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venerdì 20 aprile 2018

Lettera aperta ai tanti giovani e non più giovani con cui ho lavorato in questi anni

Cari,

il mio ruolo di “padrino” dell’approccio territoriale basato su dialogo, negoziazione e concertazione, fin dal lontano 2001, mi obbliga, in un certo senso, a continuare a stimolare la riflessione, mia e vostra, per pensare a assieme quale mondo vogliamo aiutare a costruire, con le forze limitate di cui disponiamo.

La mia lotta, che ho proposto a tutti voi, è sempre stata basata sul provocare cambiamenti nell’orientazione filosofica e operativa dell’organizzazione per la quale molti di noi hanno lavorato o lavorano tutt’ora. 

Negli anni ho visto crescere la mia sfiducia nei partiti politici intesi come organizzatori delle istanze cittadine. Li ho visti trasformarsi in strumenti di potere, indipendentemente dal loro colore politico e dimenticare tutti i principi che li fondavano non appena arrivavano potere.

Ho osservato anche la scarsissima propensione della nostra organizzazione a interessarsi di temi fondamentali che, anzi, venivano proprio banditi dal lessico istituzionale. Parlo ovviamente della questione del potere, delle sue asimmetrie e dinamiche. L’idea che si potesse ridurre la povertà e l’insicurezza alimentare evitando di toccare i centri nevralgici del potere mi sembra un controsenso totale, direi quasi un ossimoro. La FAO, per ragioni imposte (dai paesi membri, in particolare - ma non solo - del Nord) e per ragioni autonomamente privilegiate dagli amministratori e manager interni, ha scelto di restare nel campo della tecnica, coltivando il sogno dell’aumentata produzione agricola che, da sola, avrebbe risolto i problemi dell’umanità.    

Negli ultimi decenni ci sono stati dei segnali di risveglio, manifestando un interesse crescente per il tema dei diritti. In questo filone si inseriscono iniziative interessanti, come il trattato per le risorse fitogenetiche, il dritto al cibo e, più vicino a noi, le direttrici volontarie per la buona governanza (VGGT). Sforzi intensi, anni di lavoro, che si sono risolti con prodotti finali acclamati dai paesi membri ma con una traduzione pratica nella vita di tutti i giorni molto limitata.

Nel contempo abbiamo visto crescere, in numero e quantità, i conflitti legati alle tante risorse naturali (terra, acqua, aria, sabbia, risorse genetiche, minerali del sottosuolo …). Guardando da vicino ci siamo resi conto che i vecchi paradigmi Nord-Sud o Pubblico-Privato o Capitalismo-Comunismo non erano sufficienti per spiegare cosa stava (e sta) succedendo e soprattutto non fornivano indicazioni sul come venirne fuori.

E’ anche cresciuta la sensibilità ambientale ma anche lì non si riesce a capire cosa concretamente la nostra organizzazione abbia da proporre agli Have-Nots, i dropouts , insomma gli esclusi di sempre. Si sono puntate le luci sul tema dell’agricoltura ecologica, ma ancora una volta si è rimasti a giocare all’interno del cortile delle tecniche, e mai della politica e del potere.

Abbiamo anche constatato come i movimenti contadini abbiano perso quell’aura mistica di cui godevano 10-20 anni fa, notando più le loro assenze sul terreno quando li cercavamo per proporre loro delle alleanze, piuttosto che notare un loro attivismo che non si vede più.

La risposta che abbiamo iniziato a elaborare nel lontano 2001, fu quella di una visione dello sviluppo meno centrata sulle tecniche e sulle capacità di super esperti esterni, e più attenta alle dinamiche sociali, interattive e a volte, spesso, conflittive, fra una serie di attori e portatori di interessi a volte divergenti.

