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venerdì 16 giugno 2017

Mai dire mai


Onestamente, se un giorno mi avessero detto che anch’io avrei apprezzato un lavoro della Banca mondiale avrei pensato che stessero scherzando. La Banca ha molti difetti, soprattutto quello di una cultura da banchieri (tautologico) per cui chi mette i soldi deve poter decidere. Anticamente, nella preistoria della cooperazione allo sviluppo chi raccattava i soldi poi li passava alle agenzie tecniche delle NNUU in modo da non aver nessuno conflitto di interesse. Poi venne l’epoca quando la Banca decise di applicare la filosofia che noi veneti chiamiamo del FTM (Faso Tuto Mi).
Il FTM prevede che, dopo una fase iniziale in cui aiuti gli altri a imparare a fare le cose bene come solo tu sai fare, ti rompi le balle e ti dici: ma va la’, pantalon’, dame qua che faso tuto mi. A volte si termina con un “xe mejo”. Ma il succo resta lo stesso. I risultati non necessariamente sono migliori, ma quel che è sicuro è che non insegni nulla all’altro, che di fatto neghi persino nella sua esistenza e lo rimandi ai primordi della vita civile.

Ecco quindi la Banca decidere di fare tutto lei, prosciugando le fonti finanziarie di gran parte delle agenzie NNUU. Con gli anni abbiamo visto come questo sia riuscito a coagulare numerosissimi gruppi in opposizione alle direttive calate dall’alto, finché oramai lavorare per la Banca vuol dire far parte di un mondo diverso, Hotel a 5-6 stelle, rapporti pre-digeriti con approcci standardizzati e ideologizzati in favore del Dio mercato.

Detto questo, come ogni organizzazione, esistono degli spazi più o meno grandi di dibattito interno. Il livello di discussione può essere alto o basso dipendendo non tanto dalle capacita eruditive o di citare libri o articoli di altri specialisti, ma dipenderà molto dalle capacita di ascolto dell’altro, di chi la pensa diversamente, insomma, dalla capacita di empatia e di “andare verso l’altro”. Su questo tema per esempio, non credo che la situazione sia migliore all’interno die movimenti contadini (almeno per quanto li conosco). La tendenza a privilegiare un consenso ideologico é sempre stata molto forte, e il livello di aperture mentale con chi la pensa diversamente è sempre stato un limite, di cui sono stato testimone in prima persona.

A casa nostra, nella organizzazione che mi dà il pane, direi che negli anni abbiamo visto restringersi questi spazi: il gap fra il detto e il fatto si è andato ampliando, per cui come succede nelle elezioni dei paesi occidentali, la gente (i colleghi) si è stancata di partecipare a momenti di retorica assoluta e autocelebrativa.

Nel mio piccolo, io ho cercato di spingere per avere discussioni vere, prendendo in parola i vari slogan che nel tempo hanno segnato le mode “partecipative”, “inclusive”, di “rispetto delle opinioni altrui” etc. Come ho già avuto modo di scrivere, questo ha significato aprire dei fronti di combattimento contro un senior management che nella realtà ha sempre avuto poca voglia di confrontarsi sulle questioni di fondo. Dato che mi occupo di questioni legate alle risorse naturali, al loro accesso, uso e gestione, nonché, tramite colleghi dell’ufficio legale, delle questioni dei diritti, consuetudinari o statutari, delle dimensioni di genere etc.etc., l’evoluzione verso una attenzione maggiore a chi fossero questi molteplici attori interessati a disputarsi risorse sempre più scarse,  mi ha portato, pian piano, ad interessarmi alle parti grigie, ai non detti. Intendo dire alle questioni di fiducia, credibilità e, soprattutto, alle dinamiche di potere e le asimmetrie esistenti nel mondo del sottosviluppo.

Le mie critiche, da quasi un ventennio, portavano sul fatto che promuovere generici approcci partecipativi in condizioni di alta (e forse crescente) asimmetria di potere fra i vari attori, non fa altro che perpetuare, con parole più moderne, quelle stesse dinamiche di sfruttamento che, a parole, diciamo di combattere.

