Quando quelli della mia generazione erano piccoli, sentivano periodicamente parlare della “fame nel mondo”. Che fosse in Chiesa, nei telegiornali o a scuola, almeno una volta l’anno ci veniva ricordato questo gran problema, senza che poi si approfondissero le cause e/o possibili soluzioni. La carità era vista come una forma di aiuto che tranquillizzava le menti cattoliche, mentre il mondo scientifico preferiva presentare queste masse di affamati come causati dalle siccità e/o dalle guerre, tipo quella del Biafra. Si preferiva non approfondire, perché questo avrebbe costretto a guardarsi nello specchio e chiedersi quante fossero le nostre colpe rispetto a quel mondo che stava morendo.
Siamo diventati grandi e moderni, e quando le masse affamate sono tornate d’attualità, questa volta sono stati i raduni musicali, i vari LiveAid, a prendere in mano i sentimenti occidentali e sublimarli sempre attraverso la carità che veniva però elargita non alle chiese religiose ma al mondo del rock che poi avrebbe trovato modo di far qualcosa nel Sud del mondo.
Il punto comune era sempre lo stesso: non voler guardare le ragioni profonde di quei problemi e limitarsi a una compassionevole superficialità.
In tela di fondo si voleva sperare e pensare che le agenzie delle nazioni unite si occupassero loro di questo problema.
La mia traiettoria personale mi ha portato un po’ casualmente a interessarmi seriamente di questi problemi, dei quali all’università di agraria di Padova non si parlava nemmeno per sbaglio. L’insegnamento era tutto centrato su una visione della modernità tecnologica e chimica, per mostrare quanto noi (cioè quelli del nord del mondo) fossimo capaci di produrre sempre di più. Non ce ne rendevamo conto, ma sotto sotto la filosofia che reggeva questa visione era quella di un nord ricco e capace di aiutare (cioè fare la carità) a quelli del Sud che fra guerre, siccità e arretratezza tecnologica non sapevano tirare avanti da soli. Una forma di razzismo strisciante che veniva da secoli di credenze sulla superiorità dell’uomo bianco, pian piano edulcorata e pulita dai suoi elementi più infami, ma che comunque continuava ad essere l’asse portante del nostro sistema economico.
Noi portavamo lo sviluppo a quelli del Sud, che si trattasse di agricoltura o altro. Quelli del Sud dovevano solo esserci grati e non fare tante storie.
Nel frattempo, studiando prima e lavorandoci dal di dentro poi, ho cominciato a capire come e perché le agenzie ONU e le grandi cooperazioni dello sviluppo nazionali, non riuscissero a toccare minimamente le ragioni strutturali di questi problemi. La questione agraria, mai capita dai partiti comunisti al governo in tanti paesi del nord e del Sud, aveva il suo cardine nella diseguale ripartizione delle risorse chiave, come la terra, e nel non riconoscimento dei diritti dei popoli che su quelle terre ci vivevano da secoli. Josué de Castro lo aveva scritto, spiegando il come e il perché fin dal 1946, con il suo libro la “Geografia della fame” dove, prendendo a spunto la fame cronica nelle campagne del nordest brasiliano, ci spiegava, lui medico, come la struttura latifondista, cioè la terra in mano a pochi, era la causa strutturale delle carenze minerali, proteiche ed energetiche di cui soffrivano i tanti poveracci ridotti a mangiare terra.
De Castro fu anche presidente del Consiglio della FAO negli anni 50, e credo che quella esperienza chi permise di capire perché quella organizzazione non voleva o meglio, non poteva, affrontare seriamente quei problemi. La storia l’ho raccontata in dettaglio nel mio libro A Manà, quindi non starò qui a ripetermi, ma il sunto è che i rapporti di forza nel mondo reale, si trovavano anche all’interno delle nazioni unite, addirittura ingigantiti nel nostro caso dato che all’ovest non si voleva toccare i privilegi dei latifondisti perché erano loro a comporre le classi dirigenti corrotte che erano tanto amiche dei nostri governanti, mentre a est non si voleva democratizzare le campagne perché i piccoli contadini erano considerati dei rimasugli storici da eliminare.
