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lunedì 26 giugno 2017

Tensioni – dispute – conflitti: l’acqua si sta avvicinando al punto di ebollizione

Tensioni – dispute – conflitti: l’acqua si sta avvicinando al punto di ebollizione
Il sottotitolo potrebbe essere: possiamo sul serio fare qualcosa per raffreddarla?

Da anni uso questo mio blog per fare il punto della situazione sulle questioni legate alle risorse naturali, come e dove cerco di dirigere il mio lavoro e, ogni tanto, per informare se qualche goccia di speranza siamo riusciti a metterla in saccoccia per l’inverno che verrà.
Continuo questo percorso, che si avvale di mille fonti diverse, dai giornali, passando per i rapporti di agenzie di sviluppo, ONG, individui, colleghi, dialoghi con comunità quando riesco ad incontrarle e così via. Essendo la materia parzialmente volatile ed evolutiva, penso sia utile fare periodicamente delle verifiche, per capire (anche per me stesso) se la direzione è giusta oppure no. Lavorare sul tema dei conflitti sulle risorse naturali, facendo parte di una agenzia specializzata delle nazioni unite, fa sì che di fatto ti ritrovi a dover aprire la strada da solo: Caminante no hay camino, se hace camino al andar, https://www.youtube.com/watch?v=2DA3pRht2MA, recita una vecchia canzone spagnola e cosi è nel nostro caso. 
La differenza di fondo fra chi lavora su questi temi al livello che è il nostro, e chi faccia un qualsiasi altro lavoro, dall’operaio al tornio, al falegname, all’insegnante e via discorrendo, è che nei loro casi riesci ad arrivare alla fine del tuo percorso lavorativo dicendoti: sono riuscito a fare delle cose, ho aiutato dei bambini a crescere, ho costruito dei tavoli e dei mobili, ho messo a punto dei pezzi importanti per quella macchina, etc.etc. e, per quanto stanco e stressato, dentro di te senti un certo grado di soddisfazione. Sei incazzato perché ti pagano poco, magari perché gli altri non riconoscono il valore del tuo lavoro, ma resta uno spazio tuo, personale, dove resiste la soddisfazione del lavoro ben fatto. Io l’ho imparato da mio padre, quando lo accompagnavo a fare un po’ di lavori extra-fabbrica per arrotondare il salario. Un muretto tirato su a regola d’arte, la copertura dei garages fatta con la tela catramata, la prima che abbia visto in vita mia, sarà stato nel 1970, cosi da impedire l’infiltrazione della pioggia… insomma piccole cose ma che davano soddisfazione.
Io ho sempre cercato di riportare questo metodo all’interno del mio lavoro. Ma mano a mano che mi addentravo nel mondo dei conflitti, mi rendevo conto che alla fine della giornata erano sempre ben magre le soddisfazioni che si riusciva (e si riesce) a portare a casa. Soprattutto quando cerchi di guardare al di là del caso singolo sul quale lavori e cerchi di capire le dinamiche regionali o globali di questi fenomeni.
Da parecchi anni, in modo molto freddo e tecnico, abbiamo messo a disposizione dati globali, regione per regione, mostrando il livello di attitudine delle terre alle coltivazioni, la loro progressiva rarefazione, e anche il calo progressivo degli aumenti di produttività raggiunti con le nuove tecnologie. Il messaggio era, e resta, sempre lo stesso: dobbiamo imparare a usare meglio quello che abbiamo, dato che non sarà più possibile una espansione della frontiera agricola. Nei pochi posti dove questo sarebbe in teoria possibile, Amazzonia e bacino del Congo, la consapevolezza della loro importanza ambientale sta diventando un freno (relativo, va detto) a quell’espansione. E comunque, anche se si espandesse la produzione su quelle terre, la risposta globale non potrà mai essere all’altezza della sfida. Questo perché il cammino che si è intrapreso nel dopoguerra, sta arrivando al capolinea.
All’epoca l’entusiasmo per i miglioramenti produttivi ottenuti grazie alla ricerca agricola, nuove varietà, introduzione massiccia della chimica in agricoltura, fecero parlare di vera e propria rivoluzione. I rendimenti individuali crebbero a ritmi incredibili per alcuni decenni, poi pian piano, dagli anni 60 in poi, si cominciò a notare che i tassi di crescita si riducevano. Aumentavano ancora i risultati globali, ma i progressi costavano sempre di più cari in termini di ricerca e i risultati non solo non si mantenevano, ma cominciavano a calare. Da allora abbiamo cominciato a porci la vera domanda: se esista un potenziale genetico al di là del quale non si possa andare, dato che il costo non sarebbe mai compensato dai benefici. 
