Come dicevo in precedenti post, essere a casa in malattia
permette di aver tempo per pensare. E una delle cose a cui penso è il
progressivo accaparramento delle risorse naturali, terra in primis.
Mi è tornata in mente l’eterna disputa fra i neoliberali,
sostenitori della centralità del mercato, e i loro oppositori, fra i quali mi
iscrivo. E l’immagine del Monopoli mi è venuta da sola. Più o meno tutti
abbiamo un’idea di come si gioca. Si distribuiscono in quantità uguali dei
soldi e poi delle proprietà che, essendo di valore diverso, fin dall’inizio
creano una certa asimmetria, ma non enorme, fra i giocatori. Possiamo
assimilare questo a un mercato abbastanza perfetto, dove non ci sono giocatori
senza nessuna proprietà e senza un soldo, ma dove più o meno si parte a carte
uguali e, soprattutto, regole uguali. E’ autorizzata la negoziazione, anzi
stimolata e ognuno persegue così i propri obbiettivi.
Poi si parte gettando i dadi, e mano a mano che si va
avanti, la dinamica del gioco porta a che qualcuno si ritrovi proprietario di
Parco della Vittoria e simili, i più cari ed altri restano a Vicolo Corto e
Vicolo Stretto, le scartine che non valgono granchè. Tutto democratico, nessuna
corruzione e regole trasparenti. Nessun intervento dello Stato, nessuna politica
fiscale etc. etc. e pian piano il mercato dimostra che uno prende tutto e vince
e gli altri restano per strada. Il mercato quindi non tende a equalizzare ma
anzi a differenziare le posizioni, accelerando mano a mano che si va avanti,
fino alla completa spoliazione di chi ha meno.
E’ come un fiume che dalla sorgente inevitabilmente scende
al mare. La sorgente sono i poveri, che portano acqua al mare magnum dei
ricchi. Il fiume non può andare controcorrente, questa è la sua natura. Per cui
se non mettiamo in atto un sistema in grado di bilanciare questa situazione, la
spoliazione continuerà, ancora e ancora.
La storia recente dell’accaparramento delle terre, o land
grabbing come tutti lo chiamano, dimostra quanto scarsa sia la dimensione
storico-processuale da parte di quanti se ne interessano. Non ho l’ambizione di
aver letto tutti gli articoli o libri scritti sull’argomento, ma mi son fatto
un’idea al proposito. In una società sempre più presa dall’immediatismo, quello
che si cerca di sapere è quanti ettari siano stati presi, quali clausole
contrattuali e da parte di chi. Interessi legittimi, ma che non aiutano a
capire il sistema nel quale questo fenomeno si inserisce, da dove venga e dove
rischia di andare a finire.
Fin dal 1968 si erano poste le basi, culturali, per andare a
fregare le risorse naturali in quei paesi, e continenti, dove erano presenti in
forze. Hardin, con il suo famoso e discusso articolo sulla tragedia dei beni
comuni è riuscito nell’impresa di ripetere il falso storico dei protocolli dei
Saggi di Sion, usati per giustificare l’odio contro gli ebrei e poi il nazismo.
La tragedia dei commons voleva mettere in chiaro per i
nostri benpensanti, di tutti i colori, che sti poveri africani, se lasciati per
conto suo, con quei sistemi tradizionali di usare le risorse naturali,
avrebbero portato alla rovina del continente. Era falso, ma l’idea passò. E
ancora oggi ci dobbiamo difendere contro queste tesi che vengono contonuamente
ripetute da chi non ha mai fatto del terreno o non ha mai voluto capire l’intrinseca
superiorità, in quelle condizioni, dei sistemi consuetudinari rispetto alla
individualizzazione delle proprietà.
