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martedì 20 dicembre 2011

Per iniziare un anno che sia realmente nuovo (dedicato ai miei colleghi e amici di lavoro) …


Di cosa avremmo bisogno è abbastanza facile dirlo, soprattutto per uno che da oltre vent’anni porta avanti queste lotte contro l’ingiustizia sociale, la povertà, la fame nel mondo e chi la provoca. Chi di noi non ha ancor smesso di sognare sa che ogni giorno dobbiamo lottare, da una parte, con governi che hanno interessi e filosofie che non sempre vanno di paro con gli impegni presi a livello sia internazionale che a casa loro. La retorica fa parte delle relazioni internazionali, inutile nasconderselo, il punto è di non farsi sommergere e non abbandonarsi ad essa. Cosa fare nel lavoro quotidiano per cercare di far cambiare idea a quei governi? Questa è una prima dimensione del lavoro nostro. Al di sopra di questi governi troviamo interessi più grandi con i quali arriviamo raramente, noi tecnici, a interloquire direttamente; ma esistono, e attraverso le loro lobbying condizionano chiaramente le scelte dei governi e delle organizzazioni internazionali, ovviamente in favore dei loro interessi, anche se mascherati da tonnellate di buoni propositi. Restando nel settore privato, agricolo, industriale, turistico o che altro, l’atteggiamento comune nei confronti dei sud del mondo è quello di entrarci come fossero a casa propria, anzi peggio, entrando e prendendo quello che c’è in nome dello sviluppo economico che farebbe del bene a tutti. Abbiamo a che fare con loro, dato che sono quelli che si accaparrano terre, foreste ed acqua e con i quali aprire un dialogo non è esattamente facile.

Poi abbiamo la nostra stessa burocrazia, che sembra fatta apposta per non far andar avanti il lavoro sui temi fondamentali per i quali esistiamo. Non è tanto un problema di regole amministrative che cambiano continuamente, quello fa parte del gioco, ma il rapporto di forza tipico tra chi sta dietro e chi sta davanti a una scrivania. Chi sta dietro conosce a menadito le regole, dato che spesso sono fatte su consigli di quelle stesse persone, e chi sta davanti, nella realtà quotidiana, deve semplicemente abbassare il capo e accettarle, per non farsi trascinar via. Il principio rettore è l’inverso di quello che ci vorrebbe in un’organizzazione chiamata ad essere cosa diversa da un ministero, ad essere quella che sprona i governi a cambiare, a mettersi d’accordo su azioni concrete e poter vedere dei risultati. In un’organizzazione così il capitale più importante sarebbe il capitale umano, con un’importanza crescente mano a mano che ci si allontana dai centri di potere. Chi sta sul terreno (sul serio, non nelle capitali dei paesi), e quindi è a contatto diretto con i nostri interlocutori e così facendo rappresenta l’immagine vera, quotidiana di chi siamo e cosa facciamo, ecco, quelli e quelle lì dovrebbero essere le persone più ascoltate da chi sta sopra, incoraggiate, seguite e riconosciute nel loro lavoro. Un’organizzazione che funziona come un ministero parte invece dal principio che chi sta lontano si possa controllare meno e quindi sicuramente pecca di più, per cui va tartassato e messo continuamente in una posizione di soggezione. Al contrario, chi sta vicino al centro di potere va lodato in modo che non si dimentichi del piccolo favore fattogli, il giorno che ci sarà un concorso interno per far carriera.

Aggiungiamoci poi i managers scelti su criteri più simili a logiche tipo manuale Cencelli che ad altro e che, una volta insediati, devono innanzitutto obbedienza a chi li ha messi e non ai valori che dovremmo difendere, anche a costo di dovere lottare contro quegli stessi paesi che ti hanno messo lì.

La tua possibilità di scelta, quando inizi a lavorare con queste organizzazioni, tende a limitarsi a due alternative fondamentali: abbassare la testa, trovare un angolo dove nasconderti e cercar di far qualcosa che non dispiaccia a nessuno, tirando avanti fra un caffè, cappuccino con cornetto e l’altro oppure provare a lottare per cambiare quel modo di essere e fare. Un vecchio capo, americano, conoscitore della casa, diceva che spesso i funzionari motivati si trovano a fare delle cose “in spite of their chiefs!” cioè malgrado i loro capi.

Quante volte mi sono ripetuto questa frase, quando vedevo quanto poco contavano i contadini e le loro organizzazioni nelle scelte strategiche ed operative della nostra organizzazione. Stare dalla parte della banca mondiale o delle organizzazioni contadine era una scelta già fatta in partenza. Provare a elaborare una propria posizione, per dimostrare che ci siamo anche noi, diventava ancora più difficile perché non è che dal lato delle organizzazioni contadine le cose siano necessariamente meglio.

Quindi in mezzo a tutto questo senti che il tuo livello di stress semplicemente va accumulandosi. Non siamo esposti agli stress improvvisi di molte altre professioni, ma a gocce che vanno accumulandosi e che ti portano alla lunga a un malessere che ha ripercussioni su di te, la tua famiglia e ovviamente anche il tuo lavoro. Ma di questo non si parla, il problema non esiste.

Noi sappiamo invece che il problema c’è ed è più amplio di quanto non si creda. La risposta implicita di chi viene a trovarsi in queste situazioni è, normalmente, quello di lasciar perdere, di fregarsene e mollare tutto. In questo modo, un capitale umano che si è formato (spesso da solo) durante anni di lavoro fra il terreno e i corridoi, apprendendo come portare avanti proposte, leggi, politiche, il tutto “in spite of their chiefs”, arriva a un punto quando, capendo che a nessuno di quelli che stanno sopra gli interessa realmente granchè di quello che fai sul terreno, allora molla. Proprio nel momento in cui più avrebbe da dare, in termini di esperienza accumulata e quindi più potrebbe esser utile, è proprio quando viene perso e la barca continua ad andar avanti con le stesse regole e gli stessi giochetti di sempre.

Chi ci passa un periodo corto, difficilmente può rendersi conto dell’effetto a medio e lungo termine; è come l’erosione della terra, non la vedi l’anno dopo aver fatto una cattiva aratura, ma pian piano, continuando così in alcuni anni ti ritrovi senza terra e non capisci il perché. Ecco, chi di noi ci è dentro da parecchio, può farsi un’idea degli effetti cumulativi delle gocce di cui parlavo prima. Si chiama perdita di credibilità. Tutto qua.

Quello di cui avremmo bisogno sarebbe solo questo: che si capisse da dove circola il sangue e si rovesciasse la piramide, mettendo davanti gli ultimi. Il capitale esiste, non saranno i soldi a far cambiare idea ai governi, ad assumere iniziative più cogenti sui temi della fame e povertà, ambiente e sviluppo, ma il lavoro quotidiano di gente dedicata, che ci crede e che si sente incoraggiata nel proprio lavoro. Fare gruppo, esser presenti, ricordarsi che grazie a chi sta sul terreno siamo riconosciuti.

Metto qui una foto del primo titolo che una donna mozambicana è riuscita ad ottenere per il suo pezzetto di terra, e questo grazie a un progetto nostro assieme a delle ONG locali, nonché, ovviamente, l’azione del governo che, pian piano, ha modificato politiche e leggi su questi temi. Ne abbiamo tre titoli così: anni di lavoro per cui io dico grazie ai nostri sul terreno, grazie a nome dei colleghi con cui seguiamo questo paese da tanti anni. Spero che un giorno qualcuno più in alto dirà grazie anche a noi.

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