Una settimana in Francia, senza telefono e internet, mi hanno permesso di dimenticare il chiacchiericcio nostrano sul futuro governo, e concentrarmi sull’enfant prodige tanto caro a Eugenio Scalfari e a Matteo Renzi: il buon Macron. A forza di leggere gli inviti scoprissimo di Scalfari al nuovo eroe transalpino, mi ero anche chiesto se, tornando a casa, non avrei trovato in edicola una nuova versione del quotidiano più Bo-Bo che abbiamo in Italia, con il nuovo nome “La Repubblica in Marcia”.
Il giochetto è sempre lo stesso e lo si fa in Italia così come in qualsiasi altro paese del mondo. Contando sull’ignoranza crassa di chi legge i giornali o ascolta i dibattiti televisivi, si citano a sproposito casi di altri paesi, leader magnifici e esempi fulgidi a cui dovremmo ispirarci. Basta poi andar a guardare più da vicino e allora si scopre come il folto gruppo degli esegeti esteri si divida fra quelli che vanno un po’ a caso e a naso, magari sbagliandosi senza dolo, e quelli stile La Repubblica che portano avanti un disegno politico molto chiaro e dove gli esempi scelti sono mirati a rafforzare le loro tesi e null’altro.
Nel caso in questione, basta leggere un po’ di giornali d’Oltralpe, ascoltare qualche dibattito e soprattutto stare fra la gente e sentire cosa ne pensano loro, per capire come la trasformazione che il Presidente dei ricchi, come è abitualmente chiamato in Francia, abbia in mente ha molte similitudini, nello stile del potere, con il tanto dissacrato Vladimir Putin. La verticale del potere sta diventando la passione di questi non-leader (noi lo abbiamo sperimentato con l’avventuriero di Rignano) che non sopportano quello che il giovane Berlusca chiamava il teatrino della politica. Cioè l’insieme dei corpi intermedi ce, in una qualsiasi democrazia occidentale, sono parte essenziale della vita democratica. Dai partiti ai sindacati e alle associazioni di categoria, i centri studi, le fondazioni varie, insomma tutto ciò che organizza il consenso o dissenso su temi specifici, settoriali o generali, con i quali bisogna “perder tempo”, discutere, negoziare e concertare. Le tre parole chiave che descrivono i nostri sistemi democratici nati nel dopoguerra e che hanno permesso di ridurre gli eccessi dello sfruttamento padronale, evitare gli estremismi in politica e nelle scelte di indirizzo economico. Dialogo, negoziazione e concertazione: i pilastri che ho portato anche all’interno del mio lavoro alle Nazioni Unite, proprio per il loro valore intrinseco e atemporale.
Sono pilastri che non piacciono a Putin, ovviamente nemmeno ai lire cinesi, o a Maduro e gente simile a lui. In Europa ne abbiamo già di pseudo-lider che odiano profondamente questi pilastri, il più noto è quell’orbai che dovrebbe essere rieletto ancora una volta oggi, spingendo sempre più l’Ungheria nel baratro del nuovo fascismo. Ma finché erano questi “lider” a centralizzare il potere nelle loro mani, eliminare qualsiasi forma di dissenso e stabilire un legame diretto tra il Capo e il suo Popolo, era ovvio per tutti noi, democratici, che si trattava di una deriva tipica della destra più retriva. Peccato che abbiamo assistito alla stessa deriva, partendo da livelli diversi ovviamente e con contrappesi di altro livello, sia in Italia che in Francia. Il carattere monarchico della repubblica presidenziale francese ha facilitato il giochetto di Macron, al quale avevano preparato il terreno quella casta di lire del partito socialista che sono riusciti nell’impresa di farlo sparire dal radar.
Macron ha vinto le elezioni con una piccolissima percentuale di francesi che hanno votato per lui; questo si tende a dimenticarlo. Aveva di fronte il Fronte Nazionale, contro il quale il vecchio Chirac aveva fatto l’80% dei voti. Macron è andato poco oltre i due terzi dei votanti e, come segnalato da tutti i commentatori, in un contesto dove l’astensionismo ha raggiunto livelli record dal 1969 (25%) e le schede bianche (12%) hanno stabilito il nuovo record assoluto. Insomma, Macron ha creduto di ricevere un assegno in bianco dalla maggioranza dei francesi, assegno personale, non trasferibile, per cui si è disegnato una maggioranza che non ha nessuna base ideale a parte di essere a lui dedita, un governo dove il primo ministro ha la sola funzione di fusibile e dove alla fine decide tutto lui. L’opposizione essendo abbastanza disgregata, ha fatto patire il treno delle riforme (quelle di Bruxelles per capirci) a tutta velocità. Gli è andata bene all’inizio, con la riforma del lavoro e allora, ebreo della sua fortuna, si è lanciato in una riforma del trasporto ferroviario che, come dicono gran parte dei commentatori adesso, è stata mal preparata, mal pensata e ancor peggio presentata.
La tensione monta in Francia perché Macron non può permettersi nessun passo indietro, altrimenti crolla tutto il castello che si è auto costruito attorno a sé. Ma nemmeno i sindacati possono permettersi grandi passi indietro perché il perno della riforma che ha in mente Macron non c’entra nulla con i problemi di fondo della SNCF, ma è fondamentale per Bruxelles e per tutti i neoliberali del mondo: togliere lo statuto speciale di cui usufruiscono gli cheminots francesi, cioè tagliare il sistema di diritti nato dalle lotte di lunghi decenni e che resta ancora uno dei pochi esempi di quel Welfare State che hanno nel mirino i sodali di Macron. La SNCF ha oltre 50 miliardi di debiti, creati dallo Stato che ne è proprietario, e questo impedisce qualsiasi progetto di rinnovo. Non ci sono soldi per rinnovare il materiale, non si investe sulle linee periferiche insomma la solita panoplia di decapitalizzazione che serve a preparare il terreno al settore privato.
La speranza ovvia di qualsiasi demarcata, in Francia e altrove, è che Macron esca sconfitto da questa lotta, ma a esser sinceri non ne siamo sicuri perché il potere ha in mano praticamente tutti i mezzi televisivi e giornali (a parte Mediapart e Le Canard Enchainé tutti gli altri giornali sono di proprietà di grandi gruppi finanziari, e lo stesso vale per le televisioni). La battaglia si combatte molto attraverso la comunicazione, ma i social hanno un ruolo ridotto perché gli cheminots non sono i millennials, sono persone di mezza età e oltre che pensano a lavorare piuttosto che a chattare. I pochi spazi disponibili nei dibattiti servono per presentare quali sono i veri punti del programma di Macron, ben diversi dall’esegesi dei giornali padronali. Il partito socialista ovviamente è scomparso per cui sono rimaste le tante anime frammentate a sinistra ad appoggiare lo scontro. Se non altro ben dodici sigle (da Melenchon in là) di questa sinistra si sono unite nel loro appoggio allo sciopero. In parallelo sono iniziati anche gli scontri nelle Facoltà, originati ancora una volta dalla fretta di Macron nel voler portare avanti una riforma nei criteri di selezione all’ingresso che è osteggiata da moltissimi studenti. E’ bastato poi che uno dei dirigenti scolastici facesse entrare un gruppo di picchiatori fascisti per mettere ancor di più benzina sul fuoco. La paura del governo è che questi movimenti si saldino, soprattutto perché i giovani sanno usare l’arma della comunicazione meglio degli cheminots. Speriamo bene.
Fermare Macron è un atto di civiltà!
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