Sto lasciando Giakarta, con un mix di sensazioni, dopo una settimana molto intensa. Siamo venuti su richiesta del governo per capire un po’ meglio il loro programma di “riforma agraria” e, se possibile, trovare forme per aiutarli.
L’Indonesia è un mondo di tantissimi gruppi etnici, fra grandi e piccini se ne contano un migliaio, per cui non stupisce che si parlino oltre 400 lingue diverse, anche se col Bahasa si va più o meno dappertutto. La vicinanza con le Filippine li rende un po’ simili a loro, e così differenti dai Thai. Molto più affabile sorridenti, non hai mai la sensazione che dietro un sorriso di facciata nascondano una irritazione di fondo per la tua presenza.
Isole, grandi e piccole, fanno di questo paese un qualcosa di difficile da capire. I massacri (genocidio) ordinato dal golpista Suharto nel 1965, che costarono la vita ad almeno 500 mila militanti comunisti, ha segnato il paese per lunghissimi decenni. Il potere è stato nelle mani militari fino al 1999 ma, come spesso succede, il ritorno alla democrazia è stato molto di facciata e ancora poco di sostanza. Il potere vero, quello economico, e finanziario, resta saldamente in mano di forze nazionali e internazionali che, nel tempo, si sono fatte furbe. Ecco perché, a differenza dei casi classici latinoamericani, la terra non è quasi mai in mani “formalmente” private, ma resta statale, con concessioni che di fatto limitano il rischio, sociale ed economico, delle imprese.
L’Indonesia è, essenzialmente, una foresta. L’isola centrale ha seri problemi di sovrappopolazione per cui, da tempo, è iniziata una politica di migrazione interna promossa dal governo, che installa famiglie povere e poverissime in altre isole, ovviamente senza interessarsi granché delle popolazioni indigene locali. Senza entrare troppo nella storia, basti ricordare che ancora oggi, direttori generali di ministeri chiave del presidente Jokowi, un “progressista” agli occhi occidentali, negano l’esistenza di “indigeni” (e quindi di tutte le loro lotte per i diritti sulle terre), sostenendo che siamo tutti indigeni, per cui non esiste nessuna necessità di un trattamento particolare per loro.
Da decenni la lotta di questi ultimi è proprio per far riconoscere la loro esistenza, dato che le terre o sono dello stato o sono dei privati. Ma, come dicevo prima, meno del 3% sono in mano private per cui si può parlare di un quasi monopolio statale. L’eredità coloniale sta alla base di questa concezione, che non è mai cambiata negli anni. Di conseguenza, al non trovare uno sbocco semplice, le lotte dei movimenti pro-indigeni, si sono cristallizzate sul concetto di proprietà statale e proprietà privata. Dopo anni di lotta, nel 2012 sono riusciti a far iscrivere all’ordine del giorno una Constitutional Rule, approvata l’anno seguente col numero 35, che riconosce alle terre delle comunità indigene lo status di proprietà privata.
Da lì ne discende un obbligo per lo stato di identificare queste foreste, delimitarle e darne la titolarità alle comunità. Facile immaginare le resistenze interne, anche dentro quello stesso governo attuale che promette una riforma agraria a favore dei più poveri.
Per questo ci hanno chiesto di venire, per vedere se abbiamo qualche idea per velocizzare il processo. Le resistenze sono coalizzate su due fronti: da un lato, il più duro, riguarda l’emissione di regolamenti (by law) da parte dei capi distretto che riconoscano l’esistenza delle comunità e quindi diano l’avvio al processo di identificazione territoriale.Questi regolamenti vengono raramente emessi perché una volta che la terra esce dal controllo locale, loro perdono una possibilità di fare business, pulito o meno che sia. Inoltre, solo per arrivare a richiedere l’emissione di questi regolamenti, sono necessari una serie di studi e documenti, fra cui la mappa del territorio richiesto, che prendono molto tempo e risorse alle ONG già povere di suo. Connesso a questo problema, politico istituzionale, viene il tema della precisione mappale.
