs pourront se maintenir.
• Mais aujourd'hui, les multinationales Lactalis ou Danone font la loi! Eh bien, Lactalis et Danone feront un jour ce que viennent de faire les abattoirs Doux, qui ont délocalisé leurs poulets au Brésil, avec du soja local et une main-d'oeuvre pas chère : par souci de rentabilité, ils abandonneront les agriculteurs français. La grande distribution fait de même : quand elle constate que la demande en produits biologiques s'accroît, elle importe d'Italie et d'Allemagne, là où les surfaces en bio ont atteint une taille critique qui permet des prix raisonnables. Car nos agro-industries n'ont pas été capables de négocier avec les agriculteurs français des circuits d'approvisionnement en produits bio. Alors que nous étions les premiers il y a vingt ans ! Bravo Lactalis, bravo la grande distribution! Il faut résister!
• Qui résiste? Des agriculteurs, des petites coopératives! Un certain André Pochon, agriculteur breton, alors qu'on subventionnait le maïs ensilage pour produire du lait bas de gamme, a continué, sans subventions, à produire du lait sur des prairies ou poussait du trèfle blanc. Il a écrit des bouquins, l'Inra lui a apporté sa caution scientifique sur le tard. Entre-temps on avait incité les agriculteurs bretons à faire leurs élevages pollueurs. Oui, face aux forces économiques qui ont conduit les agriculteurs français dans l'impasse, ce monsieur a été un résistant!
• Aujourd'hui, le Grenelle de l'environnement est menacé... Il y avait pourtant un relatif consensus lors du premier Grenelle ! Même si les leaders de la FNSEA ont menacé par deux fois de claquer la porte - à propos des pesticides, puis des OGM -, ils étaient revenus à la négociation. Et ils ne trouvaient plus d'arguments pour s'opposer au virage que va devoir prendre l'agriculture française. Ils étaient bien obligés de constater que les organisations environnementalistes n'étaient pas composées que de chevelus et de bobos voulant en découdre avec les agriculteurs français. Malheureusement, on constate au niveau de la présidence - depuis « l'environnement ça commence à bien faire », de Nicolas Sarkozy au Salon de l'agriculture - un certain virage. Il va de soi que le pouvoir de Jean-Louis Borloo devient limité et que les fossoyeurs de l'écologie au ministère de l'Agriculture reprennent du poil de la bête.
• Pas optimiste alors? Ce n'est pas en France qu'est le gros problème. Aujourd'hui, je peux avoir accès à la direction de l'Inra, aux patrons de la FNSEA, au ministre de l'Agriculture Bruno Le Maire, à Jean-Louis Borloo, Chantal Jouanno, Nathalie Kosciusko-Morizet, et j'ai même rencontré en délégation Nicolas Sarkozy pour discuter de l'application de la partie agricole du Grenelle. Ceux auxquels je n'ai pas accès, ce sont Pascal Lamy à l'OMC et Dominique Strauss-Kahn au FMI. Et pourtant, il y aurait urgence ! Le sort de l'agriculture française se joue dans les négociations internationales, qui doivent absolument prendre en compte les rapports Nord-Sud, les questions environnementales, les mouvements migratoires. Avec Pascal Lamy et Dominique Strauss-Kahn, on a affaire à de brillants intellectuels, on a la chance qu'ils parlent français, mais il y a chez eux trop peu d'écoute à l'égard de ceux qui réfléchissent à l'agriculture de demain. Mais j'ai confiance dans le combat politique des résistants, des citoyens, des associations, des syndicats!
Renaud a rechuté
23 mars 2011
Il s’est confié dans le magazine « Prise directe » sur France 2.
Je suis mal partout, tout le temps, Renaud Séchan.
C'est dans le magazine « Prise directe » (à voir la semaine prochaine) animé par Béatrice Schönberg que Renaud Séchan s'est confié et ses confidences sont plutôt « alarmantes ».
Déprimé, il a avoué qu'il tait retombé dans l'enfer de l'alcoolisme ! Très touchant, il a avoué s'éloigner de Malone son fils âgé de 4 ans. Renaud : Je meurs à petit feu ! Je ne sais plus quoi faire pour vaincre mes craintes et mes angoisses. Il y a dix ans, je pensais que j'étais fini, coulé pour la chanson française. À l'époque, le chanteur passait ses journées à boire dans un troquet du quartier de Montparnasse. C'est sa future femme Romane Serda qui l'a aidée à s'en sortir. Par amour pour Romane, Renaud avait arrêté l'alcool, mais il vient de rechuter et sa compagne se dit « épuisée ». Romane Serda : Je me dis parfois que j'ai deux enfants à la maison. Je pense qu'il faut qu'il soit aidé par quelqu'un. Je ne sais plus quoi faire. Je lui en veux un petit peu de boire comme ça, de se détruire. Mal dans sa peau, l'artiste n'arrive même plus à écrire une seule chanson ! Je n'arrive plus à écrire, je n'ai plus aucune inspiration, plus d'idées de chansons. Je suis de nouveau dans la période dans laquelle j'étais il y a dix ans ! Je suis mal partout, tout le temps. Espérons que ce reportage fera office d'électrochoc car la chanson Française ne peut pas se passer d'un artiste d'une telle humanité...
www.landportal.info: the gateway to land information
Information on access to land and its close relationship with poverty, food security and rural development is crucial for improving national land policies in countries around the world. Since land information is dispersed and difficult to locate, the Land Portal will help to aggregate it and make it available to a wide range of users.
The Land Portal is an initiative that originated almost 18 years ago in FAO and currently involves a partnership of more than 40 land-concerned organizations. The
Land Portal enables users to quickly and easily search multiple databases at the same time; find reliable and updated information by country and theme; customize user and organizational profiles and alerts; and share knowledge by uploading and validating content in a range of formats. It also helps people to connect and collaborate with a vibrant user community around the world, enabling them to join thematic working groups and build collective actions.
Since access to and control over land is under threat for millions of people around the world, being able to access key information as well as different visions and analyses of land tenure issues is of crucial importance at this moment.
The Land Portal is sponsored by the European Commission, International Fund for Agricultural Development (IFAD), Omidyar Network (ON) and Norwegian Agency for Development Cooperation (NORAD). Please visit the Land Portal at www.landportal.info and watch the promotional video at http://www.vimeo.com/21724375.
giovedì 14 aprile 2011
L 19: Con un piede impigliato nella storia - Anna Negri
Feltrinelli Editore
Il mio libro dell'anno. Non ho altre parole. Per capire cosa sia stato quel periodo storico bisogna leggerlo, soprattutto per chi era giovane ed ha avuto padri, madri, fratelli o sorelle maggiori dentro quelle storie e raccontarle con altri occhi ed altre parole. Ci sarebbe molto da dire e da raccontare su questa sinistra che sognava di rifare il mondo, ripetendo poi dentro casa gli stessi schemi maschiisti da cui provenivano; la loro ridottissima capacitá di farsi capire e di voler capire gli altri: toccava sempre agli altri fare lo sforzo, per loro era naturale. Negri andava a fare i comizi agli operai di Marghera ma doveva portarsi dietro Guido, che gli faceva da traduttore perché altrimenti non capivano na mazza.
Sono riusciti a provocare una risposta dallo Stato, violenta e repressiva, in un momento quando poi il mondo é cambiato e li ha messi tutti fuori gioco, lasciando irrisolti i problemi individuali, come la storia di Anna e del fratello testimoniano.
Bello, bello, bello!!!!
Frase del giorno
“Une civilisation qui s'avère incapable de résoudre les problèmes que suscite son fonctionnement est une civilisation décadente.”
Aimé Césaire
Aimé Césaire
martedì 12 aprile 2011
Costa d’Avorio: una scommessa sulla pace?
Avendo preso l’ex presidente Gbagbo, le domande adesso sono tutte sulla questione della stabilizzazione del paese: pace e ricostruzione. Alcuni ritengono che il ruolo svolto dalla Francia di fatto pregiudicherá le chances del Presidente Ouattara (che rischierebbe di esser visto come il pupazzo delle potente coloniali), altri pronosticano un rischio di possibili massacri nella zona occidentale del paese (dove Gbagbo ha un buon sostegno locale), mentre alcuni ritengono che le capacitá professionali di Ouattara (economista) e la sua precedente esperienza politica lo rendano capacissimo di fare per lo meno la parte relativa alla ricostruzione (economica e finanziaria). Piú critica la parte sulla pace, tema sul quale molte nubi si addensano anche in funzione della prossima competizione che molti pronosticano fra il Presidente e il suo Primo Ministro, giovane ed ambizioso. Molti scenari diversi, molte incognite, alle quali vorrei anch’io aggiungere la mia.