Si preferì così credere che la modernità tecnica, tecnologica e chimica avrebbero permesso di eliminare la fame nel mondo, non volendo vedere che la questione era più profonda e complicata. La FAO fece quanto le venne chiesto, la fame non venne mai debellata, la povertà nelle campagne aumentò così come il progressivo degrado delle risorse naturali. L’invasione del nord nelle terre del Sud, iniziata all’epoca delle colonie, continuava senza nessun freno, dato che i governi erano al nostro soldo e non esistevano forze organizzate dalla parte delle masse contadine. Anche lì dove venivano fatte le “rivoluzioni socialiste”, in pochissimo tempo la situazione peggiorava, dato che, come spiego da anni, il mondo socialista non ha mai capito i contadini per cui le prime misure che prendevano erano sempre contrarie agli interessi contadini e cioè la collettivizzazione e organizzazione delle masse contadine in aziende comunitarie su criteri industriali. Il genocidio compiuto in Unione Sovietica contro i contadini ucraini (e non solo) non era conosciuto, per cui trovavi ancora tanti giovani illusi che pensavano che la forma di organizzazione socialista delle campagne avrebbe risolto il problema della fame, diversamente dal mondo capitalista.
Né gli uni né gli altri risolsero granché, e finirono, come vediamo oggigiorno, a praticare le stesse politiche invasive nei confronti del Sud: prendersi tutto quello che serve a casa loro, lasciar lì il pattume e le scorie, e un degrado delle risorse naturali che cresce ogni giorno.
Il disboscamento dell’Amazzonia ci attira molto, ancora una volta perché un cantante ci si è messo di mezzo. Ma quanto succede da decenni (per non dire secoli) nelle foreste africane, sembra non interessare granché la nostra meglio gioventù.
A un certo punto la FAO, forse rendendosi conto che non riusciva a scalfire minimamente le basi strutturali della fame e povertà nelle campagne, per la sua riluttanza ad affrontare seriamente la questione fondiaria, si mise a lavorare sull’agricoltura urbana. Il messaggio per me fu chiaro fin dall’inizio: dato che non riusciamo a fare nulla per aiutare i contadini/e nelle loro zone di origine, aspettiamo che siano costretti a migrare nelle zone urbane e quel punto diamo loro dei suggerimenti su come produrre meglio. Era un modo di arrendersi, di far capire che mai la FAO avrebbe cercato di attaccare i problemi alla radice.
Per una serie di casualità, malgrado le resistenze interne, sia a livello della nostra unità tecnica, guidata da uno dei servi del capitalismo, sia a livelli più alti, dove un Direttore Generale africano, che capiva meglio di tanti altri il problema di fondo ma non aveva la forza (e gli appoggi) per spingere in quella direzione, grazie alla spinta di un paio di paesi, Filippine e Brasile, la questione fondiaria ritornò al centro dell’attenzione. Vorrei dire mondiale, ma in realtà il boicottaggio organizzato dal Nord, via Banca mondiale e Unione Europea (che a quei tempi comprendeva la Gran Bretagna), fece sì che di questa Conferenza (2006, Porto Alegre) si parlasse molto meno di quanto fosse necessario.
I mesi seguenti misero in chiaro chi comandava realmente, e delle buone intenzioni nate dalle discussioni e negoziazioni con governi e movimenti contadini, non rimase nulla. L’attenzione venne spostata su un tema artificiale e periferico, gestito dal Nord, con basi ideologiche studiate a tavolino nelle università americane. Da allora non si è più parlato del problema fondiario, ma di vaghi e volontari impegni dei paesi (del Sud, perché quelli del Nord erano quelli che dettavano l’agenda) a migliorare i loro comportamenti, essere meno corrotti, più trasparenti etc. etc. Insomma: tre padrenostri e siete assolti da tutti i peccati.
Che l’aria stesse cambiando si sentiva da tempo: l’incapacità dell’insieme di attori della cosiddetta cooperazione allo sviluppo di riuscire a cambiare, anche minimamente, le ragioni strutturali della povertà nelle campagne del Sud, non solo non risolveva il problema, ma faceva sì che il “problema” trovasse altri sbocchi: conflitti, guerre, degradazione ambientale e sociale e migrazioni. E all’ora nacque la nuova passione del Nord: le Emergenze. Noi italiani, con la nostra storica esperienza in materia, un paese dove non si fa mai nulla di strutturale per anticipare e limitare i problemi, preferendo aspettare l’ultimo minuto e la fortuna (che aiuta gli audaci), avevamo un know-how non da poco, e così ci siamo buttati a capofitto nel nuovo gioco.
I donatori hanno spostato i soldi dallo “sviluppo” alla “emergenza”, chiamandola sotto vari nomi, ma sempre quella è. E se i soldi vanno in quella direzione, tutti seguono quel fiume, dalle università, alle Ong, agenzie Onu, Cooperazioni allo Sviluppo e chi più ne ha più ne metta.
