Veniamo da una lunga storia di gestione delle risorse
naturali fatta attraverso istituzioni comunitarie. Ne restano ancora molte in
Italia, vestigia di un mondo rurale che è andato scomparendo con la gioia di
tutti. Di tutti? Beh, direi di no. Il movimento che ha spinto per la
privatizzazione delle terre, a partire dalle enclosures inglesi tra il 17 e il
18 secolo, si è pian piano spinto altrove. Ha conquistato il mondo occidentale,
ha affrontato grosse resistenze all’Est finchè, con la caduta del Muro e la
scomparsa dell’URSS è potuto dilagare anche da quelle parti.
Verso il sud del mondo ci ha messo più tempo, e non ha
ancora finito. Gli argomenti usati in inghilterra dovevano essere aggiornati
per diventare appetibili, per cui il buon Hardin ci pensò su e scrisse un
testo, apparso nel 1968, che ha posto una delle basi per l’accaparramento a cui
assistiamo oggi. Il mondo liberale e neoliberale ci si è buttato sopra: la
scusa che le terre gestite in modo comunitario fossero sprecate economicamente
era troppo ghiotta per lasciarla passare. Ecco perché da allora, chi si occupa
di questioni legate alle terre, prima o dopo incappa sempre in questo maledetto
articolo. Non si può nemmeno dire che lo abbia scritto sotto dettatura, ma è
bastata l’ignoranza di chi non era mai andato a studiarli da vicino questi
commons (bastava venire in Europa senza arrivare fino alla calda Africa), per
capire la flessibilità e la molteplicità degli arrangi istituzionali che stanno
dietro alle pratiche comunitarie. Ma soprattutto ci voleva una libertà di
pensiero, che lui non aveva, obnubilato dall’homus economicus, per capire che
esistono altre realtà umane che non necessariamente misurano tutto sulla base
del profitto.
Questa ragione spiega molto dell’ansia di portare avanti le
tesi sostenute da Hardin. Negli stessi anni quando usciva quell’articolo,
diventava chiaro che il tasso di profitto del dopoguerra era oramai
irrangiungibile e continuava a scendere. Tragedia degna di Zio Paperone: cosa
fare? Dove trovare delle possibilità di far soldi? La questione della terra si
pone a partire da quel momento.
Ma va detto che la terra non era l’unico bene a cui ci si
interessava. L’acqua e l’aria, per non direi dell’ambiente in senso lato,
entrarono nella linea di mira dei lupi di wall street.I momenti salienti della
distruzione del corpo sociale che teneva ancora in piedi una parvenza di vita
comunitaria si possono riassumere, a grandi linee con:
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L’affermazione che l’unica moneta che contava
era il dollaro, quello vero ma anche quello virtuale che si comincia a creare a
grande scala con la rottura del sistema del Gold Standard. Fino ad allora, la
parità fissa oro-dollaro e monete attaccate, garantiva stabilità a tutti. Con
la rottura decisa unilateralmente dagli americani, ognuno ha dovuto imparare a
nuotare nel mare magnum dell’imprevisbilità economica, con alti e bassi e,
soprattutto, con la possibilità, venduta come una necessità per parare i colpi
dei cicli di alti e bassi delle diverse monete, di creare moneta fittizia.
Infatti i mercati dei features vengono creati immediatamente dopo la rottura.
Con i futures si comincia a vender o comprare al futuro, quindi con una moneta
virtuale, che si pagherà al momento della consegna. Si può quindi cominciare a
speculare, cosa che prima era praticamente impossibile dati i rapporti fissi
tra le monete.
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Poco dopo arrivano al potere, dopo esser stati adeguatamente
allenati, i neoliberali. In America e in Inghilterra Reagan e la Thatcher
cambiano il mondo. Privatizzare tutto quello che sia possibile, imporre misure
draconiane ai paesi africani – per primi – poi seguirono gli altri, attraverso
i Programmi di Aggiustamento Strutturale, vennero tolti lacci e lacciuoli alle
regole ambientali e soprattutto si spinse sull’acceleratore dell’individualismo
puro. Il celebre epitaffio di quel periodo è una frase attribuita alla Iron
Lady: La società non esiste. Io vedo solo individui e famiglie.