La domanda che uno si fa riguarda sempre il perché delle
cose. Hardin voleva solo scrivere un articolo o aveva altre idee per la testa,
forse nemmeno coscienti per lui stesso? E come mai questo articolo, che avrebbe
dovuto essere cestinato fin dall’inizio, ha avuto così tanto successo? Beh, la
storia è abbastanza semplice: faceva parte di un mainstream politico ideologico
tendente a delegittimare fin dal nascere i sistemi di accesso, uso e gestione
delle risorse naturali dei nascenti paesi in via di decolonizzazione, per
confermare la superiorità storica dei nostri sistemi
politico-legislativo-instituzionali.
Il tarlo che questi negretti non sapessero gestire le loro
risorse andava installato di pari passo con l’idea di una cooperazione benevola
dal nord al sud dove lo scopo principale era invece di assicurare il controllo
di quelle risorse in solide mani straniere.
A questo fece seguito la tempesta dei programmi d’aggiustamento
strutturali negli anni ottanta che riducevano le prestazioni dello Stato nei
settori chiave di salute, educazione e servizi agli agricoltori, in modo da
liberare il terreno da eventuali intrusi locali. A questo si accompagnava il
rispolverare delle teorie di Ricardo sui vantaggi comparati per cui i sistemi
agricoli africani dovevano modificarsi per adattarsi al mercato globale:
specializzarsi in produzioni da export, caffè, cacao… e lasciar perdere i
prodotti di autoconsumo. Come una droga: funziona la prima volta, ti da un’euforia
che ti invita a riprenderla e poi ti rendi conto di essere diventato schiavo. Alla
Costa d’Avorio, uno dei tanti (oltre 25 in Africa) paesi messi sotto il
controlo dei PAS, era stata “ordinato” di rafforzare le proprie produzioni di caffè
e cacao (dato che nel vicino Ghana la situazione politica era molto instabile,
contrariamente alla Costa d’Avorio) e lasciar perdere la produzione di riso per
autoconsumo, che tanto c’era il riso tailandese sul mercato a un prezzo che
avrebbe permesso a tutti di mangiare a sazietà. In soli tre anni la Costa d’Avorio
è diventata mangiatrice di riso tailandese, e non appena il prezzo del caffè e
del cacao sogni scesi, l’altra faccia della medaglia si è mostrata: debiti
crescenti per comprare il riso e placare il malumore urbano, aumento del lavoro
nelle piantagioni per aumentare la produttività perché, nel frattempo, altri
paesi nel sudest asiatico diventavano competitivi per il caffè (Vietnam, a
quell’epoca), seguendo le ricette di indovinate chi? Gli stessi che avevano
consigliato la Costa d’Avorio.
Il paese si è rovinato, è iniziata una guerra civile di cui
forse cominceremo ad occuparci alle radici, cioè il problema fondiario (che non
esisteva prima dell’intervento degli esperti internazionali). Va anche
ricordato la scarsissima propensione, allora come oggi, ad occuparsi della
casta di corrotti che erano stati installati alla guida dei nuovi paesi del
sud, foraggiati dagli interessi del nord perché continuasse la stessa politica
di spoliazione.
Il problema non è la Costa d’Avorio o il Ghana. Il punto è
di capire a cosa servivano, nel medio lungo periodo questi aggiustamenti. Lo
stiamo vedendo da parecchi anni. Ma andiamo per ordine.
Fine anni 80 arriva il terzo pilastro: la teorizzazione in
buona forma della mercantilizzazione delle terre. In altre parole: con una mano
si riducevano drasticamente, o eliminavano, istituzioni pubbliche, politiche e
programmi in favore delle agricolture del sud, e con l’altra si teorizzava il
mercato come miglior allocatore di beni economici (il significato della terra era
stato ben perimetrizzato dentro le salde mura dell’economia).
A forza di spingere, via università, ONG, organismi
internazionali, la questione dei mercati della terra si stava imponendo.