Parto sempre dalla questione risorse naturali, terra in particolare. Ricordiamoci che l’argomento usato da Gbagbo per far fuori politicamente Ouattara era stato quello della “presunta” nazionalitá (ivoriana o burkinabé). Un concetto inventato di sana pianta per mantenersi al potere, che peró ha avuto delle ripercussioni catastrofiche in campagna dove l’essenziale della produzione di caffè e cacao era svolta da mani burkinabé, molti dei quali installati da molti anni (decenni) nelle piantagioni del sud. L’iniziativa del Piano Fondiario, con l’idea di immatricolare le parcelle di terra a nome dei primi aventi diritto ha dato un’altra spinta allo scontro: gli “ivoriani” sono corsi a chiedere l’immatricolazione a loro nome, inquanto “proprietari”, cacciando via chi stava lavorando quelle terre per evitare che potessero richiedere un riconoscimento dei loro diritti. L’incendio ha preso velocemente e continua a covare sotto le ceneri (mai spente) soprattutto nelle zone sud-occidentali e occidentali.
Ouattara, per sua formazione professionale ed intellettuale difficilmente potrá capire queste complessitá, a parte la necessitá di rimettere assieme i cocci di nazionalitá (etnie) diverse che hanno pochissima fiducia una dell’altra. Dietro di lui si ritroveranno i poteri economici forti, Banca mondiale e FMI la cui ideologia per quanto riguarda le risorse naturali è ben conosciuta: lasciare il libero mercato fare il suo gioco ed incentivare grossi impresari ad investire nell’economia di piantagione. Questo è esattamente il contrario di quello di cui ci sarebbe bisogno: cercare di ricreare un “patto” territoriale sulla base di una politica agraria che appoggi l’agricoltura di piccola scala e non continuare delle scelte in funzione degli interessi degli impresari, grossi commercianti di caffè e cacao (nazionali ed internazionali). Pensare che Ouattara capisca questa complessitá, in un terreno, le zone rurali, che non conosce, e spalleggiato da finanziatori che quello che vedono sono le terre e non la gente, è probabilmente una pura illusione. Che poi sia la Francia a dirgli queste veritá, io non ci conterei molto dato che i problemi sorti col Piano Fondiario vengono da una assistenza tecnica francese. Malgrado i decenni di ricerche locali fatte dall’Orstom ed altri centri, il pregiudizio contro gli agricoltori famigliari, ed in favore dell’economia di piantagione (controllata dalle grosse imprese di caffè e cacao) continua. Lo scenario che abbiamo quindi davanti, e sul quale spero ovviamente di esser smentito, è quello di una ripresa, lenta ma costante, dei problemi legati alle terre, partendo da quelle zone, sud-occidentale ed occidentale, dove una base politica di sostegno a Gbagbo esiste. Conflitti di natura economica e di scelte di politiche in favore o contro i contadini saranno visti sotto l’angolo del conflitto Gbagbo-Ouattara, sbagliando e di molto la loro lettura.
Delle iniziative per cercare di ricreare un dialogo sociale fra i vari gruppi di contadini locali in quelle zone erano in fase di elabroazione l’anno scorso e poi sono state interrotte bruscamente. Vedremo presto s eil governo riuscirá a dare una svolta, con segnali chiari per ridurre questa conflittualitá, se riuscirá a tenere a bada la Banca e il FMI e per ultimo se le nazioni unite riusciranno ad avere una visione sistemica e storica di questi problemi ed il coraggio di prendere in mano una zona che potrebbe diventare una bomba per l’intera regione centroafricana. Io resto pessimista, ma forse questo è anche il mio limite. Appuntamento a p[rima di Natale per vedere come saranno cmabiate le cose.
Parto sempre dalla questione risorse naturali, terra in particolare. Ricordiamoci che l’argomento usato da Gbagbo per far fuori politicamente Ouattara era stato quello della “presunta” nazionalitá (ivoriana o burkinabé). Un concetto inventato di sana pianta per mantenersi al potere, che peró ha avuto delle ripercussioni catastrofiche in campagna dove l’essenziale della produzione di caffè e cacao era svolta da mani burkinabé, molti dei quali installati da molti anni (decenni) nelle piantagioni del sud. L’iniziativa del Piano Fondiario, con l’idea di immatricolare le parcelle di terra a nome dei primi aventi diritto ha dato un’altra spinta allo scontro: gli “ivoriani” sono corsi a chiedere l’immatricolazione a loro nome, inquanto “proprietari”, cacciando via chi stava lavorando quelle terre per evitare che potessero richiedere un riconoscimento dei loro diritti. L’incendio ha preso velocemente e continua a covare sotto le ceneri (mai spente) soprattutto nelle zone sud-occidentali e occidentali.
Ouattara, per sua formazione professionale ed intellettuale difficilmente potrá capire queste complessitá, a parte la necessitá di rimettere assieme i cocci di nazionalitá (etnie) diverse che hanno pochissima fiducia una dell’altra. Dietro di lui si ritroveranno i poteri economici forti, Banca mondiale e FMI la cui ideologia per quanto riguarda le risorse naturali è ben conosciuta: lasciare il libero mercato fare il suo gioco ed incentivare grossi impresari ad investire nell’economia di piantagione. Questo è esattamente il contrario di quello di cui ci sarebbe bisogno: cercare di ricreare un “patto” territoriale sulla base di una politica agraria che appoggi l’agricoltura di piccola scala e non continuare delle scelte in funzione degli interessi degli impresari, grossi commercianti di caffè e cacao (nazionali ed internazionali). Pensare che Ouattara capisca questa complessitá, in un terreno, le zone rurali, che non conosce, e spalleggiato da finanziatori che quello che vedono sono le terre e non la gente, è probabilmente una pura illusione. Che poi sia la Francia a dirgli queste veritá, io non ci conterei molto dato che i problemi sorti col Piano Fondiario vengono da una assistenza tecnica francese. Malgrado i decenni di ricerche locali fatte dall’Orstom ed altri centri, il pregiudizio contro gli agricoltori famigliari, ed in favore dell’economia di piantagione (controllata dalle grosse imprese di caffè e cacao) continua. Lo scenario che abbiamo quindi davanti, e sul quale spero ovviamente di esser smentito, è quello di una ripresa, lenta ma costante, dei problemi legati alle terre, partendo da quelle zone, sud-occidentale ed occidentale, dove una base politica di sostegno a Gbagbo esiste. Conflitti di natura economica e di scelte di politiche in favore o contro i contadini saranno visti sotto l’angolo del conflitto Gbagbo-Ouattara, sbagliando e di molto la loro lettura.
Delle iniziative per cercare di ricreare un dialogo sociale fra i vari gruppi di contadini locali in quelle zone erano in fase di elabroazione l’anno scorso e poi sono state interrotte bruscamente. Vedremo presto s eil governo riuscirá a dare una svolta, con segnali chiari per ridurre questa conflittualitá, se riuscirá a tenere a bada la Banca e il FMI e per ultimo se le nazioni unite riusciranno ad avere una visione sistemica e storica di questi problemi ed il coraggio di prendere in mano una zona che potrebbe diventare una bomba per l’intera regione centroafricana. Io resto pessimista, ma forse questo è anche il mio limite. Appuntamento a p[rima di Natale per vedere come saranno cmabiate le cose.
lunedì 11 aprile 2011
Maiale al miele
sabato sera abbiamo dato l'addio ad un pezzo di Principessa, una delle due maialine che Angus ha fatto allevare a Trevignano. Il risultato é stato molto intressante, soprattutto perché non conoscevo questa ricetta di braciole spennellate col miele oppure con marmellata di more molto liquida.
Il cuoco (Angus) é nella foto. Servito con un vecchio Bordeaux, ha permesso di passare una serata piacevole, con tramonto sul lago. Ma che razza di nebbia é venuta su dopo, "roba da tajarla col corteo" come diremmo noi veneti.
domenica 10 aprile 2011
L 18: Sarti Antonio: caccia tragica - Loriano Macchiavelli
Einaudi (collana Einaudi. Stile libero. Noir)
La storia vede Sarti coinvolto in un caso di speculazione edilizia e un omicidio: quello della donna che doveva proteggere e che invece hanno ammazzato mentre lui era in agguato in botti immerse nell’acqua delle Valli di Comacchio. Sarti si metterà quindi in caccia dell’assassino, dovendo fare intanto i conti con una bella ragazza, che è intenzionata a vederci chiaro e lo stimola con ogni mezzo, lecito e non, puerché l’aiuti a capire…
Il libro, in realtà, non è propriamente “nuovo”: era già stato pubblicato nel 1981 nel Giallo Mondadori, ma che Einaudi abbia deciso di ristamparlo è una notizia che sicuramente farà felici i fan di Macchiavelli, e in generale tutti gli amanti del genere.
Grande Loriano!!! Uno dei primi Sarti Antonio, 1981, eravamo giovani, andavamo anche noi nelle Valli, con Roberto, e la sua R6. Bel libro, candidato alla top ten!
venerdì 8 aprile 2011
L 17: Ndranghetown - Paola Bottero
176 pagine, 9,50 euro, distribuito da PDE per Agenzia X, nuova collana INCHIOSTRO ROSSO
Questa volta i commenti vanno in presa diretta con l'autrice, che li leggerá sicuramente oggi o domani.
