Anticipo le eventuali critiche e/o commenti ai vari post precedenti, tutti scritti sulla falsariga di una critica profonda del modello economico nel quale ci siamo infilati, capace solo di creare ricchezza per una porzione molto limitata di umanità, mentre nel contempo spinge non solo alla periferia masse crescenti, ma ha anche dei costi ecologici che pian piano cominciamo a considerare inaccettabili.
Capiamoci bene: non sono contro lo sviluppo tecnologico, il progresso e quanto altro, sono fondamentalmente contro i meccanismi discriminatori che portano acqua a un solo mulino. Mi preoccupa come questo modello economico stia virando su una finanziarizzazione di gran parte dei nostri aspetti vitali chiave, sono ancor più preoccupato della dominazione culturale che sta prendendo piede, e del lasciarsi prendere al gioco da parte di una fetta crescente dell’umanità. Ovviamente sono super preoccupato con quello che ho visto durante oltre trenta anni di frequentazione di paesi del sud e di poteri forti, del nord come del sud, pubblici come privati, di sinistra come di destra, che progrediscono sulla pelle di chi sta sotto. La distanza progressiva che si è instaurata tra i partiti di sinistra, europei e non solo, aspetto ai valori fondanti della “sinistra”, è ovviamente la base di tutto questo. Dal consenso di Washington in poi, la sinistra europea e anglosassone, ha cambiato strada, accettando di fatto la dominazione neoliberale come la unica via verso il progresso dell’umanità. Tutte le elucubrazioni delle “terze vie”, di Clinton, Blair e dei nostri piccoli emuli italiani, partivano tutte dalla accettazione del paradigma governativo dentro la forma mentis neoliberale. Il risultato è stato quello di portare, quasi dappertutto, la sinistra a sparire dall’orizzonte politico.
Criticare è necessario ed è doveroso, soprattutto quando il modello economico che i nostri governanti adorano è quello per cui quasi la metà della popolazione mondiale vive in condizioni di povertà (assoluta e relativa). Se è vero che il mondo è solo uno, allora le condizioni relativamente buone di cui godiamo, noi classe media italiana, sono in parte anche pagate da chi sta ai piani inferiori. Ricordiamocelo.
Criticare quindi, ma anche leggere cosa sta succedendo nel mondo e cominciare a proporre un modo operativo. Io e tanti amici e giovani che hanno lavorato con me, abbiamo iniziato quasi venti anni fa una ricerca di metodi e obiettivi che potessero esseri portati avanti da agenzie specializzate delle nazioni unite e anche da governi “progressisti”. Chi mi conosce ha già letto tutto nei post precedenti, per cui mi limito a ricordare la sintesi filosofica: ripartire dal basso, dal tentativo di ricostruire quel patto sociale che è oramai in fase di rottura sia nei paesi del sud come del nord e foriero quindi di conflitti in aumento dappertutto.
Come ripartire? Le parole chiave per noi sono sempre state: dialogo, negoziazione e concertazione. Il diagnostico di base è l’aumentata perdita di fiducia tra chi sta sopra e chi sta sotto. Lo abbiamo visto anche a casa nostra, e questa separazione oramai è anche lessicale, non si parlano più le stesse lingue. E quindi non ci si può più capire.
Ho visto ieri il film Come un gatto in tangenziale, che mi ha ricordato, per certi aspetti, il tema di Caterina va in città: La sinistra intellettuale, la gauche caviar parigina, oggi rinominati i Bo-bo, che sbandiera chiacchiere ugualitarie e una retorica di parole oramai spente, tutti presi dai loro cocktail nei quartieri chic, tutti alla ricerca di na poltrona, di uno strapuntino di potere da cui sproloquiare sui poveri e dropouts che stanno sotto. Poi ti incroci con una Paola Cortellesi qualsiasi, una urina perfetta nel film, e pian piano (ma solo nei film capisci che tu, quella gente là sotto, non la conosci più, perché non l’hai mai frequentata.
Ricostruire fuori dai partiti, questo sembra un assioma. I partiti come li abbiamo conosciuti stanno morendo, e qualcosa dovrà pure sostituirli se non vogliamo lasciare in mano ai teorici della verticale del potere, marconisti o penta stellati, il nostro futuro.
Noi insistevamo sulla necessità di cambiare paradigma filosofico per la nostra organizzazione (la FAO): basta mettere in avanti i super tecnici e pensare sempre e solo in termini di soluzioni tecniche e tecnologiche ai problemi della povertà e della fame. Bisogna ripartire dall’uomo, dal suo relazionarsi sociale, in positivo e negativo ovviamente, per cercare ricostruire tessuto sociale. Noi funzionari FAO dovevamo diventare dei facilitatori di dialogo (il che non esclude le competenze tecniche, occhio!), per riportare a un tavolo (ideale) le varie parti a parlarsi, ad ascoltarsi e a interesse rapporti di dialogo, negoziazione per arrivare a quelli che chiamiamo dei patti territoriali socio-ecologici.