Di fatto abbiamo proposto una visione più complessa della realtà circostante, e questo ha significato un lavoro lento ma costante per far capire ai nostri colleghi, il perché fosse necessario ampliare l’orizzonte di osservazione. Molti dei colleghi FAO (e in altre agenzie) di fatto non sono interessati a queste tematiche, semplicemente perché considerano il loro lavoro alla stregua di qualsiasi altro per cui basta farlo bene, nei limiti del proprio sapere, e poi sicuramente qualcosa di buono succederà. Nel mondo reale non succede questo. Nel mondo reale ci sono forze in azione per continuare a concentrare la ricchezza (di avere, sapere e potere) in sempre meno mani. Si spinge per ridurre gli spazi di democrazia, si distrugge il medio ambiente e si sfruttano quelli che stanno sotto. Sono dinamiche all’opera a tutti i livelli, per cui non andiamo a fare la lista dei buoni e dei cattivi, perché non finiremmo mai. 

Mettere l’essere umano al centro dell’attenzione di chi si occupa di sviluppo significa accettare l’ambivalenza umana di essere, nello stesso momento, portatori di interessi individuali e attori di uno sviluppo comunitario. Siamo fatti così e il primo punto è stato, per noi “territorialisti”, di accettare questa ambivalenza e lavorare dentro questi limiti.

A questo si somma l’ovvia differenza che ci portiamo dietro tutti quanti. Vogliamo cose diverse in momenti diversi perché siamo diversi dalla nascita. Non credo sia possibile, nemmeno qui, fare una lista di cosa sia buono e cosa non lo sia, al di là dell’enunciato di grandi principi. 

Queste diversità si riscontrano in quello che facciamo eni nostri spazi d’azione, piccoli, medi o grandi: cerchiamo di ottenere dei risultati in linea con le nostre aspettative e per questo siamo disposti a cedere su alcune cose. Ognuno però avrà un’idea diversa e, presi singolarmente, tutti considereranno che le loro aspettative sono buone sia individualmente che per la collettività.   

Da questi preamboli siamo partiti per costruire una riflessione in divenire marcata, negli anni, dalle pubblicazioni che voi tutti conoscete: il PNTD nel 2005, l’IGETI nel 2012, il GreeNTD nel 2016. Questi momenti chiave sono serviti a riassumere lo stato delle nostre riflessioni, e non possono certo considerarsi come dei punti finali.

Dal PNTD al GreeNTD la grande differenza è che abbiamo potuto sottolineare con maggior forza la questione centrale del potere. Ripeto, parlare di Potere dentro una Organizzazione che non vuole che si parli di questo e con Capi e Direttori che mai hanno appoggiato queste riflessioni. 

Abbiamo anche iniziato una riflessione, chiaramente incompiuta, sulla questione centrale delle dinamiche di genere. Non possiamo avere al centro delle nostre riflessioni l’essere umano e non approfondire cosa significhi oggi le discriminazioni multiple per ragioni di genere.

Insomma, ci sono delle tematiche da portare avanti, ma anche da sviscerare con maggiore attenzione fra di noi. 

Alcuni anni fa, Chris e Marianna hanno pubblicato un documento dal titolo molto evocativo: When the Law is not enough. Si riferiva al lavoro portato avanti in Mozambico per rafforzare il ruolo dei Paralegali come agenti di sviluppo oltreché facilitatori di dialogo e conoscenza della legislazione fondiaria. 

La riflessione deve partire da questo interrogativo: quando la legge non è più sufficiente, cosa fare?

I progetti tipici che la FAO porta avanti (non necessariamente i nostri) si basano sull’idea di fornire ai governi una assistenza tecnica, delle esperienze comparate di successo per poi lasciar decidere loro cosa sia meglio nel loro paese specifico. Si dice voler promuovere una collaborazione rispettosa della storia, cultura e tradizioni locali, senza volersi imporre, ma nello stesso tempo si evita di entrare nel tema del potere.