"Ma è davvero una storia? O è nulla più che la proiezione del futuro prossimo, il peggiore dei futuri possibili, ma anche il più probabile? Scrivere questo noir mi è servito ad avere più chiari e delineati i miei fantasmi" (citazione di PB).
La speranza ha due figli bellissimi: lo sdegno per le cose come sono e il coraggio per cambiarle (S. Agostino). Paola si presenta cosí nel suo blog. Io, che per anni ho vissuto in via S. Agostino (a Vicenza), ho trovato un’atra frase che riassume questi stessi concetti: Esiste la bellezza e l’inferno degli oppressi; per quanto possibile vorrei rimanere fedele a entrambi (A. Camus).
Cara Paola, come ti dicevo l’altra sera, lo avremmo divorato questo libro. Christiane è arrivata a metá ed io l’ho giá finito. Metto i miei commenti, in attesa dei suoi.
Dirti che sia bello non serve molto. Lo é. Credo anch’io, come hanno detto alla presentazione a Cosenza che la ndrangheta, le mafie, si combattono anche parlandone, uscendo dal muro di omertá, infrangendo quella prima regola obbligatoria per chi vuol accettare di stare dalla loro parte.
L’angolo proposto è sicuramente spiazzante ed ovviamente suscita molta curiositá. Forse sulle due pagine finali, dopo la trasformazione di Silvio in mare si potrebbe dire che non sono proprio chiarissime, ma è un altro il punto che volevo sollevare. Non sono uno specialista di questi temi e rifletto a partire da letture di giornali e discussioni con amici, ma mi era parso di capire che il confine definitivo tra il mondo delle mafie e quello dello Stato è che uno (loro) sono delle sanguisughe del secondo. Cioè non sia immaginabile una mafia, una ndrangheta che si fá Stato, SuperStato che comanda tutto. L’essenza stessa del loro fare affari è sulle spalle di qualcuno, per cui l’idea stessa di Stato non mi sembra combinabile con la loro. Uno Stato puó diventare dominato d auna cricca malavitosa, ma questa cricca avrá pur sempre bisogno di appoggiarsi ad una struttura, a delle istituzioni da cui succhiare il sangue.
Quello che dipingi nel libro è un futuro che assomiglia all’evoluzione del mondo berlusconiano attuale, svuotarci di idee e valori e riempirci di balocchi per lasciarci meglio comandare. Ma come sappiamo bene dai vari processi intentatigli e dalle varie inchieste fatte, il mondo di Silvio B. è fatto sulle spalle nostre, rubando alle istituzioni quello che sia possibile rubare ma lasciandole in piedi nel loro ruolo. Quando prova a sostituirsi e “fare” Stato, si vede subito che non funziona, perché il suo codice genetico funziona solo prendendo dagli altri. Il tuo libro ci dipinge una Onorata societá che, cosa paradossale, avrebbe risolto addirittura il problema della fame ma, cosa piú discutibile nella struttura del romanzo, il fatto di esser arrivata a costruire la societá ideale, horwellaina, dove Loro psosono controllare tutto, vita e morte, gusti e bisogni, togliendo di fatto l’antagonismo sociale, appiattendo il tutto alla fine che lo stesso piccolo Silvio comincia a chiedersi che senso abbia tutto questo: diventare il caso supremo se poi nesusno ti invidia o vuol prender eil tuo psoto, se tutto è cosí paitto, a cosa serve? C’è, intrinsecamente, il riconoscimento che le due dis-onorate societá (di qua e di lá dello stretto) non possono diventare UNA, e non psosono mettersi d’accordo per governare il mondo e tutto il resto, proprio perché loro esistono nell’antagonismo reciproco e nello scroccare allo Stato le risorse che li fanno arricchire. Senza Stato, e facendosi loro Stato, diventano necessariamente arbitri di situazioni sociali che le societá moderne tutte affrontano (male o bene) attraverso i vari meccanismi istituzionali piú o meno democratici. Che le mafie diventino Stato gli fa perdere l’essenza di esser mafia, le va scendere di un gradino, non salire. Farsi Stato vuol dire doversi farsi carico dei bisogni di ttuti, che sono diversi e in contratso, per cui l’unica possibile via d’uscita è di poter controllare il tutto, eliminando le differenze, i valori e gusti e tutto il resto. Ma allora arrivi, per forza, al paradosso di Silvio piccolo che vuol sí diventare il primo capo supremo ma che, al momento di arrivarci, capisce che la vera domanda, irrisolta, è: perché? Di fatto l’incoronarlo capo supremo, senza piú nessuna competizione, con un controllo totale su tutto, economia, societá, bisogni e tutto il resto (includendo, ripeto, la fame del mondo) difatto ti avvicina all’idea di Fukuyama e la sua Fine della Storia.
Come vedi mi ha fatto scrivere molto… magari un giorno poi ne parliamo dal vivo. Un abbraccio forte, Paolo
PS. Sará nella mia top ten quest’anno.
giovedì 7 aprile 2011
The Local Food Revolution
Thursday, March 24, 2011
The Local Food Revolution
By Michael Brownlee
A local food revolution is quietly unfolding in our midst right here in Boulder County. It’s a revolution aimed at rebuilding this region’s capacity to feed its own people, to ensure food security and food sovereignty for all.
Anyone living in the area could scarcely have escaped noticing some of the obvious first signs of this revolution: Farmers’ markets are popping up around the county, along with roadside farmstands. More restaurants are sourcing their ingredients from local farmers and ranchers. Municipalities have been compelled to change laws to accommodate the rapidly rising citizen demand to raise chickens, goats and bees in residential backyards.
Backyard and frontyard gardens seem to be proliferating everywhere, and local fresh produce is now even being offered in many Boulder County school lunchrooms. Dozens of family farms are now offering CSAs (community supported agriculture), essentially prepaid subscriptions to a share in a season’s bounty. And plastic-covered “hoop houses” are springing up on farms and in yards as gardeners struggle to meet the challenge of extending the Front Range’s famously short growing season.
But some of the signs of this revolution are far less visible. For instance, hundreds of people have been signing up for “reskilling” classes on forest gardening, food canning and preservation, composting, vermiculture (worm ranching), seed-saving, food fermentation, greenhouse construction, aquaponics (combining aquaculture with hydroponic plant production), along with rainwater harvesting. Even more have been taking instruction in seasonal eating and cooking, as well as basic nutrition.
In addition, over the past four years more than 300 people in the area have graduated from an intense 72-hour permaculture design certification course, and about 50 have gone on to become certified permaculture instructors.
Nonprofit organizations — including Everybody Eats!, Growing Gardens, Cultiva!, and Transition Louisville — have been working to stimulate demand for local food, as well as increasing local food production capacity. In 2007, Transition Colorado launched an ongoing countywide EAT LOCAL! Campaign, which now includes a 10 percent Local Food Shift Challenge and Pledge. The organization also publishes Boulder County’s EAT LOCAL! Resource Guide & Directory, and has hosted numerous films and high-profile speakers, conferences and an EAT LOCAL! Week.
County government is also involved. In 2008, the Boulder County Commissioners formed a Food & Agriculture Policy Council, with a mandate to convert 10 percent of the 17,000 acres of county-owned open space agricultural land to food production for local consumption by 2012.
Why local food?
Why the growing interest in local food? The answers lie in understanding our “food predicament,” particularly our dependence on a fragile and increasingly unwieldy global food system.
For perspective, it’s useful to know that the latest USDA data shows that Boulder County residents spent $947 million on food in 2010 (up from $662 million in 2007). But how much of this goes to Boulder County producers?
Not much. While definitive numbers are still unavailable, it’s safe to say that no more than 1 to 2 percent of the food we consume in Boulder County is produced within the county. For an agricultural county with more than 137,000 acres of productive ag land, that’s surprising. This situation is roughly in line with the state as a whole — Colorado residents spend $12 billion annually on food, 97 percent of which is imported from outside the state.
As in most places, since World War II agriculture has become primarily focused on producing exports. Conventional farmers have been told that their mission is “to feed the world.” Thus, 95 percent of all agricultural production in the county is exported.
At the heart of the local food revolution is the realization that our ability to meet our basic food needs locally has been thoroughly undermined by big agribusiness, including the “value-added” food processors whose products have added considerable heft to our waistlines and contributed directly to a national health crisis of obesity, Type II diabetes and a host of food-related diseases. The real cost of this arrangement has been very high.
Local food advocates are also acutely aware that the globalized food system is highly dependent on fossil fuels for inputs (synthetic fertilizers and pesticides), processing, storage, cooling and transportation. They see increasing signs that dependence on foreign oil — inevitably increasing in price as global oil production peaks — puts big agribusiness and “conventional” agriculture in a no-win situation, and that the misnamed “Green Revolution” (it was a coup!) is exhibiting signs of failure in the face of already devastating impacts of climate change.
They also claim that widespread application of synthetic chemicals is jeopardizing long-term soil fertility.