Esistevano centri e persone che lavoravano su altre visioni, ma i rapporti di
forza erano quelli che erano. In quegli anni anche due grossi paesi come le
Filippine e il Brasile erano tornati nel girone dei democratici, rovesciando le
dittature che li avevano governati per anni. In tutti e due i casi la questione
agraria si impose da subito, grazie a movimenti contadini appoggiati da ampli
strati (alla base) della Chiesa cattolica. Questo pose il problema delle
riforme strutturali delle campagne, al centro del dibattito: da un lato questi
movimenti nascenti, MST, Via Campesina etc. e dall’altro i fautori della via
mercato. Venne anche teorizzata una riforma agraria attraverso i meccanismi di
mercato. Delle prove vennero fatte in molti paesi, Colombia, Brasile,
SudAfrica, Filippine etc.. Malgrado i continui aggiustamenti di tiro (e di
nome), non ce n’è uno solo che abbia funzionato. Ma di questo non se ne parla,
si è continuato a criticare il modello centrato sullo Stato e le sue
istituzioni. Modello fallito, che non ha saputo autoregolarsi etc. etc. Tutto
vero, per carità, ma dall’altra parte non sono riusciti a far meglio.
Grazie alle lotte contadine fu possibile non soccombere
completamente sotto il dio mercato, malgrado che la riconcentrazione delle
terre avesse ripreso nella stessa direzione di sempre. Per questo, a un certo
punto, provammo a rimettere al centro del dibattito la questione strutturale
della riforma agraria, con un’analisi critica del ruolo dello Stato, i suoi
fallimenti, ma anche ripetendo alto e forte che bisognava tornare a investire
sulle istituzioni statali, dall’educazione rurale alla volgarizzazione
agricola, al credito etc. Ma non era solo questo: per noi bisognava anche
democratizzare queste istituzioni, favorirne un’evoluzione più partecipata,
aperta al dialogo e alla collaborazione, partendo dall’assunto del
riconoscimento dei diritti territoriali storici delle comunità locali ed
indigene. Fu chiaro chi venne e chi non venne a Porto Alegre nel 2006. E fu
chiaro anche chi bloccò ogni tentativo di portare avanti i principi della
dichiarazione finale.
Oggi assistiamo quindi, sul terreno del Monopoli mondiale,
al dispiegarsi completo delle batterie dell’accaparramento:
-
Istituzioni statali deboli o, semplicemente,
assenti a livello locale; e simultaneo non riconoscimento dei ruoli di
gestionari delle risorse da parte delle comunità locali
-
Classi politiche facilmente corruttibili, mai
seriamente messe in causa da chi, all’inizio, aveva facilitato la loro ascesa.
Quindi ricattabili o, almeno, facili prede da parte degli interessi del nord
-
Quadri politico-legislativi insufficienti e
quasi inesistenza di servizi e istituzioni giuridiche nel sud, corollario di
quell’aggiustamento strutturale di cui si parlava prima
-
Pressioni crescenti da parte del Nord, che
fomenta conflitti, si prende territori, obbliga milioni di persone ad andarsene
dai loro luoghi tradizionali e
-
Continua invenzione di giustificazioni
(ammantate da generiche posizioni a favore dello sviluppo, sostenibile..) per
non solo continuare ma anzi accellerare lo spolio delle risorse.
Sarà perché le risorse si riducono, cosa che sappiamo da
oltre un decennio, che la popolazione aumenta e che, in certi settori
popolazionali, nuovi bisogni portano a cercare nuovi beni (non più solo le
terre, ma anche le terre rare, prodotti fondamentali per l’industria
telefonica). Quindi non si cerca più solo il petorlio, il gas, i diamanti e
pietre preziose, il legname, il carbone, ma anche l’aria che producono le
foreste del sud, sempre evitando scrupolosamente che i veri attori, comunità
locali, possano far parte di queste negoziazioni.
Le asimmetrie sono aumentate, di informazione, di potere; le
comunità locali sono assediate da una molteplicità di programmi di sviluppo che
non hanno mai chiesto, senza peraltro ottenere mai una risposta alle domande
basiche di riconoscimento dei loro diritti. I falchi sono tanti, ed anche
divisi fra loro, ma anche i movimenti contadini non hanno più l’impeto di dieci
anni fa.
