Visualizzazioni totali

domenica 5 marzo 2017

Filippine: Duterte, accordi di pace a Mindanao e la riforma agraria

Duterte, che fare con lui?

Rodrigo Duterte è Presidente delle Filippine, eletto democraticamente nel giugno dell’anno scorso. Già durante la campagna elettorale ne aveva detto di tutti i colori, riuscendo anche a sfidare direttamente la chiesa cattolica con epiteti che sarebbero immediatamente censurati da Facebook, contro papa Bergoglio. In un paese con oltre l’80% della popolazione cattolica, bisognava aver coraggio per imbarcarsi in una tale avventura. Malgrado questo, la gente lo ha votato, riconoscendo in lui uno di loro, dimenticando velocemente che le sue origini sono del tutto estranee alla povertà di cui tanto parlava. Duterte ha fatto del tema sicurezza il leitmotif della sua campagna, vantandosi dei tanti omicidi realizzati dalla sua polizia quando era sindaco di Davao, la capitale di fatto dell’isola di Mindanao, teatro di guerriglie mussulmane da parecchi decenni e dove un accordo di pace era stato negoziato e poi firmato (nel 2014) dalla amministrazione precedente.

Arrivato alla presidenza, Duterte ha continuato a martellare sulla stessa questione, dando mano libera alla polizia di ammazzare tutti i sospetti di traffico di droga e altri delitti. Migliaia di morti sono già stati censiti, la stampa che osa criticare viene ridotta al silenzio. Tutto questo fa di lui una persona non grata nel contesto occidentale, ancor meno in America soprattutto dopo aver cominciato un processo di riavvicinamento con la Cina, allontanandosi così dall’orbita americana. Cosa pensi fare Trump resta ancora da vedere. Nel frattempo noi europei vediamo in lui un pazzo furioso e non riusciamo a capire cosa stia succedendo in questo paese.

E il post-conflitto a Mindanao?

In tutto questo, l’altro tema centrale riguarda la guerriglia che, a Mindanao, dura da molti decenni. L’accordo di pace firmato nel 2014 si era di fatto bloccato perché il parlamento (precedente) non aveva voluto votare le riforme legislative per creare una zona indipendente nell’isola (una specie di federalismo spinto, per dare una forma di autogoverno alle popolazioni mussulmane locali).

Duterte è stato eletto anche grazie all’appoggio di movimenti islamici moderati di Mindanao. Da subito ha fatto sapere di essere favorevole a spingere sull’acceleratore per mandare avanti gli accordi firmati, che la sua amministrazione avrebbe riconosciuto. Il panorama politico, già complicato di suo a Manila, trova un pendant naturale anche a Mindanao: oltre al Fronte di Liberazione  Islamico Moro (MILF), principale negoziatore dell’accordo di pace, Duterte ha aperto un dialogo anche con il Fronte Nazionale di Liberazione Moro (MNLF), nonché con altri gruppi indigeni minori, in modo da rendere più inclusivo il processo, ma rendendolo allo stesso tempo più complicato perché di fatto il MILF ha perso l’egemonia che aveva al momento della firma dell’accordo. Seguendo la legge di Murphy, per cui se le cose possono complicarsi, si complicheranno, altri soggetti politico-militari hanno iniziato ad avvicinarsi al processo: da una parte il gruppo di Abu-Sayyaf, altra frangia islamista che non aveva partecipato alle negoziazioni precedenti e, più recentemente, anche la guerriglia comunista del NPA, vecchio spina nel fianco da parecchi decenni. Con quest’ultima si è già arrivati a firmare un accordo quadro di cooperazione per le necessarie riforme socio-economiche (ottobre 2016) - col tema della riforma agraria e lo sviluppo rurale in pole position (un po’ come è accaduto in Colombia).

Tra alti e bassi (in questi giorni si stava discutendo di una possibile data di firma dell’accordo con NPA ad agosto, in Norvegia, quando Duterte ha deciso di sospendere le negoziazioni… vediamo se sarà roba di gironi o solo una posizione tattica) il processo va lentamente avanti, e sono in molti a pensare che la sua ascendenza personale su una parte almeno del mondo musulmano locale possa far sì che la pace torni a Mindanao. Non sarà per nulla un processo facile, soprattutto adesso che anche l’ISIS è venuto a installarsi nella zona, facendo una competizione dura agli altri movimenti che giudica dei mollaccioni e traditori.