“The soil is a living thing, and we are murdering it,” says Carlo Petrini, founder of the Slow Food movement. “Industrial agriculture has embraced the idea of farming without farmers, but at this rate one day we’ll be forced to farm without land.”
To complicate matters, as author Anna Lappé concludes in Diet for a Hot Planet: The Climate Crisis at the End of Your Fork and What You Can Do About It, the way we currently grow, process, ship, market and cook our food may be contributing more than 30 percent of all greenhouse gas emissions.
All these factors have combined to make food one of the most unsustainable spheres of human activity.
Feed the world, or feed our own?
Meanwhile, the world population is apparently on the way to 9 billion people by mid-century, necessitating at least a doubling of current food production — at a time when a global food crisis looms on the horizon.
While big agribusiness insists that the only way to continue to feed the world is to greatly increase the efficiency of industrialized agriculture (and towards that end to genetically engineer virtually all crops), a growing number of people are seeing this technological approach as not only unsustainable but a clear threat to human freedom and sovereignty.
With the likely total deregulation of genetically modified organisms and the absence of appropriate food labeling, consumers and growers alike feel that their ability to exercise choice has been taken away. Meanwhile, even “natural” grocers like Vitamin Cottage admit that the majority of the products on their shelves probably contain GMOs. While GMO labeling is mandated in most EU nations, industry has mobilized to successfully prevent such practices in the United States.
A U.N. report released in early March claims that support of small-scale farming using “agro-ecological” methods — i.e., mostly local and organic — could easily double food production in 10 years in critical regions. This study confirms what local food advocates have known for years, that we must begin making the shift to growing most of our own food locally, with bio-intensive methods that restore soil, rekindle connection with the land and rebuild community.
Recent studies indicate that the benefits of food localization can be far-reaching. Returning to a fresh, seasonal, mostly organic local diet will significantly improve the health of our communities, especially our children, and dramatically reduce health care costs. Shrinking our foodshed will not only reduce food-miles, but bio-intensive cultivation methods will also sequester carbon in the soil, making food localization one of the most effective approaches to reducing greenhouse gas emissions.
Surprisingly, rebuilding our local food system might also be the most important thing we can do to strengthen our local economies — to create new jobs and stem the leakage of dollars. Economist and food system researcher Michael Shuman recently completed a study for the greater Cleveland area that shows that moving to 25 percent food localization in that area by 2020 could produce 27,000 new jobs, generate $4.2 billion of economic activity each year, and produce $126 million in new local and state tax revenues.
Shuman, who is director of research and economic development for BALLE (Business Alliance for Local Living Economies), is now conducting a similar study to quantify the potential economic upside for food localization in the Boulder County area.
Commissioned by Transition Colorado, the study will identify gaps, challenges and opportunities, and will map the business initiatives, public policy shifts, and nonprofit programs to make 25 percent food localization achievable by 2020.
Financing the revolution
One of the impacts of the globalization of food has been the gradual erosion of the network of enterprises that once supported a robust local food and farming economy. According to retired Boulder attorney and former Food & Agriculture Policy Council member-at-large Jim England, at the turn of the 20th century Boulder County had six flour mills (three of them in or near the Boulder city limits), canning factories and other processing plants, commercially successful berry and small fruit operations, and thousands of fruit trees (Boulder’s Grove Street is named after the commercial apple and other fruit groves that grew there). There were butchers on Pearl Street, malt houses, a cheese factory in Hygiene and a number of working dairies. “A hundred years ago this was something of a locavore’s paradise,” says England. “And if it once was thus, my hope is it can again be that.”
But crucial to achieving any significant level of food localization will be the rebuilding of Boulder County’s local food infrastructure — production, processing, distribution and storage — which will require an infusion of financial investments to underwrite the entrepreneurs and farmers who wish to be part of the local food revolution.
In an era of shrinking budgets, where will that money come from? Woody Tasch, a frequent visitor to Boulder County, has an answer: “Slow Money,” which Entrepreneur Magazine dubbed “one of the top five trends in finance for 2011.”
Weaving economic savvy with a poet’s penchant for language, Tasch explains that Slow Money represents “the creation of new forms of intermediation that catalyze the transition from a commerce of extraction and consumption to a commerce of preservation and restoration.” It’s a reversal of dependence on Wall Street markets and traditional investment vehicles, which parallels the shift from big agribusiness to local food economies.
Tasch says that the recent economic crisis is exactly what one can expect when the relationships between money, community and the land are broken. The most appropriate way to begin building a restorative economy, he says, is to invest locally in sustainable, small-scale food enterprises. The Slow Money approach (www.SlowMoney.org) aims to bring together key stakeholders, investors and entrepreneurs, along with leaders in local food and progressive finance.
Slow Money is just now beginning to take hold in Boulder County, with an commitment of $1.5 million from an anonymous donor to seed what promises to become a critical source of capital for local food and farming enterprises. That fund is currently under the stewardship of Transition Colorado, but will soon be established as an independent Slow Money entity.
Catalyzing a local network
Rebuilding production capacity and increasing consumer demand simultaneously is something of a chicken-and-egg challenge. Some farmers remain skeptical that the demand for locally produced food will continue to follow a supposed hockey-stick trajectory. They wonder: “If we are able to dramatically ramp up production, where will the infrastructure come from that can get our products processed and onto the tables of consumers?” One bright spot may be the recent emergence of a “foodshed alliance” known as the Boulder County Local Food Network, conceived as a cooperative membership organization joining farmers, food and agricultural leaders, local businesses, local governments and community residents in a united effort to stimulate and support the local food economy and to foster increasing localization of the regional food system. The group’s informal motto is “thinking like a foodshed.”
Organized as a member of the national Business Alliance for Local Living Economies, the Local Food Network was first announced on Feb. 27 at the “Our Local Economy in Transition” conference, and the group is now recruiting charter members. Founding members include Everybody Eats!, Ollin Farms, Center for ReSource Conservation and Transition Colorado.
The group hopes to grow to 200 members over the next two years, including farmers, ranchers, restaurants, retailers, food processors, distributors, food-related businesses, nonprofit and community organizations, county and municipal governments, as well as other local businesses that support the goals and values of the network.
Making the transition to local food and farming
In 2006, a food working group calculated that the then-current state of agriculture in Boulder County could only feed about 20,000 — less than 7 percent of the total population of 300,000. They then looked at the upside, estimating that with greatly expanded individual and community garden plots, greatly increased farming for food using bio-intensive methods, with reduced calorie intake and a simplified diet, this maybe could be increased to about 185,000 people — a daunting realization, but a useful benchmark of our vulnerability here. The group also learned that there were already about 34,000 food-insecure people — those without secure, reliable access to food — in Boulder County, and those numbers have been increasing dramatically with the recent economic turmoil.
Boulder County is proud of its farmers’ markets, and more of them are coming up every year. Boulder’s own market is widely regarded as one of the top 10 in the country, and an estimated 14,000 people show up at the Boulder market on a Saturday. Yet, an entire season’s sales at the Boulder County Farmers’ Markets — Boulder and Longmont together — would meet Boulder County’s food needs for less than a day and a half.
Given all this, it’s clear that one of the most important things we can all do together is to completely rebuild our local foodshed — from multiplying backyard and frontyard gardens, to raising chickens and keeping bees, to committing to only buying food that is local and organic, to converting our local agricultural lands to growing food for local consumption, to rebuilding local food storage and distribution systems, to demanding that our supermarkets stop importing food we could produce here ourselves, to training young people to learn farming as a wise and essential — and even sustainable — career choice.
Of course, the transition to a re-localized, non-fossil-fuel food and farming system will take some time — because nearly every aspect of the process by which we feed ourselves must be redesigned and rebuilt. But if we do this right, we have an opportunity to build a localized food and farming system that is economically robust, environmentally sustainable, resilient and self-reliant, one that ensures food security and sovereignty for all, one that contributes to the health and happiness of our citizens, and that revitalizes our communities.
If we do this right, not only can we reverse the destruction that industrial agriculture causes, but we can replace it with something far better, a way of growing and preparing food that heals our connection with the land and with each other. In the process, we may also find that we’re restoring the kind of democracy envisioned by Thomas Jefferson for his fledgling nation.
Brownlee is co-founder of Boulder-based Transition Colorado (www.TransitionColorado.org), the first officially recognized Transition Initiative in North America, now focused on rebuilding the local food system. He is publisher of Boulder County’s EAT LOCAL! Resource Guide and Directory (www. EatLocalGuide.com), co-founder of the Boulder County Local Food Network, and former member of the Boulder County Food & Agriculture Policy Council.
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WHO WE ARE: Foodforethought is an information service that encourages dialogue and exploration of innovative trends in the global food system. The service is managed by James Kuhns of MetroAg Alliance for Urban Agriculture in collaboration the Toronto Food Policy Council. To subscribe, please contact editor@foodforethought.net.
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The Local Food Revolution
By Michael Brownlee
A local food revolution is quietly unfolding in our midst right here in Boulder County. It’s a revolution aimed at rebuilding this region’s capacity to feed its own people, to ensure food security and food sovereignty for all.