La situazione sembra senza sbocco, ma quel che mi preoccupa
è che nemmeno dal basso si ritorna a pensare a ripartire dalle fondamenta. Oggi
abbiamo paesi che, per scelte deliberate dei loro governi, hanno provocato
dinamiche di desertificazione enormi nei loro paesi. Rivertire questo processo
richiederà decenni, se mai ne saranno capaci. Le buone terre (e acque) vengono
prese dalle città in espansione, dai campi di golf, dai residence turistici
etc. etc… quindi sempre meno terra buona, pianeggiante e fertile, quella terra
dove potrebbero dare dei buoni frutti le nuove varietà, che oramai sono
arrivate ai limiti genetici. Per cui per mandare avanti la baracca bisogna
mantenere alte dosi di fertilizzanti, altrimenti la terra si sterilizza del
tutto, prodotti chimici, diserbanti, defoglianti, nipotini del Napalm etc. Ma
questa non potrà essere la soluzione proprio perché inevitabilmente le terre
buone si riducono, e queste varietà costano troppo per metterle su terre
degradate o in declivio o non perfette. Su queste altre terre, che si
potrebbero recuperare, andrebbero molto bene le varietà locali, uscite da
selezioni contadine di centinaia (o migliaia) d’anni. Ma una lotta senza
quartiere è stata intrapresa contro la diversità genetica. Delle 8000 specie
esistenti in natura, alla fine ci troviamo con tre di loro a coprire il 60% del
mercato globale.
Per rimettersi a recuperare le terre ci vorrebbero prima di
tutto Stati sovrani e istituzioni capaci di lavorare: ma il 95% della ricerca
in agricoltura è nelle mani dei privati, le stesse compagnie che producono i
semi, i prodotti chimici e alla fine arrivano a controllare i mercati, cioè
cosa ci finisce nel piatto.
Avremmo anche bisogno di una rivoluzione culturale, che
parta da chi la fa l’agricoltura, dalle diversità di produttori e produttrici,
rivalorizzando il loro ruolo storico di mantenutori di paesaggi, di diversità e
di sapori e colori che poi cerchiamo quando andiamo a comprare gli alimenti.
Il grabbing attuale andrà avanti, perché l’inerzia di un
movimento lanciato trent’anni fa non si potrà fermare nel giro di 5-10 anni. Il
rischio che incorrono questi Trust che si stanno accaparrando le risorse sono
le rivolte locali che, col prezzo delle armi in discesa, potrebbero diventare
delle rivolte armate. Ma anche a questo ci hanno pensato, spostando
progressivamente la governance mondiale fuori dagli Stati, che vengono però
lasciati soli davanti alle loro cittadinanze, così da riempire il ruolo di
responsabili diretti, e facendo da scudo
per il magma economico-finanziario che ci sta dietro. Questo meccanismo lo
abbiamo visto all’opera in questi ultimi anni, con la crisi nella quale siamo
immersi: la colpa è dello Stato e del suo governo, e i benefici sono sempre
privatizzati per le banche ed altri centri di potere.
In questo modo, l’orizzonte probabile sarà fatto di
conflitti contro lo Stato, ribellioni più o meno popolari, ma senza intaccare
il meccanismo che ha generato questo fenomeno.
Possiamo fare qualcosa? Credo, anzi voglio sperare di sì, ma
questo implica una riflessione seria e profonda su una politica di alleanze fra
i movimenti contadini, privilegiando le parti che uniscono rispetto a quelle
che dividono, alleanze che devono andare oltre, cioè integrare i pochi centri
di ricerca pubblica, quelle ONG che sul serio si battono contro questi
fenomeni, e cercare di appoggiare chi, nei centri di potere, governativi,
intergovernativi e organismi internazionali, cerca ancora di portare avanti
queste lotte.
La difficolà è di saper leggere cosa sta succedendo, evitare
di perdersi per strada sui vari trabocchetti che vengono continuamente
preparati e fare squadra. I rapporti di forza non sono favorevoli, ma se in più
continuiamo a giocare separati, l’unica cosa sicura sarà che avremo perso senza
nemmeno lottare.
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