Perché da tanti anni mi batto per il vago tema del “gender”
Alcuni anni fa, un mio oramai ex-direttore che, a giorni alterni, si presentava come “amico” e “superiore gerarchico”, mi chiamò nel suo ufficio per esternarmi che, a suo giudizio, io “perdevo” (parola esatta) troppo tempo con altre Divisioni tecniche della nostra stessa organizzazione (intuii subito che si trattasse di una critica al mio modo di proporre di lavorare in modo sistemico sulle questioni legate alle terre e suoi diritti). L’esempio che prese a testimone fu quello della divisione che all’epoca di chiamava di “Gender”. Secondo lui cercar di far entrare nei nostri approcci tecnici una dimensione come quella del genere era “perdere tempo”. Gli andò male, perché pochi giorni dopo vennero resi pubblici i risultati di uno studio interno sulla sensibilità delle varie unità tecniche al tema “genere” e la nostra unità risultava molto bassa in classifica. Quando gli fu chiesto, dal responsabile della divisione Gender, di spiegare il perché di un tal risultato, la risposta fu di negare l’evidenza e insistere sul fatto che io, su ordine suo, spingevo molto per collaborazioni sia normative che di terreno sui temi terra e genere.
Al di là dell’episodio, imbarazzante, quella fu una opportunità per chiedermi come mai, dopo oltre 25 anni spesi a lavorare in quella organizzazione che, fin dal primo giorno in cui ero entrato, aveva iniziato a spingere su questo tema, non si fosse ancora riusciti ad arrivare a risultati concludenti. Ovviamente mi fermai anche a pensare il mio proprio lavoro e il perché insistevo tanto su questo.
Adesso che sta arrivando l’ora di chiudere questa avventura, ne approfitto per mettere giù due righe su questo, che magari potranno tornar utili a chi, mia figlia, ne ha fatto un soggetto principale del suo impegno intellettuale e professionale…
Il mio avvicinamento al tema iniziò per pura casualità quando, dopo aver terminato un master in agricoltura comparata e sviluppo agricolo, entrai a fare uno stage al Centro di Sviluppo dell’OCSE a Parigi. Mi misero a lavorare con un gruppo misto di economisti, capeggiati da uno della destra neoliberale francese e, per strane coincidenze astrali, con una sociologa originaria dei Caraibi inglesi, separata da un italiano, suonava la chitarra e aveva avuto anche una particina nella Dolce Vita di Fellini. Fu grazie a lei, Winnie Weekes-Vagliani (chi volesse leggere qualcosa di quello che scriveva all’epoca ecco un link: http://horizon.documentation.ird.fr/exl-doc/pleins_textes/pleins_textes_4/colloques/17956.pdf), che sentii parlare per la prima volta di Donne nello Sviluppo.
In parallelo col lavoro avevo anche iniziato una tesi di dottorato sotto la tutela della banda dei professori della cattedra parigina oriunda degli insegnamenti di René Dumont. Gente di sinistra, con tendenze varie (e quindi in lite permanente tra di, loro) ma accomunati da una misoginia di fondo. La prova del nove l’ebbi quando, partecipando a un colloquio a Montpellier sui temi dell’agricoltura contadina in Africa (ero lì per proporre a uno dei professori locali di far parte del mio juri’ di tesi), ebbi l’ardire, alla fine della presentazione di uno dei miei prof parigini (uno di quelli di sinistra, amati da tutti noi giovani, Marc Dufumier per la cronaca) di fare un piccolo commento, originato dalle lunghe discussioni con Winnie all’Ocse, sull’importanza non solo degli uomini ma anche, e soprattutto, delle donne nella agricoltura contadina africana. Il commento che fece Marc mi è rimasto in mente fino ad oggi. Lui lo avrà dimenticato, ma per me è rimasto il simbolo di quanta strada ci fosse da fare nel mondo cosiddetto “progressista”. Marc si rivolse alla sala dicendo: “sapete perché Paolo ha fatto questo commento? Lui è italiano, e quindi le donne eh eh eh…”. Tutti i peggiori stereotipi si coalizzarono in quel momento. Non solo l’incapacità di accettare questa pluralità di attori, ma proprio di concettualizzarli come degli esseri aventi gli stessi diritti di quei piccoli contadini che Marc diceva tanto voler difendere.
Entrai nella mia organizzazione attuale con questo bagaglio iniziale, preoccupato di trovarmi in situazioni ben peggiori, data la reputazione che aveva l’organizzazione. Venni subito coinvolto in un corso di formazione, appena sbarcati in Cile: lo protagonizzava la capa dell’unità Donne nello Sviluppo, un’americana che sembrava sbarcata dalla California post-68. Troppo avanti con le idee, e convinta di parlare a un pubblico di studenti interessati al tema, andò sopra le righe e la maggioranza la prese semplicemente per matta. Ricordo0 che era ancora il Cile di Pinochet, dove il ruolo delle donne era nell’economia del hogar, dentro casa. Paradosso storico, fu proprio nel periodo della dittatura pinochetista che le donne in agricoltura guadagnarono spazio e visibilità dato che molti maschi erano stati fatti sparire e il nuovo boom della frutticultura necessitava di mani piccole e attente, per cui la femminizzazione del settore avanzò a passi da gigante, con successive rivendicazioni economiche e sociali.
