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sabato 21 ottobre 2023

Israele e i palestinesi: “la enmarañada cuestión de la tierra”


 

Titolavo così, parecchi anni fa, un documentario realizzato con Massimiliano Fabrizi e Carolina Cenerini che esplorava l’intricata questione della terra nel Paraguay del neo-presidente eletto Fernando Lugo.

 

A quei tempi il presidente mi aveva chiesto di lavorare con lui su questo tema, per cercar di venir fuori da un problema figlio del colonialismo europeo e che condannava una maggioranza di contadini e contadine, e una larghissima maggioranza di indigeni, a una miseria sempre più grave.

 

Lavorammo intensamente, facendo intervenire altri amici che avevano lavorato con la prima presidenza di Lula in Brasile, alla ricerca di un possibile terreno di intesa fra le parti in causa. 

 

Alla fine non se ne fece nulla per delle ragioni che mi sono tornate in mente in questi giorni dopo il terribile assalto terroristico di Hamas.

 

Aggiungo anche che una decina d’anni fa fummo chiamati (come FAO) a formulare un progetto sulle questioni di acqua e terra, nei territori palestinesi, per cui avemmo l’occasione di incontrare vari responsabili dell’Autorità Nazionale Palestinese (il cui capo è sempre Abu Mazen), assieme a una collega FAO, di origine palestinese, profonda conoscitrice delle dinamiche di potere locali, dato che le avevano proposto di entrare nel governo dell’ANP.

 

Riassumendo la situazione, oggi sabato 21 ottobre. Dal momento del primo attacco sono già passate quasi due settimane e, passato la prima ondata di sdegno mondiale e appoggio totale ad Israele, assistiamo, impotenti, a una reazione, comprensibile, sconclusionata fatta di bombardamenti, morti civili a bizzeffe e ordini di spostamenti della popolazione di Gaza che risuonano come i diktat delle peggiori dittature. L’ultimo missile, di chiare origini israeliane, arrivato sulla chiesa ortodossa, con 17 morti, non fa altro che peggiorare una situazione che va velocemente verso il peggio.

 

In Israele, le forze che appoggiano il governo di Bibi Netanyahu sono quelle più a destra che si possa immaginare. Per loro, come per Bibi, la vera, unica soluzione, sarebbe di ammazzarli tutti, Hamas e palestinesi, così che tutto il territorio venga messo sotto il controllo degli ebrei di Israele.

 

Bibi, rendendosi conto che non ha un futuro brillante davanti a sé – dovrà dimettersi alla fine di questa “guerra” e troverà probabilmente i giudici pronti a metterlo in galera per tutte le storie di corruzione che si porta dietro – è molto tentato dall’avventura terrestre, cioè l’invasione.

 

Essendo incazzato nero, ed ascoltando solo quelli che lo sono come e più di lui, questo scenario domina da parecchi giorni.

 

Biden se n’è reso conto, e per questo ha fatto questa inusuale visita a Tel Aviv in tempo di guerra per mettere Bibi e il suo governo sull’attenti: non rischiate una invasione perché andrà a finire come per noi in Afghanistan. Consiglio saggio, che però non sbroglia la situazione. In più, schierandosi senza sì e senza ma dalla parte israeliana, Biden perde molti punti nello scenario di un eventuale processo negoziale futuro. Gli USA non possono parlare con Hamas, men che meno Israele, per cui devono trovare qualche altra pensata.

 

Da quanto sappiamo dai giornali, Bibi non ha nessun piano concreto per il “dopo”. Supponendo che l’invasione vada benissimo, che non muoia un solo soldato/soldatessa israeliana e che invece vengano distrutti quelli di Hamas – e gran parte delle infrastrutture civili della fascia di Gaza, la domanda del cosa Israele voglia fare dopo è totalmente senza risposta.

 

Una occupazione permanente, tipo un regime di apartheid sudafricano, viene scartata da molti israeliani, quelli stessi che, anche da un angolo progressista, hanno difficoltà ad ammettere che la sola soluzione di medio-lungo periodo sia quella dei due stati: Israele e Palestina.

 

Lo ha detto Biden, lo ha ripetuto Mattarella, il Papa ed anche i cinesi. Ma non sono in molti a dirlo in Israele. Poche voci che non hanno un seguito popolare molto ampio.

 

Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che ogni giorno che passa, senza questa temuta invasione, non fa altro che portare acqua al mulino Hamas. Le manifestazioni in quasi tutte le piazze arabe, hanno convinto tutti quei regimi poco democratici a non sfidare il proprio popolo, mettendosi anche loro dietro le bandiere palestinesi. Ma questo appoggio popolare alla Palestina porta con sé anche un appoggio, delle frange estremiste, ad Hamas.

 

Se Israele non interviene, come ha detto fin dal primo giorno, con frasi tonitruanti, rischia di far passare il messaggio che Hamas ha vinto. 

Se Israele interviene, è abbastanza sicuro che, anche vincendo militarmente, rischia di mettere fuoco alle polveri per l’intera regione.

 

Quindi, che fare? La Cina, il Papa e Mattarella hanno espresso chiaramente la loro posizione: due stati, basati sui confini internazionali (cioè quelli del 1967) e poi sedersi a negoziare.