Fuori dalla FAO per ragioni note, sto cercando cosa ci sia in giro per continuare questa riflessione e, per caso, sono arrivato a leggere un articolo di un pericolo mensile troppo di sinistra secondo molti amici miei (Le Monde Diplomatique) dove ho trovato un articolo intitolato “Far politica con la rabbia”. Inutile dire che mi ci sono ritrovato completamente (cosa che non stupirà nessuno dei miei amici).
Scopro così un altro agitatore sociale dal quale è possibile ispirarsi e i cui scritti stanno ispirando delle riflessioni nella Francia non sottomessa: Saul Alinsky. Metto qui sotto alcuni degli aspetti emblematici del suo lavor, che ha ispirato molto Bern Sanders nell’ultima campagna e che è attualmente oggetto di studio in Francia come dicevo. In Italia, che io sappia, zero assoluto, ma penso che gli amici di Potere al Popolo potrebbero fare uno sforzo in questa direzione vero Massimo? (manderò questo posta un caro amico vicentino per provocarlo un po’).
“I miei critici hanno ragione quando mi chiamano un “Outside Agitator”. Quando una comunità è disperata c’è bisogno di qualcuno che venga ad agitare le acque. Questo è il mio compito” (S.Alinsky). Saul Alinsky fu uno dei più influenti capiscuola dell’estrema sinistra americana.
IDEE
Autodeterminazione. Nelle sue iniziative Alinsky metteva sempre al centro del tentativo organizzativo l’autodeterminazione della comunità. Era la comunità che doveva farsi avanti e chiedere il supporto organizzativo di Alinsky; era sempre la comunità a dover individuare i propri obiettivi e i propri leader. L’organizzatore vi metteva il know-how tecnico, non imponeva i suoi punti di vista o le sue idee, non era lì «per guidare, ma per aiutare e insegnare». Secondo questo approccio, le comunità che volevano organizzare un progetto di riqualificazione dovevano temporaneamente avvalersi dell’esperienza di Alinsky e dei suoi collaboratori, per poi continuare l’azione da soli. Per questo Alinsky proponeva un contratto con un termine prestabilito: tre anni al massimo, «altrimenti si sarebbe creata una dipendenza».
Nei quartieri. Con questo spirito organizza moltissime comunità e s’impegna, soprattutto negli anni Sessanta, a fianco della gente di colore che combatte la discriminazione razziale nelle scuole, nei quartieri, sul lavoro. Il metodo di Alinsky ruota attorno a cinque elementi fondamentali, che vanno contestualizzati in azioni di confronto o anche di scontro acceso tra minoranze sociali e potere economico-politico, volte al riconoscimento di diritti e di potere decisionale, al cui sbocco, qualunque sia l’esito, vi sarà un maggiore empowerment comunitario.
La strategia. Ecco alcuni punti essenziali del suo pensiero e della sua strategia d’azione. Alinsky punta in primis su una forte leadership e su processi decisionali strutturati. I gruppi devono affrontare pressioni e crisi che richiedono decisioni rapide e obiettive. Per Alinsky, inoltre, le vere organizzazioni democratiche possono svilupparsi solo in unità spaziali limitate — come un quartiere — in cui esistano dei legami naturali di unità e identificazione. La democrazia, sostiene, può essere realizzata solo organizzando le persone a combattere per avere più potere. Le organizzazioni di quartiere sono viste, di fatto, come «i sindacati dei senza potere». È fermamente convinto che le tattiche tradizionali, conservatrici, utilizzate dalla maggior parte dei gruppi di pressione, siano costose e inadatte per organizzazioni di poveri che, prive di risorse finanziarie e di influenza politica, possono raggiungere i loro obiettivi soltanto mediante l’utilizzo di strategie non violente, creative e militanti. Alinsky, infine, è consapevole che tutti i movimenti rivoluzionari nascono da valori spirituali e dalla fede nella giustizia, nell’uguaglianza, nella pace e nella fratellanza. Tuttavia, è ferocemente contrario alle organizzazioni ideologizzate. Le considera antidemocratiche, perché partono non solo da ideali, ma anche da obiettivi e strategie preconcette. «Lasciate che la gente decida — affermava —, non importa cosa decide, l’essenza della democrazia è il poter decidere. Imporre un’ideologia progressista è controproducente e non necessario».
E adesso sotto a leggere e poi torneremo a scrivere qualcosa.
Mr G, siamo in un momento di crisi morale – la crisi morale della umanità è gravissima. Ci tocca criticare senz’altro, e cercare di questionare questi sistemi che promuovono la ineguaglianza. … E come aveva detto Einstein, “l’importante è non smettere di fare domande”.
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