Anyone living in the area could scarcely have escaped noticing some of the obvious first signs of this revolution: Farmers’ markets are popping up around the county, along with roadside farmstands. More restaurants are sourcing their ingredients from local farmers and ranchers. Municipalities have been compelled to change laws to accommodate the rapidly rising citizen demand to raise chickens, goats and bees in residential backyards.
Backyard and frontyard gardens seem to be proliferating everywhere, and local fresh produce is now even being offered in many Boulder County school lunchrooms. Dozens of family farms are now offering CSAs (community supported agriculture), essentially prepaid subscriptions to a share in a season’s bounty. And plastic-covered “hoop houses” are springing up on farms and in yards as gardeners struggle to meet the challenge of extending the Front Range’s famously short growing season.
But some of the signs of this revolution are far less visible. For instance, hundreds of people have been signing up for “reskilling” classes on forest gardening, food canning and preservation, composting, vermiculture (worm ranching), seed-saving, food fermentation, greenhouse construction, aquaponics (combining aquaculture with hydroponic plant production), along with rainwater harvesting. Even more have been taking instruction in seasonal eating and cooking, as well as basic nutrition.
In addition, over the past four years more than 300 people in the area have graduated from an intense 72-hour permaculture design certification course, and about 50 have gone on to become certified permaculture instructors.
Nonprofit organizations — including Everybody Eats!, Growing Gardens, Cultiva!, and Transition Louisville — have been working to stimulate demand for local food, as well as increasing local food production capacity. In 2007, Transition Colorado launched an ongoing countywide EAT LOCAL! Campaign, which now includes a 10 percent Local Food Shift Challenge and Pledge. The organization also publishes Boulder County’s EAT LOCAL! Resource Guide & Directory, and has hosted numerous films and high-profile speakers, conferences and an EAT LOCAL! Week.
County government is also involved. In 2008, the Boulder County Commissioners formed a Food & Agriculture Policy Council, with a mandate to convert 10 percent of the 17,000 acres of county-owned open space agricultural land to food production for local consumption by 2012.
Why local food?
Why the growing interest in local food? The answers lie in understanding our “food predicament,” particularly our dependence on a fragile and increasingly unwieldy global food system.
For perspective, it’s useful to know that the latest USDA data shows that Boulder County residents spent $947 million on food in 2010 (up from $662 million in 2007). But how much of this goes to Boulder County producers?
Not much. While definitive numbers are still unavailable, it’s safe to say that no more than 1 to 2 percent of the food we consume in Boulder County is produced within the county. For an agricultural county with more than 137,000 acres of productive ag land, that’s surprising. This situation is roughly in line with the state as a whole — Colorado residents spend $12 billion annually on food, 97 percent of which is imported from outside the state.
As in most places, since World War II agriculture has become primarily focused on producing exports. Conventional farmers have been told that their mission is “to feed the world.” Thus, 95 percent of all agricultural production in the county is exported.
At the heart of the local food revolution is the realization that our ability to meet our basic food needs locally has been thoroughly undermined by big agribusiness, including the “value-added” food processors whose products have added considerable heft to our waistlines and contributed directly to a national health crisis of obesity, Type II diabetes and a host of food-related diseases. The real cost of this arrangement has been very high.
Local food advocates are also acutely aware that the globalized food system is highly dependent on fossil fuels for inputs (synthetic fertilizers and pesticides), processing, storage, cooling and transportation. They see increasing signs that dependence on foreign oil — inevitably increasing in price as global oil production peaks — puts big agribusiness and “conventional” agriculture in a no-win situation, and that the misnamed “Green Revolution” (it was a coup!) is exhibiting signs of failure in the face of already devastating impacts of climate change.
They also claim that widespread application of synthetic chemicals is jeopardizing long-term soil fertility.
“The soil is a living thing, and we are murdering it,” says Carlo Petrini, founder of the Slow Food movement. “Industrial agriculture has embraced the idea of farming without farmers, but at this rate one day we’ll be forced to farm without land.”
To complicate matters, as author Anna Lappé concludes in Diet for a Hot Planet: The Climate Crisis at the End of Your Fork and What You Can Do About It, the way we currently grow, process, ship, market and cook our food may be contributing more than 30 percent of all greenhouse gas emissions.
All these factors have combined to make food one of the most unsustainable spheres of human activity.
Feed the world, or feed our own?
Meanwhile, the world population is apparently on the way to 9 billion people by mid-century, necessitating at least a doubling of current food production — at a time when a global food crisis looms on the horizon.
While big agribusiness insists that the only way to continue to feed the world is to greatly increase the efficiency of industrialized agriculture (and towards that end to genetically engineer virtually all crops), a growing number of people are seeing this technological approach as not only unsustainable but a clear threat to human freedom and sovereignty.
With the likely total deregulation of genetically modified organisms and the absence of appropriate food labeling, consumers and growers alike feel that their ability to exercise choice has been taken away. Meanwhile, even “natural” grocers like Vitamin Cottage admit that the majority of the products on their shelves probably contain GMOs. While GMO labeling is mandated in most EU nations, industry has mobilized to successfully prevent such practices in the United States.
A U.N. report released in early March claims that support of small-scale farming using “agro-ecological” methods — i.e., mostly local and organic — could easily double food production in 10 years in critical regions. This study confirms what local food advocates have known for years, that we must begin making the shift to growing most of our own food locally, with bio-intensive methods that restore soil, rekindle connection with the land and rebuild community.
Recent studies indicate that the benefits of food localization can be far-reaching. Returning to a fresh, seasonal, mostly organic local diet will significantly improve the health of our communities, especially our children, and dramatically reduce health care costs. Shrinking our foodshed will not only reduce food-miles, but bio-intensive cultivation methods will also sequester carbon in the soil, making food localization one of the most effective approaches to reducing greenhouse gas emissions.
Surprisingly, rebuilding our local food system might also be the most important thing we can do to strengthen our local economies — to create new jobs and stem the leakage of dollars. Economist and food system researcher Michael Shuman recently completed a study for the greater Cleveland area that shows that moving to 25 percent food localization in that area by 2020 could produce 27,000 new jobs, generate $4.2 billion of economic activity each year, and produce $126 million in new local and state tax revenues.
Shuman, who is director of research and economic development for BALLE (Business Alliance for Local Living Economies), is now conducting a similar study to quantify the potential economic upside for food localization in the Boulder County area.
Commissioned by Transition Colorado, the study will identify gaps, challenges and opportunities, and will map the business initiatives, public policy shifts, and nonprofit programs to make 25 percent food localization achievable by 2020.
Financing the revolution
One of the impacts of the globalization of food has been the gradual erosion of the network of enterprises that once supported a robust local food and farming economy. According to retired Boulder attorney and former Food & Agriculture Policy Council member-at-large Jim England, at the turn of the 20th century Boulder County had six flour mills (three of them in or near the Boulder city limits), canning factories and other processing plants, commercially successful berry and small fruit operations, and thousands of fruit trees (Boulder’s Grove Street is named after the commercial apple and other fruit groves that grew there). There were butchers on Pearl Street, malt houses, a cheese factory in Hygiene and a number of working dairies. “A hundred years ago this was something of a locavore’s paradise,” says England. “And if it once was thus, my hope is it can again be that.”
But crucial to achieving any significant level of food localization will be the rebuilding of Boulder County’s local food infrastructure — production, processing, distribution and storage — which will require an infusion of financial investments to underwrite the entrepreneurs and farmers who wish to be part of the local food revolution.
In an era of shrinking budgets, where will that money come from? Woody Tasch, a frequent visitor to Boulder County, has an answer: “Slow Money,” which Entrepreneur Magazine dubbed “one of the top five trends in finance for 2011.”
Weaving economic savvy with a poet’s penchant for language, Tasch explains that Slow Money represents “the creation of new forms of intermediation that catalyze the transition from a commerce of extraction and consumption to a commerce of preservation and restoration.” It’s a reversal of dependence on Wall Street markets and traditional investment vehicles, which parallels the shift from big agribusiness to local food economies.
Tasch says that the recent economic crisis is exactly what one can expect when the relationships between money, community and the land are broken. The most appropriate way to begin building a restorative economy, he says, is to invest locally in sustainable, small-scale food enterprises. The Slow Money approach (www.SlowMoney.org) aims to bring together key stakeholders, investors and entrepreneurs, along with leaders in local food and progressive finance.
Slow Money is just now beginning to take hold in Boulder County, with an commitment of $1.5 million from an anonymous donor to seed what promises to become a critical source of capital for local food and farming enterprises. That fund is currently under the stewardship of Transition Colorado, but will soon be established as an independent Slow Money entity.
