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domenica 20 agosto 2017

Cile: una rappacificazione ancora inconclusa


Questa settimana ci sarebbero state vari spunti da commentare, legati o meno all’attualità quotidiana. Ovviamente l’attentato di Barcellona verrebbe in testa alla lista, ma non è di quello che voglio parlare. Ho già scritto parecchie volte su questi temi e pur comprendendo tutta la retorica sul fatto che questi “terroristi” vogliono cambiare le nostre libertà e il nostro modo di vivere etc. etc., non posso fare a meno di pensare che il “nostro” modo di vivere è fatto di intromissioni continue a casa d’altri, per andarci a prendere tutto quel che ci serve, non solo le risorse naturali ma anche le risorse umane di qualità da impiegare nei settori dove siamo deficienti. In fin dei conti, ricordo, siamo “noi” ad avere le basi militari imposte a casa loro, che siano francesi, americane e, fra poco, anche cinesi, e non viceversa. Siamo noi ad andare a prendergli, con le buone o con le cattive, l’uranio, il petrolio e gas, le foreste e tutto il resto. Quindi quando sento i leader europei, in particolare la sopravvalutata Merkel, dire che non cambieremo il nostro stile di vita per colpa loro, allora penso che dobbiamo prepararci a un futuro fatto di attentati più frequenti e disperati. 

Comunque su questo non voglio dilungarmi. Non parlerò nemmeno del film documentario che ho guardato ieri sera, (des abeilles et des hommes) sul difficile rapporto tra le api e il mondo umano. Ricordo solo che varrebbe la pena vedere questo documentario solo per i pochi minuti girati in Cina su quello che si preannuncia come il futuro prossimo: in una regione dell’interno, a forza di trattamenti chimici in agricoltura, hanno fatto sparire tutte le api. E quindi, direte voi? Ebbene, a quel punto non resta che l’impollinazione manuale. Uno a uno, fiore per fiore, i contadini vanno a spargere il polline. Auguri a questa umanità che ci stiamo preparando.

Allora, andiamo al tema del giorno, anzi, del passato, quasi remoto per molti giovani.

Un vecchio amico cileno, Octavio S., che guida con buoni risultati l’istituto nazionale incaricato di aiutare i piccoli contadini, ha preso parte a una cerimonia in ricordo dei 50 anni della legge di riforma agraria fatta dal governo democristiano Frei nel lontano 1967. Dopo tre anni gli successe Allende, che radicalizzò la riforma agraria, con risultati alquanto dubbi va detto, e tutto si fermò lì perché gli americani organizzarono un colpo di Stato, guidato formalmente da Pinochet ma orchestrato dal Dipartimento di Stato di Kissinger (un terrorista quindi?).

Sono passati 50 anni, grazie al cielo Pinochet è morto e sepolto, ma altrettanto non si può dire delle ferite profonde che dividevano e dividono ancora adesso il paese.

La riforma agraria, come ha scritto un conosciuto esperto locale, ha rotto gli antichi equilibri quasi pre industriali sui quali si reggeva il Cile. Una società quasi settecentesca basata sul concetto onnicomprensivo della Hacienda, un modello produttivo ma anche di rapporti umani ben gerarchizzati, con una libertà quasi nulla per chi stava in basso e con qualsiasi diritto in mano a chi stava sopra, ovviamente includendo il ius primae noctis quando gli andava. Insomma era un paese feudale, che il residente precedente, Alessandri, sulla scia dell’Alleanza per il Progresso di Kennedy, aveva cercato di cambiare, facendo anche lui una riforma agraria stile gattopardesco, cioè in modo che nulla cambiasse. La sua riforma passò alla storia come la riforma del macetero, dei vasi da fiori, tanto piccoli erano i pezzetti di terra espropriati e dati ai contadini. Nessuno si è mai sognato di farne un anniversario, perché il Cile di prima e dopo era rimasto lo stesso.

Dovette arrivare un democristiano per rompere tutto ciò. L’uomo di mano fu Rafael Moreno che se ne occupò per tre anni, diventando così uno dei nemici storici, combattuto ancora oggi, dalla destra sciovinista nostalgica dell’epoca, e poi, arrivato Allende al potere, diventato senatore e feroce oppositore della continuazione dell’opera portata avanti da altre teste pensanti, come Jacques Chonchol, ministro dell’agricoltura di Allende.