Torniamo al punto. Dopo un paio d’anni tornammo in Italia e cominciai a lavorare nella divisione della riforma agraria. Delle colleghe preparate e volonterose cercavano di spingere sul tema che cominciava a chiamarsi di “genere”. Tuttavia la compartimentalizzazione dell’organizzazione e soprattutto l’imprinting culturale di un mondo di tecnici poco interessati al lato umano dello sviluppo, ne limitò per moltissimi anni l’avanzata.
Non si può dire che siano lesinati gli sforzi da parte dei piani alti dell’organizzazione. Ma forse il livello medio del personale responsabile del tema non fu mai veramente all’altezza. Per anni il tema fu sempre visto come quel po’ di formaggio che metti sopra la pastasciutta prima di mangiarla: non un elemento strutturale, ma un addobbo utile, ma non fondamentale.
Iniziai cosi a cercare una possibile porta d’entrata. L’idea che mi girava in testa da un po’ di tempo era la necessità di andare oltre la visione sistemica promossa dai guru francesi, figli delle “alte” scuole di specializzazione, naturalmente impregnati di una cultura del mors tua vita mea, poco inclini alla modestia e all’ascolto degli altri. Fu così che con un gruppo di amici e colleghi iniziammo a battere strade nuove, alla ricerca di piste metodologiche diverse, meno tecniche e più indirizzate alle scienze sociali.
Arrivammo quindi a teorizzare una via diversa, che superasse l’eterno antagonismo citta-campagna (introducendo cosi il termine oramai usatissimo di “territorialità”), la necessita di accettare la pluralità di attori all’opera in questi spazi concepiti come costruzioni sociali, quindi multilivello, non più determinati solamente dalla geografia o dalle amministrazioni; ma soprattutto iniziammo un percorso verso una maggiore umiltà. Il nostro sguardo su di loro e su questi “territori” non poteva essere ‘unica “verità” possibile, indipendentemente da quanto sistemici e bravi fossimo noi. Cominciammo ad accettare l’idea che ogni attore, singolo o organizzato, sviluppa una propria visone del “territorio”, lo esprime attraverso posizioni (in superficie) e interessi (in profondità), che bisogna imparare a conoscere, rispettare e con cui, se possibile, lavorarci.
Emerse così l’idea dei patti socio-territoriali, risultanti da processi di dialogo, negoziazione e concertazione, dove era necessario cominciare a interessarsi delle dinamiche di potere. Tema, quest’ultimo, tabu, all’interno dell’organizzazione. Ancora oggi, quasi 18 anni dopo le nostre prime riflessioni, troverete pochissimi riferimenti nella pubblicistica interna a questo tema, perché fa paura e, soprattutto, non fa far carriera.
La questione del potere, e delle sue asimmetrie, legata alla necessita di accettare la diversità, e costruire un eventuale percorso di dialogo basato proprio su questa diversità, ci riportò necessariamente al tema di genere.
Qualche passo in avanti l’abbiamo fatto, ma resta ancora molto da fare per far sì che i colleghi capiscano realmente cosa abbiamo in mente. Per noi, o almeno per me, lo sviluppo (qualsiasi cosa intendiamo con questa parola), è un processo generato, guidato (male o bene che sia) da esseri umani. Di conseguenza, se vogliamo intervenire nelle dinamiche di questi processi, dobbiamo imparare a ritornare alla base, e cioè chiederci chi siano questi uomini e queste donne, oggetti e soggetti dello sviluppo. L’impressione che porto a casa ogni giorno di più è che anche se globalmente il livello educativo aumenta, di fatto aumenta in verticale, una moltitudine di torri di babele individuali all’interno delle quali costruiamo quello che consideriamo un “sapere” ma che rifiutiamo di condividere e confrontare con gli altri. Non ci parliamo più, fra simili e, ancor meno, fra diversi.
In queste condizioni non ha senso parlare di sviluppo, far finta di preoccuparsi di grandi temi come il cambio climatico o cose del genere. La verità è che il patto sociale che teneva legati gli esseri umani sembra in via di disfacimento. Quindi per me e per i miei ex-giovani, diventa naturale voler riprendere il filo a partire da questa sbriciolatura. Rimettere insieme i cocci, partendo proprio dal tema difficile, ma non impossibile, almeno spero, della uguaglianza di genere. Imparare ad accettare la diversità, riconoscere i nostri ruoli diversi, complementari ma tutti utili, ricordarci che queste costruzioni sciali si portano dietro imbricazioni storiche e di potere molto difficili da far cambiare, per cui si deve imparare a dosare le forze per lotte di lunga durata. Solo se riusciremo a far avanzare la lotta sulla parità di diritti, sull’uguale trattamento per uomini e donne, dando ovviamente più energia laddove sia necessaria,
Come ben fa capire il disegno qui sopra, solo allora potremo sperare di far avanzare il tema dello sviluppo (agricolo o altro) che sia.
In tutti questi anni abbiamo continuamente visto come questo tema interessi poco nelle agenzie tecniche come la nostra. Una mia amica e collega (che sta lavorando e studiando questi temi) parla di approccio minimalista, intendendo riferirsi al fatto che adesso ogni progetto che venga presentato, da noi, dalle banche o da qualsiasi altra organizzazione, deve passare per uno screening minimo per mostrare ai donatori che chi lo ha scritto è cosciente del tema genere. Salvo poi fregarsene completamente nell’esecuzione, e ritornare a bomba nel momento di fare il rapporto finale. Rompere queste logiche è difficile, perché sottendono altre logiche di potere, ma ci proviamo. A luta continua, torneremo in futuro sul tema.
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