Abbiamo preparato delle varietà che sono come delle Ferrari. Messe in una buona strada, con asfalto adeguato, rettilinei, gomme adeguate e tutto il resto, vanno da Dio. Queste Ferrari hanno però bisogno di condizioni climatiche particolari e di trattamenti chimici abbondanti. Globalmente sia l’America del Nord che l’Europa aveva delle condizioni molto simili, per cui il passaggio delle varietà messe a punto in America sui suoli europei non ha posto grosse difficoltà. All’inizio producevano tanto oltre oceano e altrettanto qui da noi. Tutti contenti, e in pochi anni noi europei siamo passati, da una situazione deficitaria (vera e propria fame) all’uscire dalla guerra, a essere esportatori netti ai primi anni 60. 
La domanda di cibo ha continuato a crescere e a diversificarsi. Mano a mano che si diventava meno poveri, aumentava la domanda di proteine di origine animale. Quindi lo slogan per decenni è sempre stato di produrre di più. Nel Nord del mondo questo funzionava ancora: avevamo settori produttivi che assorbivano la mano d’opera agricola che usciva dal settore a mano a mano che le dimensioni aziendali aumentavano; la produttività a ettaro continuava a salire (anche se meno di prima), per cui i prezzi unitari pagati ai contadini scendevano (e questi continuavano a indebitarsi per produrre sempre di più guadagnando sempre meno) e il costo di riproduzione della mano d’opera calava anche lui.
A un certo punto, quando il livello di povertà e di “morti di fame” nel sud del mondo ha raggiunto un livello critico, vicino al miliardo, le nazioni unite si sono mosse per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale attraverso un Summit. Successe a metà degli anni 90, e fu quando i grossi produttori dell’agro-industria americana ci scrissero dicendo che era inutile preoccuparsi con i poveracci del sud del mondo. Le loro agricolture erano troppo ritardate perché valesse la pena investire, la cosa migliore era di dare i soldi ai bravi produttori del nord che, con le meraviglie promesse dalle varietà OMG, avrebbero alimentato il mondo intero. Da un certo punto di vista questa posizione, frutto dei miglioramenti tecnologici e chimici storici dell’agricoltura americana, oramai diventata un vero e proprio conglomerato agro-industriale, era un frutto logico. Bisogna ricordarsi come in quegli anni il credo fosse solo uno: produrre sempre di più. Nei nostri corridoi le foto che rimbalzavano gli slogan ufficiali erano sempre quelle: contadini al lavoro e sotto la scritta: bisogna produrre di più. Il mercato essendo oramai globalizzato, era ovvio che i signori del Nord dicessero, parafrasando il nostro (ex)Cavaliere: Ghe pensi mi!
Quello che attirò l’attenzione nel loro discorso fu soprattutto il riferimento agli OGM, e il dibattito prese quella piega. Io credo avrebbe dovuto occuparsi anche di un altro aspetto, già introdotto nelle scienze sociali vari anni prima, e cioè la bassissima considerazione che si prestava ai contadini e contadine del sud del mondo, in particolare l’idea che le comunità rurali del sud non sapessero fare un uso razionale delle loro risorse e che quel loro comunitarismo avrebbe di fatto portato allo sfacelo. Non era razzismo allo stato puro, ma un semplice rifiuto verso quelli che erano considerati oggetti dello “sviluppo” e non “soggetti” attivi.
Negli anni, a mano a mano che cresceva il “bisogno” delle nostre civiltà del nord di prodotti disponibili nel sud, la questione del prendersi quelle risorse naturali divenne sempre più importante. I vecchi metodi coloniali non potevano più essere usati, o almeno non più nella stessa maniera. L’obiettivo restava chiaramente lo stesso: spartirci fra di noi le cose degli altri che ci servivano, e poi trovare la giustificazione giusta per andarcele a prendere. La tela di fondo era che lasciare quel ben di Dio in mano ai locali (non più chiamati selvaggi, ma la sostanza era la stessa) era uno spreco che il mondo non poteva più permettersi. Non più solo oro, petrolio e altre materie prime antiche, tipo gomma, ma tutto l’ambaradam moderno per telefonini e batterie al litio. L’ideologia mercantilista neoliberale comincio a teorizzare che quelle terre lasciate così com’erano fossero un capitale morto. Un modo gentile per dire, ancora una volta: Ghe pensi mi!