Ovviamente le regole del nuovo gioco sono sempre le stesse: non toccare i problemi strutturali (tipo la questione dell’accesso, uso e diritti sulle risorse naturali), ma per il resto potete fare quello che volete. Lamentarsi che si fa poco e che servirebbero più risorse è una delle regole implicite: è doveroso lamentarsi, così da mantenere il contribuente del nord sempre sotto la pressione emotiva che deve spingerlo a vedere l’urgenza (di fare la carità, come tante Ong ci chiedono ogni giorno in televisione, fuori dai supermercati o in piazza) senza mai chiedersi perché non si vada a toccare le ragioni strutturali.
La scomparsa della questione fondiaria (e più in generale delle risorse naturali) dal dibattito e dall’agenda dello “sviluppo”, ha lasciato spazio a un’altra dimensione che permette di deviare le energie giovanili. La questione ambientale, nata in America a causa delle modalità escludenti con ci venivano fatti i parchi naturali (tipico il caso di Yellowstone) e cioè escludendo le popolazioni locali che da sempre vivevano e interagivano con la natura in quei territori, è diventata d’attualità nel 1979 con l’incidente nucleare sfiorato a Three Miles Island (da noi, di rimbalzo, credo che sia stato il film a farci conoscere il problema, fuori dal giro di quei pochi che se ne interessavano). Poi ovviamente Chernobyl nel 1986 e da lì in poi è stato un crescendo, con Fukushima che ha messo la ciliegina sulla torta. Un problema visto come tipicamente del nord, legato al nucleare e che, dopo decenni di discussioni e lotte, non ha portato a nulla, soprattutto per quanto riguarda la questione di: dove vanno a finire le scorie nucleari.
Pian piano anche la tematica del cambio climatico, che ci arriva ancora una volta dal mondo degli specialisti, si è inserita nel dibattito, mescolando in un mix di cui è difficile capire il contenuto, nucleare, riscaldamento, gas serra, e … molto ma molto raramente, modello agricolo dominante. Mentre sui primi temi, nucleare e riscaldamento, troverete frotte di giovani che hanno un’opinione e si interessano (alla superficialità) del problema, non si sente più nessuno interessarsi all’ultima parte e cioè a quel modello agricolo (agri-business, multinazionali del legno …) che è figlio di una struttura agraria basata sul dominio del nord (non più solo occidentale), di settori pubblici, privati e della finanza sulle popolazioni e i territori del Sud.
Volessimo sul serio occuparci di questi problemi, dovremmo, come dico da decenni, interessarci alle radici profonde (la FAO adesso adora parlare di “root causes”, ma senza occuparsene) dei problemi, fuori da logiche emergenziali che non portano mai a nulla, e cominciare a costruire delle alleanze politiche che permettano a delle azioni alla base di cambiare strutturalmente queste situazioni. Noi abbiamo dimostrato, da una posizione marginale all’interno della FAO, che facendo alleanza con Ong, Università, organizzazioni contadine di donne e uomini, e con l’aiuto di donatori, fosse possibile far cambiare idea in maniera strutturale a un governo (con una nuova politica e una nuova legislazione e un decennio di formazione verso tutti gli attori e attrici della messa in opera di quelle misure) così da riconoscere non solo il diritto ancestrale alla terra, ma anche il diritto di esser presenti nelle negoziazioni con qualsiasi investitore volesse intervenire nel loro territorio. Quindi, è possibile.
Ma se continuiamo a nuotare in superficie, potremo fare tante discussioni, tante marce, scrivere libri, appelli, fare film etc. etc. ma non servirà a nulla. È dal basso che bisogna iniziare, dalla democratizzazione della struttura fondiaria. Una volta lo slogan era: Riforma agraria subito! Adesso possiamo aggiornarlo, dicendo: Democratizziamo le campagne del Sud e del Nord! Il che vuol dire riconoscere i diritti e farli rispettare (penso ovviamente al nostro referendum sull’acqua, di cui non sento mai parlare dalla coalizione di centro-sinistra guidata da Letta), a casa nostra e a casa loro.
Lo spazio democratico tende a ridursi nel mondo, ma è da lì che bisogna ripartire. Dalle basi. E alla base resta ancora il problema di fondo, sempre quello, come ce lo diceva dal 1946 il buon Josué: la terra!
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