Catalyzing a local network
Rebuilding production capacity and increasing consumer demand simultaneously is something of a chicken-and-egg challenge. Some farmers remain skeptical that the demand for locally produced food will continue to follow a supposed hockey-stick trajectory. They wonder: “If we are able to dramatically ramp up production, where will the infrastructure come from that can get our products processed and onto the tables of consumers?” One bright spot may be the recent emergence of a “foodshed alliance” known as the Boulder County Local Food Network, conceived as a cooperative membership organization joining farmers, food and agricultural leaders, local businesses, local governments and community residents in a united effort to stimulate and support the local food economy and to foster increasing localization of the regional food system. The group’s informal motto is “thinking like a foodshed.”
Organized as a member of the national Business Alliance for Local Living Economies, the Local Food Network was first announced on Feb. 27 at the “Our Local Economy in Transition” conference, and the group is now recruiting charter members. Founding members include Everybody Eats!, Ollin Farms, Center for ReSource Conservation and Transition Colorado.
The group hopes to grow to 200 members over the next two years, including farmers, ranchers, restaurants, retailers, food processors, distributors, food-related businesses, nonprofit and community organizations, county and municipal governments, as well as other local businesses that support the goals and values of the network.
Making the transition to local food and farming
In 2006, a food working group calculated that the then-current state of agriculture in Boulder County could only feed about 20,000 — less than 7 percent of the total population of 300,000. They then looked at the upside, estimating that with greatly expanded individual and community garden plots, greatly increased farming for food using bio-intensive methods, with reduced calorie intake and a simplified diet, this maybe could be increased to about 185,000 people — a daunting realization, but a useful benchmark of our vulnerability here. The group also learned that there were already about 34,000 food-insecure people — those without secure, reliable access to food — in Boulder County, and those numbers have been increasing dramatically with the recent economic turmoil.
Boulder County is proud of its farmers’ markets, and more of them are coming up every year. Boulder’s own market is widely regarded as one of the top 10 in the country, and an estimated 14,000 people show up at the Boulder market on a Saturday. Yet, an entire season’s sales at the Boulder County Farmers’ Markets — Boulder and Longmont together — would meet Boulder County’s food needs for less than a day and a half.
Given all this, it’s clear that one of the most important things we can all do together is to completely rebuild our local foodshed — from multiplying backyard and frontyard gardens, to raising chickens and keeping bees, to committing to only buying food that is local and organic, to converting our local agricultural lands to growing food for local consumption, to rebuilding local food storage and distribution systems, to demanding that our supermarkets stop importing food we could produce here ourselves, to training young people to learn farming as a wise and essential — and even sustainable — career choice.
Of course, the transition to a re-localized, non-fossil-fuel food and farming system will take some time — because nearly every aspect of the process by which we feed ourselves must be redesigned and rebuilt. But if we do this right, we have an opportunity to build a localized food and farming system that is economically robust, environmentally sustainable, resilient and self-reliant, one that ensures food security and sovereignty for all, one that contributes to the health and happiness of our citizens, and that revitalizes our communities.
If we do this right, not only can we reverse the destruction that industrial agriculture causes, but we can replace it with something far better, a way of growing and preparing food that heals our connection with the land and with each other. In the process, we may also find that we’re restoring the kind of democracy envisioned by Thomas Jefferson for his fledgling nation.
Brownlee is co-founder of Boulder-based Transition Colorado (www.TransitionColorado.org), the first officially recognized Transition Initiative in North America, now focused on rebuilding the local food system. He is publisher of Boulder County’s EAT LOCAL! Resource Guide and Directory (www. EatLocalGuide.com), co-founder of the Boulder County Local Food Network, and former member of the Boulder County Food & Agriculture Policy Council.
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7 aprile 1979: per ricordare
7 aprile 1979 - Padova: il sostituto procuratore della repubblica Pietro Calogero ordina l'arresto di un gruppo di dirigenti dei gruppi extraparlamentari Autonomia Operaia e Potere Operaio: tra di essi Toni Negri, Oreste Scalzone, Emilio Vesce, Luciano Ferrari Bravo, Franco Piperno, accusati di associazione sovversiva e insurrezione armata contro lo stato. Alcuni degli arrestati vengono anche accusati di aver preso parte al rapimento e all'uccisione di Aldo Moro (l'imputazione cade nel 1980). In sede giudiziaria (il processo 7 aprile), Calogero sostiene che Toni Negri sia stato la "mente" delle Brigate Rosse. Quasi tutte le accuse mosse agli arrestati vengono in seguito a cadere.
Un momento molto particolare nella storia d'Italia e nostra, nel Veneto. Ci sarebbero un paio di libri che meriterebbero esser letti: uno della figlia di Negri e l'altro di Giorgio Bocca. Riporto un paio di commenti sugli stessi:
Con un piede impigliato nella storia
Autore Negri Anna
Questo magnifico diario mi ha regalato un punto di vista diverso da cui poter osservare la storia del terrorismo italiano... il punto di vista di chi, suo malgrado, ha dovuto portare il peso di scelte altrui. E fa riflettere su come, a pagare lo scotto di quegli anni, non siano state solamente le vittime "ufficiali" ... ma anche quelle che con un piede sono rimaste impigliate nella storia perchè quella storia l'avevano scritta i lori padri. Brava Anna!
L.16: Le Cerveau de Kennedy - Henning Mankell
Editeur : Seuil
Publication : 15/1/2009
Résumé du livre
Un thriller entre Suède et Afrique, fusion des thèmes chers à Mankell : les turpitudes du monde contemporain, la complexité des rapports mère/fils, la mort omniprésente, et surtout les ravages du sida en Afrique, face à l'indifférence des Occidentaux. L'intrigue se concentre autour de la quête d'une mère. Louise Cantor, 54ans, archéologue travaillant sur un site du Péloponnèse, revient en Suède et se réjouit de revoir son fils Henrik. Elle le découvre mort, dans son lit. Pas un instant Louise ne croit à un suicide. Avec l'énergie du désespoir et une obstination d'archéologue, elle va tenter de reconstituer les dernières années de la vie d'Henrik, fragment par fragment, comme on recolle un vase antique à partir de tessons épars. Commence alors un périple halluciné. En Australie, d'abord, où Louise retrouve Aron, le père de son fils et le persuade de l'aider. Puis à Barcelone où Henrik possédait un appartement secret et menait une double vie à son insu. Quand Aron disparaît brusquement, Louise part seule au Mozambique, à la rencontre de Lucinda, une jeune noire amie de son fils. Le choc est brutal. S'ensuit une longue descente jusqu'au fond de la détresse, avec en contrepoint la découverte de la pleine signification du mot 'misère' dans ses multiples aspects. Aux prises avec des forces occultes qui la dépassent, Louise retourne en Suède et se jure de trouver et d'assembler les derniers 'fragments du vase'.
Da diversi giorni Henrik Cantor non risponde al telefono. Quando sua madre Louise giunge finalmente al suo appartamento, dopo un viaggio dalla Grecia segnato da una sottile angoscia, trova il cadavere del ragazzo riverso sul letto. Tutte le tracce, a cominciare dai sedativi trovati nel sangue di Henrik, fanno pensare a un suicidio, ed è con questa conclusione che la polizia archivia il caso. Louise, tuttavia, rifiuta di credere che suo figlio si sia tolto la vita: nonostante le ricerche archeologiche di cui si occupa l'abbiano tenuta a lungo lontana dalla Svezia, è convinta che Henrik non avrebbe mai commesso un gesto del genere. Insieme all'ex marito Aron, che aveva abbandonato la famiglia poco dopo la nascita del bambino, comincia così un'indagine sulla vita di Henrik, della quale entrambi capiscono presto non sapere realmente nulla: tra le carte del ragazzo ritrova un minuzioso dossier sulla presunta sparizione del cervello del presidente Kennedy dopo l'attentato di Dallas, testimonianze di innumerevoli viaggi all'estero e un'enigmatica lettera da parte di una fidanzata di cui nessuno dei due conosceva l'esistenza. Louise e Aron si lanceranno così sulle tracce lasciate dal figlio fino all'Africa, scoprendone i legami con il mondo corrotto e spietato creatosi intorno alla tragedia dell'AIDS: affaristi senza scrupoli che commerciano in sangue infetto, ricercatori che compiono esperimenti illegali per trovare un vaccino, contrabbandieri di farmaci retrovirali.
Letto in francese, ma disponibile anche in italiano: bel libro di Mankell, probabilmente il piú impegnato e questo, secondo me, si sente. A volte l'autore sembra andare un po'in fuorigioco, per l'ansia di far trasparire l'impegno politico. Dato che sono un incondizionale di Mankell, e che questo tipo di battaglie fa parte anche delle mie, il libro mi piace e molto, ma credo che non sia piaciuto a tutti. Una specie di work in progress, non finisce alla fine ma da l'idea di una battaglia da continuare... vedremo se tornerá sull'argomento. Non sará nella top ten.
martedì 5 aprile 2011
Favorire l’accesso alla terra attraverso la definizione di modelli innovativi per la promozione del diritto d’uso sul diritto di proprietà
il mio caro amico Leonardo Gallico ha appena pubblicato questo interessante articolo nella rivista BAC (Bio Agri Cultura), n. 126 marzo/aprile 2011 sui temi legati alla terra e mi sembrava una buona idea condividerlo:
Già nel giugno 2008, in una risoluzione del Parlamento Europeo, si constata che “principale elemento condizionante per il ringiovanimento dell'imprenditoria agricola è l'accesso alla terra, visto il suo costo elevato”.