Sta di fatto che il sistema di relazioni industriali, con le sue violenze ma anche con le sue dovute aperture al mondo, entrò in Cile e il paese non fu più lo stesso. Belli i discorsi che sono sati fatti, dalla Presidente Bachelet ad altri, interessanti i commenti sui giornali, e più ancora i commenti, in particolare quelli letti sul Mercurio, il giornale che fu il braccio intellettuale in appoggio al colpo di stato.

Al di là dei pregi e difetti di quel processo, che in realtà furono due e ben diversi, è impressionante notare come, 50 anni dopo, e con uno sviluppo che ha comunque rafforzato una classe media, anche se ancora precaria, ha dato impulso all’economia del paese, una attenzione all’ecologia sempre più pronunciata  

Poche settimane fa, il ricordo di quegli anni e di quelle trasformazioni riuscì a mettere assieme, sullo stesso palco, sia gli eredi di Frei, Rafael Moreno in primis, sia quelli di Allende, nella persona di Jacques Chonchol. La Società Nazionale di Agricoltura ne ha approfittato (http://www.sna.cl/wp/wp-content/uploads/2016/06/Reforma%20Agraria%2050%20anos.pdf) per riproporre un discorso degno degli anni della dittatura. La cosa incredibile non è tanto il rivendicare i privilegi storici che la casta agricola cilena pensa di aver perso, ma il fatto che trovi ancora una eco forte nella società. 

Mi hanno fatto pensare quei commenti pieni di un livore che ritorna dal passato, come fosse ieri. E per fortuna che il paese sta economicamente meglio di quel periodo. Insomma non si soffre la fame, anzi il Cile è un paese che ha fatto molti progressi, anche se resta ancora indietro su tanti temi legati ai diritti delle donne e al diritto ad una educazione pubblica universitaria di qualità. Quanto ai popoli indigeni, magari avrebbero qualcosa da ridire, ma resta il fatto che sforzi enormi sono stati fatti dai governi di centro sinistra, della Concertaciòn, per fare pace fra gli uni e gli altri. Eppure, cinquanta anni dopo, grattando sotto la superficie, il fuoco bolle ancora.

Per chi, come me, lavora sul tema die conflitti e post-conflitti, è un segnale da prendere in serissima considerazione. La nostra esperienza professionale più lunga, il Mozambico, dove abbiamo iniziato ad occuparci del tema agrario fin da subito dopo la firma degli accordi di pace nel 1992, ci ricorda che la situazione è quanto mai precaria ancora oggi, e che il rischio che si ritorni a prendere in mano le armi è più vivo che mai. 

Il Cile ci porta a una dimensione storica ancora superiore, e alla necessità di non considerare conclusi processi che di fatto hanno orizzonti storici ben più lunghi. 

Tutte le evidenze disponibili portano a considerare che gli anni a venire saranno anni di conflitti crescenti, in gran parte legati alle risorse naturali anche quando ci si spalmi sopra una mano di vernice religiosa. Al fondo è uno scontro di civiltà che si profila, ma non come lo intendeva Huntington: si va verso uno scontro fra una visione del mondo dominata da una casta ridotta di esseri umani, che usano tutti gli strumenti possibili nonché quelli nuovi che inventano ogni giorno (in particolare il mondo della finanza, assicurazioni catastrofe e quanto altro) per appropriarsi di quanto rimanga di buono su questa terra. Da una parte stanno loro, organizzati anche se in competizione reciproca, e dall’altro troviamo tutti gli altri, tanti e divisi su tutto: ecologisti, animalisti, sinistrorsi, nazionalisti e quanto vogliamo metterci.

Il tutto si gioca su un terreno di scontro, l’ambiente di questa terra, che, comunque vada a finire, resisterà a noi e sarà ancora qui, diverso, mezzo distrutto, quando noi avremo compiuto il hara-kiri finale.

Il caso cileno mi ha fatto pensare a quanto sia difficile per noi esseri umani fare un gesto di umiltà e riconoscenza verso gli altri. Se 50 anni non sono stati sufficienti, e 25 anni non lo sono in Mozambico per calmare gli spiriti ardenti, mi vien da pensare a quante poche speranze abbiamo davanti a noi. I paesi del Nord non sono più capaci di avere un orizzonte etico e di valori da portare ad esempio nel mondo, ma anzi reimportiamo l’odio verso il differente, lo sfruttamento sempre più forte, come se fossero questi i veri valori fondanti di una società. 


Un tempo avevamo sogni ed energia per lottare credendo a un futuro migliore, e ci credevamo come collettività. Oggi siamo qua, individui persi davanti ai nostri schermi di computer, a raccontare la fine della speranza. Non è un bel giorno.

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