 

Già la prima parte, ce ne rendiamo conto, sembra difficile finché in Israele comandano i religiosi ed i fascisti alleati di Bibi. Ricordiamoci che tornare a quelle frontiere, le uniche riconosciute, significherebbe dover abbattere tutti gli insediamenti illegali promossi da Israele, da Sharon e in particolare da Bibi in questi anni. Altra polveriera, difficile da disinnescare.

 

Ma poi, sedersi con chi? La Cina parla con Hamas, per cui lei potrebbe fare questo primo miracolo, come ha già fatto con la firma degli accordi tra Iran e Arabia Saudita, cioè portare a una apertura di negoziazione che contempli Israele, ANP, Hamas e i vari paesi internazionali indispensabili per calmare le acque: USA, Inghilterra, EU – dalla parte Israeliana, vari paesi arabi, con Egitto, Arabia Saudita e Giordania in testa, in seconda fila l’Iran e il Libano, nonché la Russia e la Cina. Un posto speciale potrebbe andare a Papa Francesco, come autorità morale, per facilitare l’inizio del dialogo.

 

Un processo di questo tipo, che già sembra molto ma molto complicato, avrebbe da affrontare, oltre la questione delle terre da restituire da parte Israeliana, anche la questione dirimente di Hamas che, semplicemente, non accetta l’esistenza di Israele, sic et simpliciter.

 

Quindi si ritorna al ruolo cruciale di una autorità palestinese che, nel libro dei sogni, dovrebbe prendere in carico l’amministrazione di Gaza dopo che Hamas sia stata annientata.

 

Ricordiamo, per chi non lo sapesse, che oltre le colonie illegali degli israeliani, una questione di fondo che è una mina vagante dal 1967, riguarda il controllo dei bacini idrici del Giordano, di “proprietà Giordana e Palestinese” di cui Israele si è impossessata dopo la rovinosa guerra dei sei giorni del 67 e la perdita delle alture del Golan. Lo stesso problema esiste a Gaza: l’acqua sottoterra se la prendono gli israeliani, e dovrebbero restituire anche quella.

 

Insomma, ci vorrebbe un miracolo perché Israele cominci seriamente a pensare a un futuro di pace e stabilità, perché dovrebbe pagarne un prezzo molto alto, anche se inevitabile se si vuol venirne fuori.

 

Dall’altra parte però la situazione è ancora peggiore. 

 

La nostra esperienza quando andammo a preparare il nostro progetto, fu la constatazione che il problema da cui partire, nelle condizioni storiche date, era quello che un mio amico cileno ha così ben riassunto: “primero, ordenar en su casa”. Mettere ordine in casa propria.

 

Il livello di corruzione, incompetenza, nepotismo che domina nelle istituzioni palestinesi, era talmente forte che la nostra proposta, di partire da un lavoro di rafforzamento democratico e trasparente delle istituzioni responsabili per l’acqua e la terra, venne scartata e non se ne parlò più.

 

Nascondere il problema sotto il tappeto, è quello che l’ANP ha fatto fino ad oggi, rendendo palese al mondo intero la mancanza totale di credibilità agli occhi della stessa popolazione della Cisgiordania. Non parliamo poi di Gaza dove, anche senza le esazioni di Hamas, pare evidente che l’appoggio a Abu Mazen raggiungerebbe cifre uguali a quelle del partito di Renzi.

 

Ma Abu Mazen e i suoi non vogliono (non possono?) lasciare il potere, perché il loro futuro personale potrebbe essere molto compromesso. Ma finché restano, non esiste nessuna speranza di poter pensare al dopo.

 

Chi potrebbe imporre alla dirigenza di ANP di farsi da parte e partire in esilio da qualche parte, così da lasciare campo libero a nuove forze – di cui non sappiamo nemmeno se esistono? Di certo non gli americani, e probabilmente nemmeno i Cinesi. Ma se non salta fuori qualcuno a fare questa pulizia, non vedo proprio da che parte si possa cominciare.

 

Israele deve rispondere velocemente, magari – sotto il controllo americano – faranno meno danni dei tanti che già stanno facendo, ma nello schema della Realpolitik, questo passerebbe come una risposta “misurata”. Ma non possono entrare e restarci per molto, pochi giorni, una-due settimane al massimo, ma poi bisogna fare spazio al “dopo”. 

 

E secondo me, il “dopo” nasce dalla sostituzione di Abu Mazen ed i suoi, con una nuova “governance” democratica e meno patriarcale, mettendo magari una donna al comando, ed io un nome ce l’avrei: Hanan Ashrawi (vi invito a leggere questo articolo: https://www.assopacepalestina.org/2023/09/14/hanan-ashrawi-ho-detto-ad-arafat-israele-ti-promette-un-pollice-e-non-ti-da-un-millimetro/).

 

Partire da lì e poi sperare che gli altri miracoli si materializzino. 

Certo che, se tutto questo succedesse, i rapporti internazionali ne uscirebbero molto cambiati, probabilmente molto più multipolari (con un ruolo maggiore della Cina), ma forse tutto questo permetterebbe di calmare le acque anche altrove.

Tutto questo è però un sogno. Che Israele inizi concretamente quei cambiamenti di cui parlavo sopra, che l’ANP sia sostituita da persone nuove, femminili, e che si trovi un modo per negoziare e concordare una via d’uscita che non sia come gli accordi di Oslo, sembra realmente un sogno. 

 

 

 

 

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