Sicuramente il sistema di mercato non è quello che garantisce una migliore allocazione del bene, tanto è che in Italia gli scambi sono molto limitati e ogni anno solo il 2% della superficie è interessata da attività di compravendita. Lo stesso ex-ministro Zaia nel luglio 2009 aveva lanciato la proposta di utilizzo delle terre demaniali (circa un milione di ha) per “ favorire il ricambio generazionale e lo sviluppo dell'imprenditorialità agricola giovanile”, senza specificare però le modalità di attuazione del progetto.
La questione non è certo di facile soluzione, tuttavia, questo numero di BioAgriCultura vuole dare una mano a comprendere il fenomeno, in Italia e all’estero, favorendo il dibattito per la definizione di modelli innovativi per la gestione delle risorse fondiarie che possano facilitare l’accesso ai terreni da parte di giovani agricoltori.
Non è una chimera che in Italia, come del resto in Europa, diminuiscono a colpo d’occhio le aziende agricole. Dal 2000 ad oggi il numero degli operatori lungo lo Stivale è calato del 40% e le aziende che sono rimaste sono cresciute, favorendo cosi quel processo di concentrazione della proprietà fondiaria.
La chiusura di tante aziende agricole di piccole e medie dimensioni, in teoria, dovrebbe aumentare l’offerta di terreni, in realtà queste superfici da un lato sono diventate aree boschive (i boschi sono aumentati di 3,5 milioni di ettari negli ultimi 20 anni) e dall’altro si sono trasformate in superficie artificiale, mentre una larga parte della superficie incolta, (circa 500.000 ettari) rimane ‘ferma’. Queste superfici non sono né lavorate, né utilizzate a fini boschivi, né trasformate in suolo urbano, sono in attesa di divenire qualcos’altro e bloccate dal diritto di proprietà. Proprio per questo potrebbero tornare utili gli strumenti già definiti negli anni passati, come le Università Agrarie che puntualmente affittano i terreni ai loro soci promuovendo il diritto d’uso detenuto in forma collettiva rispetto al diritto di proprietà. Solo per citare un caso, basti pensare che nella sola Regione Lazio esistono oltre 500 mila ettari gestiti in questa modalità.
A causa di un mercato fondiario inaccessibile ai piú, con prezzi che in media si aggirano sui 20.000 €/ha , oggi abbiamo, da un lato terreni incolti gravati da vincoli di proprietà e in attesa di essere utilizzati, probabilmente per processi di urbanizzazione o a fini patrimoniali, e dall’altro operatori del settore che o non riescono ad insediarsi, o non possono ingrandire le proprie superfici.
Questa dinamica dei prezzi ha spinto gli investitori agricoli a spostare i propri interessi verso il mercato dell’Est Europa e del resto del mondo . Per cui, nonostante vi sia in Italia abbondante disponibilità di terreni atti alle lavorazioni agricole, i capitali si spostano altrove per cercare di speculare e favorire processi di privatizzazione delle risorse naturali. Come osservato anche durante gli incontri per l’elaborazione delle Voluntary Guidelines on Responsible Governance of Tenure of Land and Other Natural Resources promossi dalla FAO nel corso del 2010 , nei paesi dell’Est Europa i valori fondiari si attestano intorno ai 200 euro/ha. Questo divario tra i prezzi ha favorito una ‘corsa all’oro’ nel profondo Est, dove il processo di smantellamento delle antiche cooperative statali è stato uno dei primi passi dei meccanismi di riforma verso un’economia di mercato. Paesi come la Polonia, per difendersi da questo nuovo fenomeno di land grabbing, hanno imposto vincoli alla proprietà: non più di 300 ettari per un privato, e non più 500 ettari per una società di capitali.
Ma il fenomeno del land grabbing si sta allargando a macchia d’olio, come ci ricorda la dichiarazione approvata lo scorso febbraio al Forum Sociale Mondiale di Dakar, e la necessità di una moratoria sull’acquisto dei terreni nei Paesi terzi diventa fondamentale per lo sviluppo sia delle agricolture del Sud come del Nord del pianeta.
Nelle pagine di questo speciale Accesso alla Terra vengono presentate delle analisi sull’attuale situazione fondiaria in Italia ed in Europa ed alcune buone pratiche in atto su accesso ed uso della terra, per cercare di fare il punto ed alimentare un dibattito che ha oggi più che mai bisogno di una scossa.
L’articolo di Antonio Onorati ci descrive, con la schiettezza analitica dei numeri, la drammaticità del fenomeno: la concentrazione della proprietà fondiaria nel continente è ormai un’evidenza, e ne consegue la necessità di avviare un processo di redistribuzione del capitale fondiario.
Laura Genga, invece, evidenzia il fenomeno della pessima gestione che in Italia si è fatta del territorio, in particolare fa riferimento alla profonda analisi di Salvatore Settis sulle trasformazioni del paesaggio agrario italiano.
Alzando lo sguardo sulle dinamiche globali della crescente competizione tra diversi attori, Luca Colombo fa il punto sulle iniziative intraprese in seno alla FAO e concordate con la società civile mondiale per definire nuovi e più equi accordi di cooperazione sul tema della gestione della terra e delle altre risorse naturali.
Infine vengono riportati due casi: da un lato quello esemplare di Libera Terra che in Italia, attraverso alcune cooperative, gestisce i terreni confiscati alla mafia, e dall’altro l’esperienza di Terre de Liens in Francia, attraverso la quale è stato possibile promuovere un patto tra cittadini e produttori, sino al punto che sono i consumatori ad acquistare il fondo e darlo in gestione ad un contadino di loro fiducia.
Promuovere nuovi meccanismi, accordi tra singoli che definiscano modelli per la creazione di servizi nelle aree rurali è il nuovo paradigma di crescita delle campagne italiane.
L’AIAB con questo speciale vuole partecipare alla campagna mondiale sulla difficile questione del diritto alla terra, promossa dalle associazioni contadine di tutto il mondo, e ribadire che questo fenomeno riguarda il nord come il sud anche se si manifesta in forme diverse. Più nello specifico la campagna di AIAB ha come obiettivo la liberazione dei 500.000 di ettari di superficie agricola del nostro Paese in attesa di trasformazione. Cinquecentomila ettari che, attraverso un uso civico e di servizio, dovranno diventare un serbatoio per i cittadini, a vantaggio dei giovani agricoltori che si vogliano impegnare in tale processo.
Siti di interesse:
www.reclaimthefields.org/
http://www.foodsovereignty.org
http://viacampesina.org
http://www.stopalconsumoditerritorio.it/
http://accessoallaterra.blogspot.com
www.agter.asso.fr
http://www.fian.org/programs-and-campaigns/access-to-land
Già nel giugno 2008, in una risoluzione del Parlamento Europeo, si constata che “principale elemento condizionante per il ringiovanimento dell'imprenditoria agricola è l'accesso alla terra, visto il suo costo elevato”.
Sicuramente il sistema di mercato non è quello che garantisce una migliore allocazione del bene, tanto è che in Italia gli scambi sono molto limitati e ogni anno solo il 2% della superficie è interessata da attività di compravendita. Lo stesso ex-ministro Zaia nel luglio 2009 aveva lanciato la proposta di utilizzo delle terre demaniali (circa un milione di ha) per “ favorire il ricambio generazionale e lo sviluppo dell'imprenditorialità agricola giovanile”, senza specificare però le modalità di attuazione del progetto.
La questione non è certo di facile soluzione, tuttavia, questo numero di BioAgriCultura vuole dare una mano a comprendere il fenomeno, in Italia e all’estero, favorendo il dibattito per la definizione di modelli innovativi per la gestione delle risorse fondiarie che possano facilitare l’accesso ai terreni da parte di giovani agricoltori.
Non è una chimera che in Italia, come del resto in Europa, diminuiscono a colpo d’occhio le aziende agricole. Dal 2000 ad oggi il numero degli operatori lungo lo Stivale è calato del 40% e le aziende che sono rimaste sono cresciute, favorendo cosi quel processo di concentrazione della proprietà fondiaria.
La chiusura di tante aziende agricole di piccole e medie dimensioni, in teoria, dovrebbe aumentare l’offerta di terreni, in realtà queste superfici da un lato sono diventate aree boschive (i boschi sono aumentati di 3,5 milioni di ettari negli ultimi 20 anni) e dall’altro si sono trasformate in superficie artificiale, mentre una larga parte della superficie incolta, (circa 500.000 ettari) rimane ‘ferma’. Queste superfici non sono né lavorate, né utilizzate a fini boschivi, né trasformate in suolo urbano, sono in attesa di divenire qualcos’altro e bloccate dal diritto di proprietà. Proprio per questo potrebbero tornare utili gli strumenti già definiti negli anni passati, come le Università Agrarie che puntualmente affittano i terreni ai loro soci promuovendo il diritto d’uso detenuto in forma collettiva rispetto al diritto di proprietà. Solo per citare un caso, basti pensare che nella sola Regione Lazio esistono oltre 500 mila ettari gestiti in questa modalità.