Abbiamo assistito così a un numero crescente di tensioni, dispute e conflitti, sfociati in vere e proprie guerre che, da qualsiasi parte le si voglia guardare, restano delle battaglie per l’accaparramento e il controllo delle risorse naturali (terra, acqua, risorse genetiche e tutto quanto sta nel sottosuolo; negli ultimi anni si è aggiunto anche ciò che sta sopra, cioè l’aria pura). Non che baruffe e conflitti non esistessero anche prima, per carità. Tensioni, dispute e conflitti fanno parte dell’essere umano quindi non è immaginabile di “eliminare” i conflitti, ma riportarli a un livello gestibile dagli stessi attori. Invece gli interventi sia delle caste al potere (messe lì per soddisfare i nostri bisogni) che delle forze straniere, sia pubbliche che private, hanno avuto l’effetto di mettere un fiammifero acceso vicino a una polveriera. 
Dal nord al sud, da ovest a est, difficile trovare un paese che sia esente da conflitti di questo tipo. Cambia la scala e l’intensità, ma il tratto comune di questo secolo, cioè che unifica la terra tutta è proprio la questione dei conflitti crescenti. Le due mappe che ho messo qui danno una idea dei conflitti legati a ragioni religiose e quelli legati a problemi ambientali.


Siamo oramai in tanti a costatare che il patto sociale che teneva assieme popoli, istituzioni e stati si sta disgregando a velocità folle. La sola rete, il solo meccanismo che avevamo “inventato” storicamente per stare assieme, con i nostri interessi diversi, a volte opposti, si sta disgregando proprio quando ne avremmo maggior bisogno: più conflitti e meno “colla” che ci tenga assieme, risultante in un moto accelerato che rischiamo di non controllare più.
Chi mi segue su questo blog sa cosa io pensi della relazione tra i due. Per riassumere: sono convinto che dagli anni sessanta in poi si sia preparata la strada per un modello di crescita economica individuale, scevra da ogni controllo sociale, basata su regole da far west. Far soldi, tanti e subito, con qualsiasi metodo, togliendo di mezzo gli eventuali freni, tipo gli Stati e le loro istituzioni, il sistema di welfare e diritti e tutto il resto. Se vogliamo metterci una data ufficiale, eccola: Febbraio 1971, dichiarazione del Presidente Nixon che rompe la parità dollaro-oro. A questo seguì l’ondata neoliberale di Reagan e della Thatcher e le decisioni di Bush senior che aprirono la mercantilizzazione della natura con la No Net Loss policy.
Credo che, se siamo arrivati al punto attuale, con l’acqua che sta iniziando a bollire, questo non necessariamente sia il diabolico disegno di un Grande Vecchio (tipo le BR), ma il risultato logico e coerente di scelte di politica economica e politica tout court che sono state prese decenni orsono, soprattutto da chi aveva in mano il volante principale. Preme ricordare che, vedendo gli stessi meccanismi all’opera in Cina, non si tratta di un antimericanismo da quattro soldi. La febbre aveva e ha preso tutti quelli che stanno ai piani alti della governanza mondiale.
Il fatto che queste scelte abbiamo arricchito solo una parte minima della popolazione, non cambia il senso, anzi lo irrobustisce. La nostra classe media europea si è formata dalle lotte del dopoguerra e ha potuto cominciare a beneficiarne a partire da quello stesso periodo; proprio quando si cominciava già a erodere le sue basi da sotto, per portarci al nostro presente attuale. Un presente fatto di erosione di tutti i diritti conquistati, di precarizzazione del lavoro, di progressivo impoverimento di strati sempre più vasti della popolazione e di una degradazione accelerata delle risorse naturali.
Se invece di guardare a pezzetti, cercassimo di guardare l’insieme, non credo arriveremmo a posizioni molto diverse. Ci siamo persi per strada l’uomo come parte integrante del pianeta, come animale sociale, per lasciar filar via un uomo economicus forgiato sul principio del tutto a me e nulla agli altri.
Il punto diventa quindi di capire se esista una volontà di cominciare a pensare al come venirne fuori. Una volontà che vada al di là degli sforzi che possiamo fare a livello individuale e/o di piccola comunità. Una volontà che si materializzi ai piani alti della struttura di governanza di questo mondo.