La domanda che non ha mai avuto risposta dai miei capi e direttori in questi quasi trenta anni FAO è sempre stata la stessa, ripetuta con maggior veemenza da quando sono state approvate le VGGT: per quale ragione un attore potente (un HAVE nella lingua di S. Alinsky), capace di controllare parti rilevanti del potere sociale, economico, culturale e altro, dovrebbe spontaneamente accettare di spartire questo potere con gli HAVE-NOT? Posso capire che chi crede in un Dio possa pensare che, come Paolo sulla strada di Damasco, di colpo ci si possa pentire di quello che si è fatto e si voglia cambiar vita, ma al giorno d’oggi sulla via di Damasco si rischia solo di prendere bombe in testa originate da una parte o dall’altra.

Il dilemma che le VGGT si sono portate dietro è proprio questo: l’essenza delle VGGT è stata copiata pedissequamente dal tipo di lavoro che facevamo noi sul terreno, Mozambico, Angola, ma togliendo di mezzo la parte che disturbava i poteri forti della FAO e dei paesi membri. Il nostro lavoro è sempre stato basato, pur senza conoscerlo, sui principi del community organizing cari a S. Alinsky, cercando di trovare qualcosa a livello locale che permettesse di far partire il dialogo, la negoziazione e poi concertare un patto territoriale. Ma noi andavamo oltre, e su questo sentiamo di essere più avanti di Alinsky. Questo lavoro con le comunità di fatto serve a creare capitale sociale, credibilità, che va spesa successivamente su temi più controversi, in modo da alzare il tiro.

La fiducia che ci siamo costruiti a livello locale è servita per aprire un dialogo a livello governativo, per far sì che cambiassero le politiche e le leggi. Abbiamo litigato con ministri, ma li abbiamo portati a confrontarsi con le loro popolazioni, e dei passi in avanti sono stati fatti. Se ci fossimo limitati a lavorare con le comunità, nulla di durevole sarebbe stato piantato. Usando invece il capitale sociale della fiducia per provare ad aprire tematiche delicate come l’accaparramento delle terre, la necessità di migliorare le politiche e le leggi, abbiamo svolto in pieno, a mio giudizio, quello che ci si aspetta da una agenzia delle nazioni unite. Le politiche e le leggi sono state scritte localmente e non dai nostri esperti, ma cosa ancor più importante, dietro questi documenti si è rafforzata una società civile che adesso si difende - bene o male - da sola.

Quando la legge non è più sufficiente ci dice proprio questo: bisogna pensare al di là della legge (o del documento di politica). Bisogna far sì che le asimmetrie di potere inizino a ridursi, per questo abbiamo lottato tanto per far riconoscere la figura dei Paralegali, dei Facilitatori di dialogo che non si limitano a ricordare gli articoli di legge, ma che possono aiutare a intavolare uno scenario di sviluppo dove gli attori più deboli siano non solo riconosciuti, ma accettati al tavolo di negoziazione in quanto portatori di visioni e interessi importanti.

Io me ne sono andato, e adesso tocca a voi continuare la lotta. Devo dire onestamente che vi trovo un po’ fiacchi intellettualmente. Non vedo passare nessun documento di riflessione, non sento parlare di nessuna riunione per discutere di questi temi fuori dalla quotidianità di cosa farò domattina. Magari le mie paure sono esagerate, ma forse no. Non possiamo nasconderci dietro la quantità di lavoro che abbiamo, perché sappiamo benissimo, quando ci guardiamo allo specchio, che non è questa la ragione. Noi tutti abbiamo una responsabilità verso tutti gli HAVE NOT, siamo Nazioni Unite e abbiamo la possibilità (e il compito) di pensare e proporre qualcosa per il futuro. 

Alinsky è stato un buon inspiratore per molti decenni, con lui abbiamo molti punti in comune ma, penso io, anche delle riflessioni più avanzate. Credo che, partendo da quanto abbiamo fatto in questi anni, e da una lettura critica di quanto scritto da Alinsky, sia possibile portare avanti la nostra riflessione, verso una “governance” delle risorse naturali che, finalmente, cominci a toccare gli interessi in gioco.


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