Post 6: Emergono i servizi ecosistemici.
(i post precedenti sono tutti nel mese di luglio)
Noi vecchi eravamo cresciuti sentendo parlare di una cosa chiamata biodiversità. A dire il vero, ai tempi dell’università, questa parola nemmeno esisteva dalle nostre parti. C’era un professore che insegnava una cosa strana, ecologia, ma il 99% di noi studenti di agraria non avevamo idea di cosa fosse. Si cresceva così, poi i casi della vita ti portano a conoscere un tipo, poi un altro e finisci che cominci a capire la centralità del tema.
Biodiversità: un bene comune da difendere, dato che la nostra stessa vita dipende dal suo mantenimento. Conobbi uno spagnolo impegnato 24 ore al giorno a portare avanti queste lotte. Pepe era (ed è) il suo nome. Mi fregio di poter dire di essere amico suo. Pepe riuscì perfino a portare questi temi dentro la FAO e a farne uno dei grandi successi di sempre di questa organizzazione, attraverso il Trattato internazionale sulle risorse fitogenetiche e l’alimentazione (http://www.minambiente.it/pagina/trattato-internazionale-sulle-risorse-fitogenetiche-lalimentazione-e-lagricoltura)
Imparammo pian piano ad essere guidati da due principi molto semplici: il rispetto della vita in tutta la sua diversità e la necessità di gestirla in termini di bene comune. La biodiversità era un sistema, complesso, difficile da capire in dettaglio, sia in tutte le sue componenti che nelle loro tantissime interazioni. Le parti non si addizionano, ma si moltiplicano. Temi complicati, che avrebbero bisogno di essere insegnati fin dalle scuole elementari. Era una bella favola, cominciare ad occuparsi seriamente della biodiversità fuori dagli intrighi di potere e dalla dominazione neoliberale del mondo.
Ci volle del tempo, ma il dio mercato arrivò anche da quelle parti. Con l’arrivo del nuovo millennio l’operazione sostituzione concettuale poté compiersi e un nuovo jargon iniziò a sostituire la biodiversità: il verbo dei servizi ecosistemici. Fummo ingenui, come capita a tanti, per cui all’inizio seguimmo anche noi il pifferaio magico. Venivano aggiunte delle piccole specificazioni ai principi precedenti. Dettagli che sembrano innocui, e noi, non ricordandoci gli insegnamenti del saggio Andreotti, ci abbiamo messo del tempo a capire che il diavolo si nascondeva nei dettagli.
Il primo diavoletto riguardava il principio del rispetto per la vita: si aggiungeva la postilla dell’utilità per gli umani. In questo modo, come capimmo dopo, cambiava diametralmente la prospettiva: nella filosofia della biodiversità noi agiamo per proteggere la biodiversità come un sistema, un valore assoluto. Adesso invece noi diventiamo l’oggetto da proteggere, per cui della biodiversità rispettiamo (solo) quello che serve a noi (e il resto?). La giustificazione deriva direttamente dalle politiche di aggiustamento strutturale: soldi non ce ne sono, bisogna concentrarsi sulle priorità, e cosa più prioritario di noi esseri umani? Ecco quindi il bisogno di scegliere, nel mare magnum della biodiversità, cosa sia più importante adesso e cosa possa attendere. Tutti i dubbi degli specialisti che spiegavano come la biodiversità sia un sistema di interazioni, che non riusciamo a capire e meno ancora a modellizzare, venivano spazzate via e sostituite dalla filosofia del “ghe pensi mi”.
Da questo ne discende, oh che sorpresa, la proposta di monetizzare la natura, per rendere più facile la transazione (oh, scusate, la protezione) dei servizi ecosistemici che la natura mette a nostra disposizione.
Corollario da ripetere: io decido che alcune componenti dell’ambiente sono importanti per noi umani, le altre e le loro interazioni, che non capisco perché troppo complicate, le lascio perdere, domani si vedrà.
Diventiamo noi il deus ex-machina: d’improvviso ci ergiamo a decisori finali di cosa meriti di essere protetto e cosa no. Ci facciamo Dio. E il mercato è lì per aiutarci.
La sostituzione terminologica tra biodiversità e servizi ecosistemici può essere capita meglio col grafico che mostro qui sotto, che illustra come dal 2005, quando i servizi ecosistemici diventano oggetto del Millennium Assessment, il numero di articoli pubblicati, che servono di supporto al lancio mondiale del tema, è aumentato in maniera iperbolica. Guardatevi e soprattutto ascoltate attorno a voi: ogni volta che sentirete parlare di questi temi, la parola d’ordine è servizio ecosistemico. Se qualcuno parla ancora di biodiversità di sicuro è un/a comunista.
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Qualcuno di voi conosce la speciesbanking.com? Sono banche speciali, del futuro, verrebbe da dire: si comprano e vendono azioni relativi a pezzi di ecosistemi da salvaguardare. Due domandine: a chi c..o verrebbe in mente di mettere soldi per comprare un’azione del Bakersfield Cactus (Opuntia Treleasei) specie in pericolo in California? In altre parole, cosa ci guadagno a mettere soldi miei dentro questo fondo? O sono un altruista speciale oppure questa domanda ha un senso. Seconda domandina: qualcuno mi sa spiegare le interazioni di questa Opuntia col resto dell’ecosistema dove vive? Cioè se io caccio soldi miei per “proteggerla”, cosa mi garantisce che sto aiutando a proteggere tutto l’ecosistema? E cosa succede con tutte le altri parti dell’ecosistema che non sono sul mercato?
La seconda domanda non vale un c…o, perché tanto non frega niente a nessuno di conoscere tutte le interazioni e soprattutto è troppo complicato “vendere” al cittadino lambda una protezione generica di un ecosistema, questo perché non sappiamo valutarlo nel suo complesso. Siamo ignoranti, ma non vogliamo ammetterlo.
La prima domanda rimanda al meccanismo di cui parlavo nel post numero 3: la compensazione. Quello che guadagno è legato ai danni che farei da qualche altra parte. Comprando buone azioni posso andare a far cazzate altrove.
Domandina finale del giorno: ma oltre alle piante e animali, arriveremo un giorno a trovare che queste “banche” mettono in vendita anche popolazioni indigene da proteggere? Risposta: penso che gli Human Bonds non siano molto lontani.
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