A causa di un mercato fondiario inaccessibile ai piú, con prezzi che in media si aggirano sui 20.000 €/ha , oggi abbiamo, da un lato terreni incolti gravati da vincoli di proprietà e in attesa di essere utilizzati, probabilmente per processi di urbanizzazione o a fini patrimoniali, e dall’altro operatori del settore che o non riescono ad insediarsi, o non possono ingrandire le proprie superfici.
Questa dinamica dei prezzi ha spinto gli investitori agricoli a spostare i propri interessi verso il mercato dell’Est Europa e del resto del mondo . Per cui, nonostante vi sia in Italia abbondante disponibilità di terreni atti alle lavorazioni agricole, i capitali si spostano altrove per cercare di speculare e favorire processi di privatizzazione delle risorse naturali. Come osservato anche durante gli incontri per l’elaborazione delle Voluntary Guidelines on Responsible Governance of Tenure of Land and Other Natural Resources promossi dalla FAO nel corso del 2010 , nei paesi dell’Est Europa i valori fondiari si attestano intorno ai 200 euro/ha. Questo divario tra i prezzi ha favorito una ‘corsa all’oro’ nel profondo Est, dove il processo di smantellamento delle antiche cooperative statali è stato uno dei primi passi dei meccanismi di riforma verso un’economia di mercato. Paesi come la Polonia, per difendersi da questo nuovo fenomeno di land grabbing, hanno imposto vincoli alla proprietà: non più di 300 ettari per un privato, e non più 500 ettari per una società di capitali.
Ma il fenomeno del land grabbing si sta allargando a macchia d’olio, come ci ricorda la dichiarazione approvata lo scorso febbraio al Forum Sociale Mondiale di Dakar, e la necessità di una moratoria sull’acquisto dei terreni nei Paesi terzi diventa fondamentale per lo sviluppo sia delle agricolture del Sud come del Nord del pianeta.
Nelle pagine di questo speciale Accesso alla Terra vengono presentate delle analisi sull’attuale situazione fondiaria in Italia ed in Europa ed alcune buone pratiche in atto su accesso ed uso della terra, per cercare di fare il punto ed alimentare un dibattito che ha oggi più che mai bisogno di una scossa.
L’articolo di Antonio Onorati ci descrive, con la schiettezza analitica dei numeri, la drammaticità del fenomeno: la concentrazione della proprietà fondiaria nel continente è ormai un’evidenza, e ne consegue la necessità di avviare un processo di redistribuzione del capitale fondiario.
Laura Genga, invece, evidenzia il fenomeno della pessima gestione che in Italia si è fatta del territorio, in particolare fa riferimento alla profonda analisi di Salvatore Settis sulle trasformazioni del paesaggio agrario italiano.
Alzando lo sguardo sulle dinamiche globali della crescente competizione tra diversi attori, Luca Colombo fa il punto sulle iniziative intraprese in seno alla FAO e concordate con la società civile mondiale per definire nuovi e più equi accordi di cooperazione sul tema della gestione della terra e delle altre risorse naturali.
Infine vengono riportati due casi: da un lato quello esemplare di Libera Terra che in Italia, attraverso alcune cooperative, gestisce i terreni confiscati alla mafia, e dall’altro l’esperienza di Terre de Liens in Francia, attraverso la quale è stato possibile promuovere un patto tra cittadini e produttori, sino al punto che sono i consumatori ad acquistare il fondo e darlo in gestione ad un contadino di loro fiducia.
Promuovere nuovi meccanismi, accordi tra singoli che definiscano modelli per la creazione di servizi nelle aree rurali è il nuovo paradigma di crescita delle campagne italiane.
L’AIAB con questo speciale vuole partecipare alla campagna mondiale sulla difficile questione del diritto alla terra, promossa dalle associazioni contadine di tutto il mondo, e ribadire che questo fenomeno riguarda il nord come il sud anche se si manifesta in forme diverse. Più nello specifico la campagna di AIAB ha come obiettivo la liberazione dei 500.000 di ettari di superficie agricola del nostro Paese in attesa di trasformazione. Cinquecentomila ettari che, attraverso un uso civico e di servizio, dovranno diventare un serbatoio per i cittadini, a vantaggio dei giovani agricoltori che si vogliano impegnare in tale processo.
Siti di interesse:
www.reclaimthefields.org/
http://www.foodsovereignty.org
http://viacampesina.org
http://www.stopalconsumoditerritorio.it/
http://accessoallaterra.blogspot.com
www.agter.asso.fr
http://www.fian.org/programs-and-campaigns/access-to-land
lunedì 4 aprile 2011
Paola Bottero (ed Alessandro) a Formelluzzo
Tutto per colpa di Martoriati (www.mauromartoriati.com); lui e Paola si conoscevano giá vent’anni fa e quindi non era cosí strano trovare nel suo studio una copia, dedicata, di Ius Sanguinis (http://www.iusanguinis.net/index.php), primo libro di Paola Bottero (di cui potete sapere molto cercando sul net). Preso a prestito il libro, letto in un baleno, commentato su questo blog (26 gennaio) e, da lí in poi, la voglia di conoscerla e sapere che faccia ci fosse dietro quelle parole. E cosí ieri sera sono arrivati, lei, il suo compagno Alessandro e Mauro, per un aperitivo poi diventato cena, con altri amici che si sono aggiunti all’ultimo minuto.
Bella lei, ma anche bello lui, due persone che val la pena conoscere, per i loro sogni, le loro energie e la forza che trasmettono. Si è parlato non solo di Ndranghetown (di cui diró dopo averlo letto) ma anche di quel sogno che stanno lanciando loro due e che comincerá ad esser realtá giá a fine aprile. Manteniamo il riserbo finché non lo annunceranno loro.
Scrivere, raccontare storie da una terra bella e difficile, comunicare agli altri gli stessi odori, colori e sapori, le tre parole chiave per Paola quando pensa alla Calabria; tutto questo coniugato in un’iniziativa culturale che vada al di lá di questa geografia, che cerchi di portare messaggi di voglia di fare, di speranza e di lotta ad un pubblico che deve esserci lí fuori. Ma giá il fatto di provare a raccontare, a misurarsi con questi temi, partendo da vari punti di vista, le donne nel primo libro, il piccolo Silvio nel secondo, fa capire che il percorso sará ancora lungo.
Non conosco molti scrittori, uno sí, un belga amico nostro, e sappiamo un po’di quanto difficile sia misurarsi con le storie da raccontare, con la pagina (elettronica) bianca davanti; ma con Paola ho imparato che la leggerezza dell’essere esiste veramente, e che non è cosí insostenibile. Chissá quanto contribuisce Alessandro a tutto questo (penso molto francamente): fanno squadra, e questo mi fa pensare che negli anni a venire sentiremo ancora (e molto) parlare di loro.
Foto di Mauro, Alessandro e Paola, Paolo e Paola
sabato 2 aprile 2011
L.15: La voix - Arnaldur Indridason
Editeur : Métailié
Publication : 1/2/2007
Le père Noël a été assassiné juste avant le goûter d'enfants organisé par le directeur de l'hôtel de luxe pris d'assaut par les touristes, alors s'il vous plaît, commissaire, pas de vagues. C'est mal connaître Erlendur. Le père Noël était portier et on tolérait qu'il occupe une petite chambre dans les sous-sols depuis 20 ans, mais la veille on lui avait signifié son renvoi. Et puis, sur son bel habit rouge pendait un préservatif usagé. Il n'avait pas toujours été un vieil homme, il avait été Gulli, un jeune chanteur prodige, une voix exceptionnelle, un ange. Les interminables fêtes de fin d'année du pays du père Noël (11 jours) dépriment le commissaire qui s'installe dans une chambre de l'hôtel et mène son enquête à sa manière rude et chaotique. Sa fille essaye de ne pas replonger dans la drogue, elle vient le voir souvent, elle a eu de mauvaises fréquentations qu'elle présente à son père, ce qui permet à ce dernier d'avancer dans sa connaissance de la prostitution de luxe, et puis il y a cette jolie technicienne des prélèvements d'ADN, tellement séduisante qu'Erlendur lui raconte ses secrets. Le 45 tours enregistré par le jeune garçon, cette voix venue d'un autre monde ouvre la porte à des émotions et des souvenirs, à des spéculations de collectionneurs et à la découverte des relations difficiles et cruelles entre les pères et les fils.
GRANDE LIBRO: entra dritto nealla top ten. Molto migliore del precedente. Fra i vari autori nordici la competizione è sempre più dura, ma con questo libro si è guadagnato una bella posizione. RaCCOMANDATO!!
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