Sul tappeto esiste una possibile proposta di scindere l’area autonoma sotto controllo musulmano in due sub-zone, una da dare a MILF e l’altra (che comprenderebbe le isole di Basilan, Sulu e Tawi-Tawi) al MNLF. Molti considerano questa idea un passo indietro soprattutto per quanto riguarda la viabilità economica di queste zone e altri si interrogano come questo disegno ci azzecchi col piano di Duterte di rendere le Filippine uno stato federale. 

Se non altro, Duterte ha il vantaggio di avere il parlamento dalla sua, dato che gode di una maggioranza schiacciante. Detto questo, va ricordato che al di là di un accordo generale di facciata, molti si aspettano delle imboscate parlamentari perché l’agenda di Duterte tocca interessi consolidati di famiglie poderose nel paese, che l’hanno appoggiato molto nella sua elezione. 

Vogliamo ricordarci della questione agraria?


Un altro di questi temi riguarda la riforma agraria. Processo ufficialmente iniziato col ritorno alla democrazia nel 1988 (con il Comprehensive Agrarian Reform Law - CARL e il Comprehensive Agrarian Reform Program - CARP) andato avanti abbastanza spedito finché si trattava di terre pubbliche, ha cominciato ad arenarsi appena affacciatosi alle terre private, di fatto mai espropriate, nonché nelle zone di competenza del ministero delle risorse naturali DENR (tutte le terre con pendenza superiore al 18%, strano criterio, ma vero). Le imboscate parlamentari hanno complicato molto le leggi della riforma agraria, corruzione locale e nazionale, incapacità varie insomma il solito campionario conosciuto, hanno fatto sì che il programma si arenasse, e solo la continua pressione delle ONG e dei movimenti contadini è riuscita a mantener in vita la discussione. 

Duterte ha nominato responsabile del programma un leader stimato e competente oriundo dei movimenti contadini, Rafael Mariano. Lo abbiamo incontrato questi giorni (vedi foto sopra) e il programma di lavoro che ci ha presentato ha tutto fuori che un’idea di ideologia. Proposte concrete, riorganizzazioni che possono essere fatte senza passare dal Parlamento, spingere per una giustizia agraria mobile che risolva, andando lei sul posto, il ritardo di oltre diecimila casi che si è ritrovato in saccoccia. Duterte ha anche rivitalizzato il moribondo Consiglio Presidenziale della Riforma Agraria (PARC) un organo che nei miei tanti anni di responsabile del programma FAO in appoggio alla riforma agraria non avevamo mai sentito parlare. Nella sua prima riunione il presidente ha ordinato un blocco immediato delle conversioni delle terre da agricole ad altri fini (una misura che tocca direttamente i grandi latifondisti che usavano questa manovra per evitare di diventare potenzialmente espropriabili).

Queste e atre proposte rischiano di rimettere in moto il programma, il che non è ovviamene negli interessi delle famiglie di cui si parlava prima. Da parte nostra abbiamo ripetuto tutta la nostra disponibilità, si tratti del tema del post-conflitto a Mindanao che della riforma agraria nazionale. 

I giorni e mesi che verranno ci diranno meglio e di più quale sia la vera faccia di Duterte, o se tutte e due compongano quella di un presidente con forti impronte fasciste, ma nello stesso tempo che rischi di andare a toccare interessi direi della classe politica agiata che lo ha eletto.


Difficile giudicare, perché se è vero che non possono esserci scuse per quanto riguarda il disprezzo per i diritti umani (che fanno di lui un buon candidato per la Corte Penale Internazionale non appena scadrà il suo mandato) d’altra parte sarebbe la prima volta che la pace potrebbe apparire all’orizzonte di Mindanao e anche che i senza terra e i beneficiari della riforma agraria venissero trattati da cittadini veri in questo paese.

Nessun commento:

Posta un commento