Ecco perché, con prudenza ma fermezza, abbiamo cominciato a chiarire che i nostri approcci, si differenziavano dalle mode del tempo proprio perché stimolavano l’organizzazione ad entrare in questi temi delicati, usando il nostro potere di convocatoria per cercare di portare avanti die processi che prima che interessati alle dimensioni tecniche, fossero centrati sugli esseri umani. Quelli che, volente o nolente, fanno e disfanno i territori del cui sviluppo ci preoccupiamo.
Queste cose pero non basta dirle, bisogna farle sul serio, sia nei progetti sia nella vita professionale quotidiana. Vi ho già raccontato come, a causa di un tentativo di riequilibrare asimmetrie enormi sulle questioni dei diritti fondiari in un paese africano, mi sono ritrovato in panchina, PNG, per due anni. Non fosse stato per il mio direttore dell’epoca, sarei andato a piantare patate nell’orto ben prima di adesso.

Provai ad essere coerente anche dentro l’organizzazione, e cioè ad attaccare quelle asimmetrie di potere interno che, nei fatti, erano (e sono) un freno a un vero lavoro ben fatto, con empatia e professionalità e pro-attivismo, sul tema dello sviluppo. Mi hanno consumato a fuoco lento, ma proprio adesso che sto contando i giorni che mi mancano, ecco arrivare un segnale dalle stelle.

La Banca mondiale ha pubblicato il suo rapporto mondiale sullo sviluppo. Lo apro solo perché una collega mi ha detto di farlo, e che ne valeva la pena. Non vi dico la sorpresa quando ho trovato nella sintesi e nei messaggi principali del documento, una specie di Bibbia che esce annualmente, dettando di fatto l’agenda di gran parte delle istituzioni internazionali, esattamente quelle stesse preoccupazioni che io e miei ragazzi portiamo avanti da ben oltre un decennio.
Non saremo riusciti a farle diventare pane quotidiano interno, anzi alla fine mi ritrovo a pensare a cosa seminerò nel mio orto invernale fra pochi mesi, ma almeno ho il piacere dolce-amaro di vedere che altrove, qualcuno ha cominciato a prendere sul serio queste preoccupazioni. E adesso vado ad aprire una bottiglia, alla faccia di chi so io.

Per chi legge l’inglese, ecco i punti salienti della mia felicità:

Why are carefully designed, sensible policies too often not adopted or implemented? When they are, why do they often fail to generate development outcomes such as security, growth, and equity? And why do some bad policies endure? This World Development Report 2017: Governance and the Law addresses these fundamental questions, which are at the heart of development. Policy making and policy implementation do not occur in a vacuum. Rather, they take place in complex political and social settings, in which individuals and groups with unequal power interact within changing rules as they pursue conflicting interests. The process of these interactions is what this Report calls governance, and the space in which these interactions take place, the policy arena

Main messages:
 Ineffective policies can persist, while potentially effective policies are often not adopted. The World Development Report 2017: Governance and the Law explores why some policies fail to achieve desired outcomes and what makes other policies work. The main messages of the WDR 2017 are:
  • Successful reforms are not just about “best practice.” To be effective, policies must guarantee credible commitment, support coordination, and promote cooperation.
  • Power asymmetries can undermine policy effectiveness. The unequal distribution of power in the policy arena can lead to exclusion, capture, and clientelism.
  • Change is possible. Elites, citizens, and international actors can promote change by shifting incentives, reshaping preferences and beliefs, and enhancing the contestability of the decision making process.
  • Three guiding principles for rethinking governance for development are:
    1. Think not only about the form of institutions, but also about their functions.
    2. Think not only about capacity building, but also about power asymmetries.
    3. Think not only about the rule of law, but also about the role of law.

Magari per voi queste piccolo gocce non significheranno nulla.. ma posso garantirvi che per me contano più di una medaglia.

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