L’Indonesia è un paese che ama produrre mappe. Ogni ministero ne ha, e più di una. Essendo le mappe una concretizzazione dell’informazione, e quindi del potere, nessuno vuole scambiarle con gli altri. Le specifiche tecniche sono diverse, ecco per cui a parte i concessionari privati, che usano tecnologia satellitare all’avanguardia e quindi sanno tutto, ogni 24 ore, di cosa succede sulle loro foreste, il governo non ha un’idea chiara di nulla. Spinti dalla banca mondiale, da anni cercano di mettere assieme una sola mappa, col programma che si chiama proprio One Map. Prima di vincere le resistenze ci vorranno ancora molti anni, ma nel frattempo si sta arrivando a un accordo sulla scala richiesta quando si presenta una mappa per richiedere un titolo, concessione o altro. La scala è 1:50,000, maggiore di quanto sia in uso normalmente. Inoltre ci si sta dirigendo verso l’uso delle cosiddette stazioni totali, apparecchiature topografiche moderne, care, ma di alta precisione. Il rischio quindi è che tutto il lavoro fatto dalle ONG per presentare le richieste delle comunità indigene non vada bene e sia da rifare, non solo verificare come sarebbe scritto nella legge. Le ONG argomentano che il materiale è troppo caro, ma onestamente l’operazione ha un senso, dato che la precisione nei dati evita futuri contrasti.
Le nostre riflessioni sono iniziate da questo punto. Il collo di bottiglia tecnico e istituzionale, secondo noi potrebbero essere affrontati assieme, con una strategia, che ho proposto al mio capo missione, basata su lavori portati avanti durante parecchi anni in Angola e Mozambico. Da un lato, per evitare l’emissione lunga e complicata di un regolamento nuovo per ogni comunità, cosa che rischierebbe di intasare i già poco efficienti uffici locali, si potrebbe pensare a un meccanismo di verifica sociale, dove siano i vicini, comunità o individui, a “garantire” che il territorio di cui stiamo parlando è da molti anni gestito dalla comunità richiedente. I vicini di fatto parteciperebbero all’esercizio di delimitazione territoriale, e nei vari punti del confine, le coordinate verrebbero controfirmate sia dalle autorità comunitarie che da quelle dei vicini. In questo modo, con un diagnostico rapido, ma garantito dai vicini, si riesce a dare una validità storica alla comunità richiedente, evitando i tentativi di manipolazione da parte di pseudo-comunità costituite da concessionari privati che in quel modo avrebbero accesso ad ulteriore foresta. L’altro aspetto, per quanto riguarda la qualità delle mappe e il materiale da usare, il nostro suggerimento è di far partecipare i tecnici del governo al momento della verifica finale di terreno; loro verrebbero con i loro strumenti, il che garantirebbe la qualità da loro desiderata, nonché la giustezza delle coordinate dei punti di confine che sarebbero misurate da loro stessi e controfirmate dalla comunità e dai vicini.
Questo tipo di esercizio è abbastanza veloce e assicura un buon livello di inclusione. Oltretutto permette, al momento di studiare il territorio con i membri delle comunità, di dare un spazio loro alle donne, in modo che vengano fatte delle mappe mentali sia degli uomini che delle donne separatamente. In questo modo si stimolano anche le donne a dare la loro opinione, sul territorio, il suo uso e altri problemi. Alla fine i due gruppi vengono messi assieme e si discute fino ad arrivare alla mappa territoriale consensuale. Fondamentale in questo esercizio è di accertarsi che non ci siano conflitti in corso, altrimenti tutto il processo si fermerà non appena si andranno a misurare i punti contestati. Va detto che in questi venti anni e passa di lavoro fatto, non abbiamo mai avuto problemi di questo tipo. Ovviamente anche perché abbiamo scelto di iniziare in zone tranquille, per far conoscere l’approccio, mostrare agli uni e agli altri che possono lavorare assieme, in modo da creare quella fiducia iniziale che è il capitale fondamentale di tutte operazioni di sviluppo.
Vedremo che andrà a finire. Nei prossimi giorni e settimane tornerò sull’argomento. Chi volesse saperne di più troverà sul sito FAO la nostra pubblicazione su Participatory Land Delimitation.
La riflessione continua.
Aggiungo anche alcune foto delle riunioni, così magari mi ricorderò le loro facce in futuro... comincio con le ONG, AMAN, la più grossa rete nazionale in favore dei popoli indigeni, il loro oramai ex capo che adesso corre per un posto di governatore, e il responsabile Asia della Land Coalition, un buon amico.
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