E lì il dubbio, periodicamente, mi assale. Quando guardo con attenzione gli interventi che vengono fatti in casi di emergenza, di disastri creati dall’uomo e da conflitti, sento come un gusto amaro in bocca. Mi sembrano sempre trattamenti che toccano la superficie del problema, l’immediatezza del bisogno, ma che quasi mai scendono in profondità. Come se a nessuno interessasse realmente intervenire sulle cause dei problemi. Caso tipico riguarda le “ondate” di migranti: le nazioni unite parlano di 65 milioni di sfollati e rifugiati (e non ci sono dubbi che si tratti di numeri destinati a aumentare) https://www.unhcr.it/news/comunicati-stampa/newscomunicati-stampa3024-html.html 
L’abc di un mondo diverso dovrebbe essere quello di partire dal riconoscimento dei diritti storici che le comunità locali hanno sulle loro risorse naturali. Lo stesso meccanismo attraverso il quale si è formata la proprietà privata dalle nostre parti, insomma, niente di comunista. Riconoscere quei diritti, in modo da dire una verità semplice, ma che neghiamo nei fatti da parecchi decenni: che le comunità agricole e forestali del sud del mondo debbano essere considerate non più come oggetti, ma come soggetti. Soggetti attivi, con diritti e doveri, ma ai quali non si possono imporre scelte con la forza del cannone o del dio mercato. Soggetti che diventano parte attiva di meccanismi diversi, più dialogati e inclusivi, per le scelte che riguardano loro e il resto della comunità nazionale.
Questo, nella realtà, non succede quasi da nessuna parte. Abbiamo sperato che una piccola alleanza di fatto fra settori progressisti dentro le nazioni unite e dentro le organizzazioni contadine, permettesse l’emergere di questo tipo di dibattito. Porre le vere domande per cominciare a discutere la costruzione di scenari futuri. Non ci siamo riusciti, e l’impressione, sempre quell’amaro in bocca, è che il gusto del potere, pur se piccolo, abbia preso radici anche all’interno di quelle organizzazioni.
Dentro le nazioni unite esistono ovviamente tendenze diverse, e quelle dominanti non possono essere espressione di qualcosa di diverso da quello che gestisce il mondo. Quindi se i paesi individualmente non hanno voglia di riconoscere i diritti ancestrali delle popolazioni indigene o delle comunità locali, non ci si può stupire che le nazioni unite non lo facciano. Il consenso sul quale si basano le NNUU è sempre quello del minimo denominatore, non quello del massimo comune multiplo. Spingere dall’interno è sempre stata la mia scelta, spesso e volentieri solitaria. La speranza era di riuscire a far squadra con altri colleghi, dentro e fuori, con organizzazioni che, al di là degli interessi di bottega immediati, percepissero la necessità di aprire un cantiere più ambizioso. 
La mia speranza più grande è stata quando il Papa ha pubblicato l’enciclica Laudato Si. Un documento molto più progressista (nel suo insieme) di gran parte delle deliberazioni delle nazioni unite. Un documento che spingeva la base cattolica attraverso le sue organizzazioni, verso una rivoluzione culturale, dove accanto al Progetto Uomo, base delle filosofia cattolica, si installava, a pari grado, il Progetto Natura. La ricerca di un equilibrio, quella tensione verso l’alto poteva (potrebbe?) essere il possibile punto di partenza. Ma non se ne fa nulla. Anche le organizzazioni cattoliche italiane con cui sono in contatto da tempo, e alle quali ho offerto la mia disponibilità su questi temi, non sembrano affatto muoversi, sia nel preparare una propria capacità analitica al livello necessario, sia nel cominciare a sperimentare questo nuovo impeto sul terreno. Dentro la nostra agenzia, ma credo valga in maniera più ampia, il fatto che un documento del genere venga dalla Chiesa pone problemi, soprattutto a livello degli operativi che non vogliono sporcarsi le mani con attori che considerano più come un problema che come una risorsa.
E allora andiamo avanti: facciamo studi superficiali, continuiamo a portare aiuti alimentari, medicinali e quanto altro serva nell’immediatezza, ma restiamo fuori dalle questioni di fondo. In questo modo noi rubiamo ai popoli del sud anche il protagonismo sul loro futuro. 
Nessun conflitto negli ultimi decenni è finito e si è risolto in modo definitivo grazie alle nazioni unite. Ricordiamocelo bene. Gran parte di quelli che consideriamo risolti, hanno avuto protagonisti diversi. Sono pochissimi purtroppo anche quei casi lì, e questo dovrebbe farci riflette, ancora una volta, sulla volontà ai piani alti, di voler attaccare seriamente questo problema. Io oggi sono di luna storta, e le mie conclusioni sono che a chiacchiere siamo bravissimi, ma quando poi si tratta di metterci sul serio a lavorare, allora spariscono tutti. Peggio ancora, non appena qualche segnale comincia ad apparire, confermando che la nostra scelta di puntare su dialogo, negoziazione e concertazione si sta rivelando utile, allora arrivano in tanti a metterci il cappellino sopra. La solita vecchia storia: la vittoria ha tanti padri e la sconfitta uno solo. Peccato che in questo caso, la sconfitta riguardi tutti noi, perché se l’acqua bollente dei conflitti comincia a trasbordare fuori dalla pentola, ce la troviamo in giro anche per casa nostra. 




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