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Con l’accelerazione delle spese militari (fatto
al doppio scopo di espandere il controllo americano su un mercato in crescita e
di obbligare i russi a rilanciare nell’eterna partita a poker dei due Blocchi),
fecero saltare il banco oltre cortina. La Russia si arrese e le praterie dell’Est
si aprirono.
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La teorizzazione economica era sostenuta sia dal
mondo universitario, sia dalle organizzazioni finanziarie internazionali, come
la Banca Mondiale, l’FMI, l’OCSE etc.
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Il nuovo millennio arriva quindi con il trionfo
di un modello economico che ha chiuso gli occhi di tanti, come fosse oramai l’unico
possibile. Ancora una volta è stata la Natura a ricordarci che non siamo ancora
arrivati a sottometterla. Le abbiamo inferto molti danni (che ci siamo ostinati
a non voler riconoscere) e a un certo punto ci è stato presentato il conto. 8
su 10 delle catastrofi naturali più grosse al mondo (da quando esistono
strumenti per misurarle, cioè primi anni 70) sono successe dal 2000 in poi.
Catastrofi sempre più care, che se da un lato ci dicono che i tentativi degli
stregoni umani di mettere la mano sulla Natura ci fanno correre dei rischi
enormi, dall’altro lato della barriera questo ha provocato una accelerazione
delle finanziarizzazione dell’economia.
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La ragione dietro è sempre la stessa: si vuol
ragionare solo in termini economici e di profitto. Quest’ultimo è naturalmente
destinato a calare se non si trovano nuove frontiere. Le catastrofi, col loro
peso economico (per Katrina, 2005 New Orleans, si parla di un costo totale di
150 miliardi di dollari) pesano sui costi del sistema economico mondiale, cioè
fanno ridurre i profitti. Quindi bisogna cercare altrove.
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Le tensioni crescenti sui prezzi delle materie
prime hanno spinto ad accelerare la ricerca di terre buone. La scusa è legata
alla demografia e alla “necessità” di quasi raddoppiare la produzione
alimentare mondiale. Per cui tutta la batteria delle vecchie scuse viene riaperta:
ci vuole una agricoltura moderna, che vuol dire chimicizzata, ci vogliono gli
OGM (dato che le varietà normali non riescono più ad aumentare di
produttività), ci vogliono le migliori terre e ci vuole una organizzazione
industriale. Ecco perché, anche se non c’era più il bisogno antico di manod’opera
da mandare in fabbrica, ragione per cui si svuotavano le campagne, adesso si
mandano via i contadini per far posto a chi ci sa fare. L’agricoltura
industrializzata ci viene presentata ogni giorno sui telegiornali, sulle
riviste specializzate etc.. Non ci vengono mai mostrati quelli che vengono
mandati via… come se le terre che vengono prese fossero delle terre libere, una
specie di paradiso a disposizione del primo arrivato. Ma non è vero: uno studio
recente ha dimostrato che, su oltre settantamila casi esaminati, tra il 93 e
99% degli “investimenti” erano fatti in zone popolate. Cioè si caccia via la
gente che ci viveva, grazie a dei sistemi di governanza locale debolissimi dove
basta un po’ di sana corruzione per farci avere titoli per dimostrare la nostra
legalità.
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Nuovi argomenti sono stati tirati fuori per
giustificare ancor di più queste privatizzazioni e ruberie: i servizi
ecosistemici. La nuova religione, perché di questo si tratta, è sempre quella
del profitto, ammantata sotto l’idea che per proteggere la natura dobbiamo
valorizzare i servizi che lei rende a noi, quindi dandogli un prezzo e
mettendoli sul mercato. Lo slittamento semantico sembra preoccupare pochi.
Prima parlavamo della Natura con rispetto, lei stava sopra tutti noi, animali,
umani e vegetali. Adesso è finita la cuccagna. Siamo noi a dominare e la Natura
diventa strumentale al nostro benessere. Quindi quello che lei “produce” per
noi val la pena di salvarlo (via il mercato), il resto possiamo buttarlo nel
cesso così caro a Bossi.
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Quindi ci vendiamo tutto.. abbiamo privatizzato
anche l’aria, con i crediti carbone, manca poco perché si cominci a riflettere
sul prossimo bersaglio. Io un’idea ce l’ho e ne parlerò al Festival della Pace
di Bergamo e in un articolo che sto cominciando a preparare.
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